I
lampioni illuminavano il breve tragitto tra l’ufficio e la
fermata del bus, che
altrimenti sarebbe stato buio come la gola di un mostro. Le finestre
erano
illuminate oppure chiuse dalle tapparelle, il rumore della tv riempiva
la
strada vuota e gelida per l’aria invernale; nonostante
fossero solo le otto e
mezza, il mondo era già stato inghiottito dalla tenebra
sonnolenta ed
inospitale della notte invernale.
La
donna camminava stringendosi nel suo cappotto, infreddolita e
maledicendo gli
straordinari che aveva dovuto fare. Sottopagati, tra l’altro.
I tacchi
emettevano un rumore acuto, battendo sull’asfalto gelato del
marciapiede,
mentre i muscoli si contraevano in piccoli spasmi involontari per il
clima a
dir poco rigido della notte. Svoltò in una stradina
secondaria che sfruttava ogni
sera come scorciatoia: era meno illuminata di quella precedente, ma le
permetteva di guadagnare minuti preziosi, anche perché non
desiderava certo
prendere un taxi per tornare a casa. E poi proprio non le sarebbe
andato giù di
spendere soldi inutilmente, Emma aveva bisogno di un nuovo paio di
scarpe.
Forse
furono quei pensieri a distrarla, o forse le cose si svolsero troppo
velocemente, la donna non avrebbe mai saputo dirlo, nemmeno dopo.
L’uomo
era comparso davanti a lei con fare minaccioso. Era alto, grassoccio.
Non aveva
certo il fisico da rapinatore. Aveva un volto banale, dai tratti
regolari, di
quelli che ispirano solo indifferenza e che si attribuiscono a persone
dal
carattere bonario ma mediocre, prive di polso e di grandi ambizioni ma
incapaci
di nuocere perfino ad una mosca. Eppure alla donna sembrò
minaccioso,
spaventoso quasi quanto la più deforme e mostruosa delle
creature.
Le
puntava
un coltello addosso e teneva il cappuccio di una felpa scusa ben calato
sul
viso, eppure questa non poteva nascondere il suo aspetto, anzi, gli
conferiva
solamente un’ombra che lo rendeva ancora più
inquietante.
Le
parole si fecero subito strada tra le sue labbra, uscendo dalla bocca
della
donna come una specie di squittio agitato. –Non mi fare del
male.- supplicò e
tese la borsa con mano tremante –Ti… ti
darò tutto ciò che vuoi… ho dei soldi,
prendili.
Una
vocina,
un barlume di razionalità nella sua mente le disse che
quella era una
situazione ridicola… sembrava quasi un film. Era una battuta
da film. Ma la
donna non sapeva che altro dire… ed infondo,
cos’altro avrebbe potuto
inventarsi? L’uomo nero le puntava contro una lama affilata e
lei era sola e
spaventata. La paura le aveva paralizzato i muscoli, le gambe si erano
fatte di
gelatina e di piombo allo stesso tempo, tutte le sue membra tremavano
come se
il suo corpo fosse stato scosso da un violento terremoto e
l’adrenalina inondava
il sangue, i muscoli ed il cuore. La sua mente sembrava aver perso il
contatto
con la realtà, sconvolta dal timore che, secondo dopo
secondo, diventava panico.
L’uomo
le colpì la mano, facendo cadere a terra la borsa e tutto il
suo contenuto si
sparpagliò per terra: l’agenda, la pochette dei
trucchi, gli assorbenti, un
rossetto solitario, le gomme da masticare, il portafogli, le
chiavi… tutto
rotolò sull’asfalto freddo.
L’avrebbe
ricordato anche in seguito. I pezzi della sua vita normale finivano
lì, come
spazzatura… come lei. Lei era spazzatura, del resto.
Quando
vide le sue cose così sparpagliate, il panico divenne
definitivamente terrore. Avrebbe
voluto urlare, ma si trovò l’uomo davanti a lei,
l’alito che puzzava come una
carogna e il coltello che luccicava alla poca luce della stradina come
una lama
di ghiaccio, pronto a tracciarle un solco da un orecchio
all’altro, pronto a
bere il suo sangue. Rimase semplicemente con la bocca aperta, le parole
che le
si bloccavano in gola, strozzandola, impedendole il respiro.
Una
mano
si abbatté su di lei, sulla sua guancia e le fece richiudere
violentemente la
bocca. I denti affondarono nella lingua e nella carne soffice delle
guance e il
sapore ferroso del sangue si riversò sulle sue papille
gustative, facendole
montare la nausea. Cadde per il colpo e si ritrovò seduta
sulla terra fredda ed
intontita. Poi sentì l’umiliazione e le venne
voglia di piangere. Sì, voleva
piangere e singhiozzare, ma non fece in tempo, perché
l’uomo la trascinò verso
un androne deserto tirandola per i capelli e costringendola a seguirlo
camminando accosciata e gattonando.
In
un
attimo di coraggio, le mani piccole si strinsero attorno a quella
più grossa
che minacciava di scardinarle la testa dal collo e graffiarono, ma
ottenne solo
uno strattone più forte e una ciocca di capelli si
strappò, facendola scoppiare
in lacrime. Il cuoio capelluto le doleva come non mai.
L’uomo
fu subito addosso a lei, le chiuse la bocca con una mano e le
montò addosso,
puntandole il coltello in mezzo agli occhi. Sentì ancora
più freddo, mentre
gocce di sudore le imperlavano la fronte pallida come e più
di un cencio.
-Urla
e ti uccido. Adesso fai la brava e ci divertiamo.- disse
l’uomo. La donna non poté
far altro che annuire. Le girava la testa, se non le avesse tolto la
mano dalla
bocca, sarebbe svenuta. I suoi polmoni reclamavano sempre
più ossigeno, il cuore
batteva come una grancassa. Si rese conto di non sentire più
gambe e braccia.
Non
fece
nulla per fermare l’uomo nero che le strappava i vestiti, che
esplorava il suo
corpo. Rude, frettoloso, vorace, crudele. Ogni livido, ogni graffio,
ogni
palpata troppo forte le strappava un gemito, ma non urlò. A
volte trovava il
coraggio per sussurrare una supplica, ma quella cadeva nel vuoto.
L’uomo nero
non aveva orecchie.
Quando
la prese, si sentì umiliata e ferita. Avrebbe voluto
scappare, ma non ne aveva
la forza. Aveva paura. Le lacrime risucchiavano quel poco di forza che
le
rimaneva, la mente vorticava tra mille pensieri. Scacciò
Emma della sua testa. Scacciò
i suoi genitori. Era inerte tra le mani dell’uomo nero,
tranne quando lo
supplicava o quando un singhiozzo riusciva a trovare la forza di
risalire la
gola fino alle labbra.
Sentiva
il dolore esasperato dei quel rapporto consumato a forza, come tra
bestie. Poteva
sentire anche l’odore del sangue, che si mischiava ai miasmi
di quell’uomo.
Quando
lui finì, non ebbe la forza di muoversi. Lo vide alzarsi i
pantaloni e prendere
il coltello. Si allontanò quasi con calma e spensieratezza e
poi scomparve
nella notte.
La
donna
rimase immobile ancora qualche istante, altre lacrime le bagnarono un
volto già
fradicio. Aveva freddo, tanto. Si sentiva debole.
Riuscì
a rimettersi seduta… aveva perso una scarpa. Le calze erano
smagliate. Erano pensieri
stupidi che le affollavano la mente.
Aggrappandosi
al muro ruvido, si rimise in piedi. Barcollava come se fosse stata una
barca in
balìa di una tempesta. O forse era una naufraga?
La
stradina
era piena di ombre… di terrore. Quanto era durato? Un
secondo, un minuto, un’ora,
un’eternità? Forse sì, era durato
un’eternità. E ora la sua passeggiata
solitaria, immersa in una specie di orrida ovatta, in un mondo strano,
opaco,
sfumato era altrettanto eterna.
Non
avrebbe
mai potuto spiegare come arrivò a quel bar solitario, ma
avrebbe ricordato a
vita lo sguardo del proprietario e degli avventori. La confusione, poi
il lampo
della mente che realizzava, l’orrore e poi la rabbia, la
compassione e la
paura.
Qualcuno
la fece sedere, qualcuno diceva di chiamare un ambulanza. Qualcuno
disse che
sanguinava… era quello, dunque, a rendere le sue gambe
appicicaticce?
Qualcuno
le disse che sarebbe andato tutto bene, che era tutto
finito… sì, era finito,
si disse… era finito perché si era
stancato… però era iniziato… rivide
l’uomo
nero e scoppiò in lacrime. Tante sensazioni diverse le si
agitavano nel petto,
tanti frammenti di pensieri confusi le giravano nella testa come una
giostra
troppo veloce.
Timore,
paura, terrore… un rossetto solitario… le crepe
dell’asfalto… le calze
smagliate… l’alito fetido… le scarpe
nuove di Emma… la scarpa persa… il muro
ruvido… il marmo liscio… lo
straordinario… una lama luccicante… un lupo
mangiava Cappuccetto Rosso… il buio la
inghiottiva… il cuore batteva… il
freddo…
il freddo…
***
L’angolo
dell’autrice***
Buonasera.
Vi chiederete
perché una persona sana di mente voglia descrivere uno
stupro… be’, perché è di
moda no?
Sono mesi
che, girando per varie sezioni, vedo orde di fanwriter che scrivono di
stupri
molto… scenografici. La cosa mi ha infastidita e mi ha
stimolata allo stesso
tempo.
Volevo
scrivere facendo capire che no, uno stupro non è bello, non
è un sogno erotico,
la tua vita non continua come se nulla forse e no, lui non è
il principe
azzurro e allo stesso tempo volevo scrivere una storia in cui spiegare
i
meccanismi della paura senza risultare troppo pesante.
Spero
di esserci riuscita.
Ho deciso
di non dare un nome alla donna, perché credo sia
più facile provare ad
immedesimarsi, così. Per lo meno, io ci sono riuscita e devo
dire di avere
ancora i brividi. Ho veramente provato ad immaginare la scena, a
pensare “Okay,
ora cosa faccio? Ho un pazzo armato di coltello davanti e una borsa al
braccio…
gliela tendo… magari vuole solo
quello…” e poi ho provato davvero a pensare a
quello che pensi in certi momenti… e no, credo che
l’ultimo pensiero che mi sia
passato per la testa sia “Adesso mi difendo”. In
verità è stato “Se gli do
quello che vuole, magari non mi ucciderà”.
Devo dire
che per scrivere questa one-shot mi sono ispirata a testimonianze lette
su
forum, blog e siti appositi… Internet, in quanto permette
l’anonimato, è il
luogo di sfogo della gente e le storie hanno tutte punti in comune.
Voglio
precisare che i meccanismi della paura me li sono andata a studiare,
non me li
sono inventata e poi li ho rielaborati a modo mio: ho controllato sia
le
reazioni psicologiche e cognitive che quelle fisiche. Intontimento, la sensazione di freddo,
aumento del
battuto cardiaco e della sudorazione e necessità di un
maggior apporto di
ossigeno sono tutte conseguenze dell’adrenalina in circolo. E
la presenza del
coltello esaspera la paura, perché l’uomo ha molto
più timore delle lame che
delle armi da fuoco, psicologia docet.
Insomma,
mi lascio sperando che la storia vi sia “piaciuta”,
anche se non è la parola
più azzeccata. Spero di ricevere dei vostri pareri, anche
negativi, se
necessario.
Beth