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Autore: Noruwei    25/07/2013    4 recensioni
La cosa più orribile dei bambini è che – prima o poi – crescono. Non Sherlock però, lui sarebbe rimasto bambino per sempre (forse).
[Peter Pan!Sherlock, Wendy!John, AU]
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Sherlock's Story
Fandom: Sherlock (BBC)
Personaggi: Un po' tutti
Pairing: John/Sherlock
Genere: Romantico, Generale, Drammatico, Sovrannaturale
Rating: Giallo
Summary: La cosa più orribile dei bambini è che – prima o poi- crescono. Non Sherlock però, lui sarebbe rimasto bambino per sempre (forse).
[Peter Pan!Sherlock, Wendy!John, AU]
Note: Avete presente quando vi viene in mente un'idea così stupida che a prima vista vi sembra geniale, ma che poi scartate perché troppo assurda? Ecco. Sherlock's Story l'ho presa, cambiata, tagliuzzata, modificata, abbandonata e ripresa talmente tante volte che ormai essere riuscita a finirla mi lascia incredula.
Penso che rappresenti un po' me, forse. Non per lo stile – chi mi conosce sa che sto ancora cercando il mio – ma per altro. Oltre al fatto che trovo che sia la cosa meno angst che io abbia mai scritto (lol).
Il finale si allaccia alla serie, ma prendetevela per quel che è: crack puro. Quando l'ho plottata dovevo essere andata, non so.
Il fatto è che io ho sempre avuto un debole per Peter Pan, per un periodo è stato anche il mio amico immaginario, dunque scrivendo questa fanfic mi è anche salita un po' la lacrimuccia e la nostalgia.

 


 

 

 


 

Sarebbe difficile iniziare questa storia senza parlare di Holland Park. O, meglio, si potrebbe fare, ma si perderebbe tutta la magia.
Holland Park è uno dei giardini di Londra, qualcuno lo definirebbe il più bello. La verità, segreta ai più, è che è magico. Dopo mezzanotte, almeno, quando le fate incominciano a uscire, luminose.
Ma ora mettete a fuoco.
Lì, quell'aiuola. Laggiù, vicino a quei fiori bianchi. Le vedete adesso? Probabilmente no, le fate sono invisibili agli occhi umani, dunque dovrete fidarvi di me. Non è una bella sensazione, lo so.
Vengo qua ogni giorno, passata la mezzanotte, mi stendo sull'erba e incomincio a raccontare la storia di un bambino che aveva scelto di non crescere mai.
Se volete sentirla sedetevi con me anche voi oppure andatevene, senza far rumore però, potreste spaventare le fate.
Ora però state zitte e fatemi iniziare questa storia.

Lui si chiamava Sherlock. Sherlock Holmes.
Ne avrete di sicuro sentito parlare, in un modo o nell'altro.

 

 

-

 

 

I

Quando il primo bambino sorrise,
il suo sorriso si ruppe in mille pezzetti
e così nacquero le fate.”
- Peter Pan

 

A gambe penzoloni sul davanzale della finestra, John studiava il cielo. Niente stelle, pensò deluso. Non che non se lo aspettasse, anche se un po' – solo un po' – ci sperava.
Era pur sempre il suo compleanno, dopotutto.
«Joooohn!»
Si voltò, appena in tempo per vedere Harry affacciarsi alla porta. La ragazzina – i capelli biondi legati in una treccia – gonfiò le guance. «Ecco dove cavolo ti eri andato a ficcare.» sbuffò, roteando gli occhi «C'è la torta. È da un'ora che ti cerchiamo.» lo fissò «Vieni o no?» e probabilmente avrebbe aggiunto un “idiota” se quello non fosse stato il suo compleanno, la parola rimase comunque sospesa fra loro, non detta.
«Ancora cinque minuti.» la pregò. «Cinque minuti e arrivo.» insistette, davanti al sopracciglio inarcato della sorella. In ogni caso, sapevano entrambi che l'avrebbe coperto comunque, a meno che non volesse che dicesse ai genitori che l'aveva vista baciarsi con Amy dietro la Quercia alla festa di compleanno di Tom. Non che John l'avrebbe fatto davvero, si era limitato a dirle che l'avrebbe potuto fare, tutto qua.
Infatti la sedicenne si limitò ad un'occhiata annoiata, prima di voltargli le spalle «Fai come ti pare.» urlò e John riuscì a sentirla saltellare giù dalle scale e dire che lui aveva detto che potevano iniziare a mangiare pure.
Così John riportò lo sguardo sul cielo.
La notte era affascinante e stare lì nel buio, con i piedi nel vuoto, dava un'aria di magia a tutto ciò che lo circondava. Era... magico. Non che credesse davvero che se si fosse buttato di sotto sarebbe riuscito a volare, sia chiaro, ma gli piaceva pensarlo. Harry lo prendeva sempre in giro per quel genere di cose.
Gli sembrava quasi di sentire un violino suonare.
Il che era ridicolo ed era evidente che stesse lavorando un po' troppo con la fantasia, ma quella melodia – oh, com'era bella – sembrava così reale. Quasi... quasi qualcuno la stesse suonando sul serio!
Che idiozia.
Eppure-
Si sporse dal davanzale, voltando la testa verso l'alto. Era ridicolo. Lui era ridicolo. Di certo non c'era qualcuno che suonava il violino sul suo tetto, poco ma sicuro. Cioè. Nessuno sarebbe stato così pazzo da-
No, okay.
C'era sul serio qualcuno che suonava il violino sopra il suo tetto.

Quella fu la prima volta che John vide Sherlock Holmes (non che, ovviamente, possa ricordarselo).
Capelli riccioli, scuri, occhi grigi, sguardo altezzoso. John non gli avrebbe dato più di quattordici anni anche se, in effetti, in quel momento si sentiva un po' shockato per quantificare l'età esatta.
Dopotutto c'era un ragazzino sul suo tetto.
Con un violino in mano.
E lo fissava, un sopracciglio inarcato, come se l'intruso – lì – fosse lui. Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, gli porse la mano per aiutarlo a salire. John la fissò per un paio di secondi, quella mano, la pelle completamente liscia, poi la prese, stringendosi intorno le dita sottili.
La semplicità di un bambino.

«Questo» precisò, una volta salito «è il mio tetto.»
L'altro ragazzo si limitò a fissarlo nuovamente e ad accennare a una nuova nota con il suo violino.
«Sherlock.» disse, infine.
John lo fissò perplesso. «Cosa?»
Il ragazzino roteò gli occhi, come esasperato dalla sua lentezza di comprendonio. «Il mio nome. Sherlock.»
Sherlock, capì presto John, aveva l'abitudine di seguire discorsi tutti suoi. Tuttavia su questo argomento torneremo più avanti perché quella fu la notte più strana vissuta da John e anche la prima ad essere dimenticata.
«Come ci sei finito sul mio tetto?» bofonchiò John, per poi aggiungere con una punta d'incertezza «...Sherlock?»
«Ho volato.» ribatté con sufficienza l'altro ragazzo, continuando a suonare, l'archetto che passava sulle corde con eleganza. Per un attimo John si soffermò a pensare sul fatto che era davvero bravo (oltre che estremamente antipatico).
«Non puoi aver volato.» sbuffò «Non si può volare. Gli uccelli volano, non- non le persone.»
Sherlock lo guardò, dritto negli occhi.
«Io lo faccio.»
John scosse la testa. «Ed io non ci credo.»
Il ragazzo inclinò la testa di lato, annoiato, porgendogli l'archetto come a dirgli “sta a guardare” poi si buttò, ma prima che John potesse urlare dal terrore ricomparì nel buio, sfiorando nuovamente il tetto con il piede.
John sbatté le palpebre incredulo.
«È stato...» boccheggiò «incredibile.»

(«Non è quello che dicono di solito le persone.»
«Perché, cosa dicono di solito le persone?»
«”Figlio di Satana.”?»)

John non si sarebbe mai definito un bambino particolare. Anzi, era decisamente normale.
I compagni di classe, quando pensavano a lui, dicevano “affidabile”.
A John piacevano le parole, le lettere sulla carta, giocare a Prendere in giardino, anche correre. Non era pigro, non era un secchione, non era nemmeno popolare. Era affidabile.
Era solo John. Gentile con tutti, sorridente, il maglione dalle maniche troppo lunghe per un undicenne. Il fatto era che John amava i maglioni, le felpe, le maniche lunghe, la lana, i motivi natalizi. Anche l'avventura, a volerci ben pensare, quale bambino non desiderava (almeno un po') l'avventura?

Poi era venuto Sherlock.

«Io sono John.» balbettò, mordicchiandosi l'interno della guancia e Sherlock aveva sbuffato, con leggerezza, lasciando che le gambe scivolassero nel vuoto.
«Lo so.»
«Oggi è il mio compleanno.» aggiunse John. Lo sguardo di Sherlock, una punta di curiosità dietro le iridi grigie, si posò su di lui. «Davvero?» sorrise e John annuì.
«Davvero.»
Sherlock si morse il labbro, scivolando con eleganza nel vuoto per poi librarsi con noncuranza nel buio. «Vuoi imparare a volare, John?»

E John l'aveva guardato, gli occhi luminosi di un bambino che è riuscito a trovare il dolce nascosto dalla madre.
Una parola, una sola sillaba.

«Sì.»
Dio, sì.

 


 

II

"Le fate devono essere una cosa o l'altra
perché sono così piccole che, purtroppo, hanno spazio per un solo sentimento per volta."
- JM Barrie, Peter Pan
 

C'è una storia che gira nel popolo fatato. Si dice che quando il primo bambino sorrise, il suo sorriso si ruppe in mille pezzi e così nacquero le fate. Una scheggia, una sola, però cadde nell'occhio di un neonato.
Quel bambino acquisì il potere di riuscire a vedere le fate, altrimenti invisibili ad occhio umano, ma nemmeno lui era consapevole delle sue capacità.
A quel bambino venne dato il nome di Sherlock.
Sherlock Holmes.

Sherlock viveva in una famiglia benestante, in una bella casa con un ampio giardino, aveva un fratello maggiore, una madre assente e un padre morto quando era ancora piccolo.
La prima volta che vide una fata con i propri occhi aveva tredici anni e mezzo. Era intelligente, troppo intelligente, vedeva cose che gli altri non vedevano.
Era speciale.
Era Sherlock.

(«Sherlock?» azzardò John, seduto al suo fianco sulla nuvola «Come l'investigatore dei libri?»
Sherlock sbuffò.)

Sherlock era stato, secondo la leggenda, il primo bambino rapito dalle fate. Le leggende però non sono mai esatte e la verità è che, una volta individuata una fata, il ragazzino la costrinse a portarlo dal popolo fatato con le minacce.
La verità è che Sherlock odiava la sua vita.
Odiava sua madre, quella casa, suo fratello, il suo unico vero desiderio era andarsene.
E così fece.
Vedete, probabilmente se non fosse stata per quella scheggia di sorriso nell'occhio Sherlock sarebbe stato un bambino normalissimo. Okay, forse normalissimo no, però ci sarebbe andato vicino. Forse avrebbe avuto (come ha) un quoziente intellettivo sopra la media, sarebbe stato isolato dalla sua stessa famiglia e sarebbe comunque vissuto detestando tutto e tutti. Invece il destino aveva voluto che Sherlock fosse speciale.
Come fece a convincere le fate a donargli mensilmente la loro polvere magica e tutt'ora un mistero, anche se il sospetto che le avesse ricattate di svelare al mondo il loro segreto e tutt'ora opinione comune fra le giovani fatine (quelle che ci credono, al mito di Sherlock Holmes, cioè).

Ciò che desiderava più d'ogni altra cosa Sherlock Holmes era il sapere e fu così che intraprese la sua personale Odissea. Viaggiò, vide cose che a noi semplici fate o umani non è dato di vedere, volò fra i comignoli delle case e sfiorò la luna – o almeno così si dice – ma nulla, nulla di tutto ciò che fece, riuscì a riempire il vuoto che aveva dentro.
O forse no, probabilmente stava bene così come stava, probabilmente sì divertì un sacco, probabilmente fu uno dei periodi più felici della sua vita.
Probabilmente.

(John lo guardò «Noi siamo amici, ora?» C'era una punta di timidezza della sua voce, come se avesse paura di un rifiuto.
Sherlock non aveva mai avuto un amico. Non sapeva nemmeno cosa significasse esattamente. Però sembrava una bella parola. A-mi-co. Sembrava... giusta per John.
Era strano come lo sapesse, come se lo sentisse dentro.
Scosse le spalle, con noncuranza, si lasciò cadere all'indietro, come se non gli importasse davvero. «Se vuoi.» Anni di solitudine, passati a girovagare fra le stelle, gli avevano insegnato che affezionarsi era sbagliato, che tutto aveva una fine.
Anche John.
Anche l'amicizia.
Eppure, quella notte, per una manciata di minuti, preferì dimenticarlo.)

Una fatina – Lils, si chiama – inarca un sopracciglio. È alta come un dito indice umano. «Quindi Sherlock è ancora lì? Fra le stelle?» interrompe, sporgendosi in avanti, facendo inarcare il gambo del tulipano.
No.
Non più, ormai. Se n'è andato.
Ha rinunciato a tutto.
Per Sherlock era diverso da noi. Lui era metà umano. Un occhio, il sinistro, fatato, ma il suo cuore – la sua anima – era umana.
E aveva un ottimo motivo per fare ciò che fece.

«Quale?»

L'amore.
(Ma questa è un'altra storia, no?)


 

III

"Nel momento in cui dubitate di poter volare, si cessa per sempre di essere in grado di farlo."
- JM Barrie, Peter Pan
 

«Tornerai?» esalò John, atterrando sul pavimento della sua cameretta, una volta scivolato dalla finestra, per poi rivolgere un sguardo ansioso verso il suo nuovo amico.
Sherlock esitò qualche secondo, era così abituato a stare da solo che l'idea di avere finalmente qualcuno era affascinante. Fu per quel motivo che, probabilmente, annuì.

Da quel giorno tornò in quella casa all'incrocio della ventiduesima quasi ogni notte. Si appoggiava al davanzale, picchiettava per tre volte contro il vetro e aspettava che John gli desse il via libera. Ogni notte facevano qualcosa di diverso. Alle volte restavano sul tetto e John ascoltava Sherlock suonare il violino, in silenzio, altre s'inseguivano fra i tetti e altre ancora volavano sopra la città.
Qualcuno potrebbe obbiettare che è impossibile che nessuno li avesse mai notati, ma provate ad uscire: quale adulto guarda verso l'alto?
Nessuno.
Nemmeno voi, forse.
Gli adulti guardano avanti, impegnati, frenetici, corrono per le strade perché in ritardo, suonano i clacson, litigano con la fidanzata al cellulare, non hanno tempo – loro – per guardare le stelle.

I Signori Watson erano vagamente preoccupati per il loro secondogenito, quello che insisteva nel dire che il suo amico immaginario – tale Sherlock – esistesse sul serio. Harry si limitava a roteare gli occhi e a dire che lei l'aveva sempre sostenuto che il suo fratellino era un po' suonato.
In ogni caso tutti i bambini hanno avuto, nella loro infanzia, un amico immaginario, no?
Era normale.
Normalissimo.
Giusto?

 

«Tornerò sempre, John.»

 

La cosa più orribile dei bambini è che diventano adulti. È una tale ingiustizia! Perché un bambino, se vuole, non può scegliere di restare bambino per sempre?
Il fatto è che diventando adulti si perde tutto. Quel luccichio negli occhi, la fantasia, la capacità di volate. Era quella, forse, la più grande (e inevitabile) paura di Sherlock.
Che John, un giorno, lo dimenticasse.
Non sarebbe stata colpa sua, certo. È la normalità del crescere. Forse anche voi, quando eravate piccoli, avete volato sopra i tetti della vostra città, ma non vi è dato di ricordarlo perché la vostra mente attuale ha respinto l'idea. Dunque vi sporgete dal balcone e vi domandate come sarebbe volare, ignari del fatto di aver già provato quelle sensazioni in passato. Capire, ora, la crudeltà di tutto ciò?

Credo che, in fondo, Sherlock sapesse di amare John.
Col suo cuore di bambino, in quel modo puro di cui un adulto non sarebbe mai stato capace. Sherlock amava John perché era stato il primo a prendergli la mano, il primo a chiedergli, il primo a sorridergli senza giudicarlo, il primo a non chiamarlo mostro.
Sherlock amava John perché lui era, a suo modo, unico.
Ed era per quel motivo che non avrebbe mai potuto chiedergli di lasciare tutto per lui, di vivere per sempre quella vita insieme, di essere solo per l'eternità.
Sherlock amava John, semplicemente.

Dal quindicesimo compleanno di John nessuno batté più tre colpi alla sua finestra.
Sherlock l'osservò tutta la notte, da lontano, attento a non farsi vedere. John scrutava il cielo, aspettando il suo arrivo. Si addormentò lì, aspettando.
E aspettando.
E aspettando.
E aspettando.
(Inutilmente.)

Sherlock non tornò mai e, presto, la sua mente lo relegò come un amico immaginario della sua infanzia.
Non prendetevela con John, lui è la vittima, come tutti voi che avete dimenticato.
Quindi, se fisserete un dato edificio di un dato posto e vi sembrerà di averlo già visto, pensate che è probabilmente perché ci avete volato intorno in un'altra vita.



 

IV

È terribilmente difficile scoprire qualcosa riguardo le fate.
L'unica cosa sicura è che sono ovunque ci siano i bambini.”
- JM Barrie, Peter Pan
 

«Quindi Sherlock lo abbandonò?»

No, non davvero, almeno. Rimase lì finché gli fu possibile, appollaiato sul tetto di fronte, ormai invisibile agli occhi di John. Lo osservava tutto il tempo, lo vide fare amicizia con quelli come lui, ridere, vivere e continuò ad amarlo, in silenzio.
Non ci volle molto perché John lo dimenticasse.
Era normale.
Era quello che succedeva diventando adulti.
Si dimenticava.

Tuttavia Sherlock non smise di essere ciò che era esclusivamente per John.
Lo fece per se stesso.
Per egoismo.
Perché era umano.

Quello che fece – per amicizia, per amore – fu terribile e magnifico insieme. La versione che sto per raccontarvi non so quanto sia esatta, visto che mi è stata raccontata da terzi e la storia di Sherlock Holmes è stata talmente tante volte rivista e modificata che non so quanto ci sia di vero.
Fu il giorno in cui John intraprese la carriera come medico-militare, voi non potete capire ma era una cosa così da John. Il suo fastidioso altruismo, il suo desiderio di aiutare gli altri.
Sherlock capiva.
Fu per quello che, per la prima volta da quando era scappato, si recò a casa sua. Sbirciò alle finestre, sua madre stava suonando il piano. Mycroft doveva aver abbandonato quella casa da tempo.
Era stata la Signora Holmes ad insegnargli a suonare il violino. Il pensiero gli passò nella testa alla velocità della luce.
Esattamente non si sa se si recò lì con l'intenzione o se gli venne per ispirazione improvvisa.

Sherlock fece la scelta più terribile di tutte.
Scelse di smettere di sognare. Di credere. Rinunciò a quell'unico barlume di fatato che c'era in lui per essere ciò che sarebbe dovuto essere.
Umano.

Pare che venne ritrovato così.
Steso sull'erba, svenuto. La madre vedendolo lo riconobbe subito, non era cambiato per nulla, alle domande della polizia su cosa fosse successo si scoprì che non ricordava assolutamente nulla.
Non so se fosse davvero così o se Sherlock Holmes come ultimo gesto di ringraziamento verso il popolo fatato avesse scelto di tenere il segreto nel suo cuore.
Era intelligente, molto intelligente, ma non aveva un carattere facile. Lo dettero in cura a diversi psicologi, ma nessuno riuscì mai a superare la corazza che si era cucito addosso.

Si appassionò – ironicamente – alla scienza e andò a vivere in un appartamento di Londra.
Baker Street.
221B.

Così finisce la storia del bambino che aveva deciso di non crescere mai.
E ne inizia un altra.

Amore.
Destino.
Anima.
Chi lo sa?

Questa, dopotutto, è solo una fine e un inizio assieme.



 

V

Mai dire addio perché addio significa andare via e andare via significa dimenticare.”
- JM Barrie, Peter Pan

 

«È stato... incredibile.»
«Non è quello che dicono le persone di solito.»
«Perché, cosa dicono di solito le persone?»
«”Levati dai piedi”.»
 

(Questa storia, però, voi la conoscere già.)

 


 

   
 
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