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Autore: SkyEventide    05/02/2008    7 recensioni
Dopo tredici anni dall'ultima guerra che ha impegnato i Villaggi in battaglie e scontri, una nuova minaccia si stende sulla pace duramente costruita dall'Hokage. Antichi nemici tornano a far parlare di loro, sempre più determinati, sempre più potenti. I ninja della Foglia e della Sabbia sanno che è l'ora di rimettersi in gioco ma adesso non saranno soli: al loro fianco hanno una nuova generazione di giovani ninja nel cui sangue scorre l'eredità dei clan, l'eredità dei loro genitori. Fra fedeltà e tradimento, inganno e amicizia, si deciderà il destino di tutte le Terre Ninja. ATTENZIONE: Per tutti coloro che non conoscono la storia di Naruto Shippuuden potrebbero esserci degli spoiler, ma la maggior parte della storia è di mia invenzione ed il rischio è pittosto basso. Inoltre non tengo conto di ciò che è accaduto dal cap. 380 circa del manga. Buona lettura.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Altri, Jiraya, Naruto Uzumaki, Tsunade
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Spoiler!
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-1-
Hebi no Nohiro


Nohiro era in ritardo quella mattina, c’erano già altri ragazzini fuori dall’entrata dell’Accademia.
O perlomeno era in ritardo per la concezione che ne aveva lui, del ritardo. Un ritardo per lui voleva dire essere puntuali per tutti gli altri, ed un anticipo aveva lo stesso significato di arrivare due ore prima; la puntualità era relativa, preferiva sempre avere un margine di mezz’ora di anticipo per controllare la situazione.
Con gli occhi paglierini fissava per qualche attimo ogni singolo particolare e la gente diceva che aveva uno sguardo inquietante. L’avevano sempre detto, fin da quando era bambino. I commenti acidi sui suoi occhi, su di lui, c’erano sempre stati e tempo addietro gli avevano fatto male. Male al cuore. Ma ora erano come le gocce di pioggia e le foglie secche che si raccoglievano nei canali di scolo: scivolavano via.
Corse più forte schizzando acqua dalle pozzanghere, non curandosi del fiatone, piuttosto prestando attenzione a dove metteva i piedi. Quel maledetto kimono non era della sua taglia, e l’ultima cosa che voleva era ritrovarsi faccia a terra, nel fango, per esser inciampato nel bordo. Gli altri ragazzi all’Accademia trovavano già abbastanza pretesti per dargli fastidio, specie quando indovinava le risposte alle domande di Iruka-sensei e loro non sapevano arrivarci. Arrivare sporco di fango e giusto in tempo per il suono della campanella per giunta, non avrebbe migliorato le cose.
Corse, corse ancora verso l’Accademia superando il chiosco del ramen dove pranzava sempre, da solo, senza fermarsi se non davanti alle porte dell’edificio.
Altri suoi compagni erano fuori a confabulare, le ragazze ridacchiavano, lanciavano occhiatine ai maschi. Ma non a lui. Oh no, a lui mai. Lui lo deridevano soltanto.
Ma schernirlo quando potevano era solo un modo per mascherare la paura, la paura che i loro stessi genitori instillavano in loro, la stessa sfiducia radicata nella memoria. Alle volte però esageravano e lui si mordeva la lingua per non rispondere alle provocazioni. Si sentiva sempre il fiato sul collo, sapeva di essere controllato dai ninja che quella donna impicciona della Godaime gli mandava dietro e sapeva anche che, se nessuno interveniva in una rissa fra ragazzini o si metteva in mezzo alle loro beghe, se solo lui si fosse azzardato a dire a qualcuno “non ti avvicinare perché ti rompo il muso” aveva l’impressione che si sarebbe ritrovato alle spalle almeno due Special Jonin a sorvegliare la situazione. Probabilmente la Godaime non pensava si fosse accorto di questo pedinamento. Magari semplicemente perché lui si comportava in modo che non se ne potesse accorgere.
Fu un fulmine a passare davanti ai suoi compagni, anche se non poteva sperare che non lo notassero. La sua chioma nera e lunga, raccolta in una coda era inconfondibile.
«Ehi, ragazzi, guardate chi c’è…»
«Sei in ritardo stamani, eh pivello?»
Passò oltre, senza voltarsi, ma si sentì trattenere per una spalla. Ecco perché preferiva sempre arrivare prima ed entrare in classe quando ancora non c’era nessuno.
Si girò verso quel rompiscatole e lo identificò come Tomita, un suo compagno di classe, non appena mise a fuoco gli occhi castani e stretti ed i capelli color del fuoco. Considerato la promessa della generazione per la sua forza, Nohiro non lo giudicava per nient’altro che un idiota.
La presa sulla spalla si fece più stretta e il ragazzo fulvo lo strattonò per costringerlo ad alzare il volto.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua, Nohiro?» Il tono era maligno, come l’espressione degli spettatori ghignanti davanti alla scenetta. «O forse dovrei dire un serpente?» E scoppiò in una risata acida.
Zitto, zitto, sta zitto.... Non rispondergli per nulla al mondo… No, rispondere era l’ultima cosa da fare. Ma in quei casi lui aveva un’arma ben più potente di ogni parola.
Il suo sguardo.
Fissò le pupille verticali, che tanto gli altri giudicavano malvagie, in quelle rotonde del ragazzo.
E quelle si bloccarono, la risata si smorzò davanti a quei due steli neri diritti in mezzo ad un mare color del grano che pungevano come pugnali. L’espressione era impassibile, gli occhi contornati da un alone violaceo non erano minacciosi, ma semplicemente… immobili.
Anche i sorrisi perfidi di chi si prende gioco di qualcuno che giudica più debole erano spariti dalle facce dagli altri ragazzi cosiddetti “popolari” o “di buona famiglia”. Erano spariti perché quando lui faceva così, quando ti fissava, non sapevi più come comportarti. Per Tomita non c’era nessuna differenza.
Improvvisamente staccò lo sguardo da quello del viso cianotico di Nohiro e lo spinse all’indietro.
Adesso fai finta di essere scocciato di me per non fare brutta figura? pensò Nohiro con una muta soddisfazione dentro.
«Vattene in classe pivello. Ci becchiamo a lezione…»
Di certo lui non sarebbe rimasto lì ad attendere il suo permesso. Si fiondò per i corridoi con i capelli svolazzanti e un appagamento che non era solito provare, senza fermarsi un attimo, solo giusto il tempo che serviva per aprire la porta della classe e catapultarsi dentro.
Era deserta, come previsto. Ottimo.
Filò verso l’ultimo banco nella fila centrale e si sganciò il kimono grigio sistemandolo sullo schienale. Maglia scura e pantaloni sotto il ginocchio, tipici dei ninja, erano assai più comodi che quell’abito troppo largo per lui, anche se in inverno gli teneva più caldo di molti altri indumenti. Era un regalo di Iruka-sensei per il natale suo ultimo compleanno, se lo ricordava. E come poterselo scordare? Aveva ricevuto appena tre regali, il kimono dal sensei, un buono pasto valido per sei mesi interi da Naruto e una casetta per viverci dalla Godaime, dimenticarne uno era impossibile.
Si sedette al posto riavviandosi ciocche dispettose di capelli sfuggite al ciuffo e restò a guardare la porta socchiusa ed il corridoio al di là. Come adorava quel momento di silenzio in cui era da solo e la classe era tutta sua. Poteva anche fingere che andasse tutto bene, che appena la campanella fosse suonata ed i corridoi si fossero riempiti del chiacchiericcio degli studenti, le ragazze sarebbero corse tutte da lui, e che nessuno si sarebbe permesso di passare senza salutarlo.
Ma erano sogni, e lo sapeva.
Come prova inconfutabile ebbe le occhiate che ricevette non appena altri ragazzi si decisero ad entrare, alcune diffidenti, altre indifferenti, altre ancora addirittura disgustate. Ma lui le ignorò come faceva sempre.
Preferì dedicarsi a rileggere l’ultimo capitolo che Iruka-sensei si era prodigato nello spiegare loro; dopotutto, gli esami erano vicini…
«Ehi Nor, ma non ti si incrociano gli occhi a stare sempre fisso su quei libri?» Delle risate dal gruppetto.
Lui non rispose, come sempre, e loro sapevano che non c’era battuta che l’avrebbe indotto a farlo. Presto persero interesse e iniziarono a parlottare del più e del meno, dell’ultima interrogazione, di quel bel tipo che sta nell’altra classe.
«Ok, tutti al proprio posto adesso! Avanti, svelti!».
Il maestro Iruka era appena entrato.
Ognuno andò alla sua sedia, di fretta e strusciandone le gambe sul pavimento con l’unico risultato di produrre un suono sgradevole che Nohiro odiava.
Iruka attese il silenzio prima di cominciare la lezione e sedersi, e ancor prima di farlo salutò Nohiro con un cenno della testa. Lui ricambiò. Iruka era uno dei pochi che non lo trattava come un mostro, che non lo scherniva o non lo rifuggiva, ripagarlo della sua gentilezza era il minimo da fare. E Nohiro lo ripagava, non solo con i saluti, ma anche rispondendo correttamente a qualsiasi domanda lui gli ponesse direttamente.
«Dovevamo finire quel discorso sulla concentrazione se non mi sbaglio…» Iruka guardò gli studenti come attendendo una risposta affermativa che giunse dal fulvo Tomita Sokemiro. «Dunque, il simbolo della foglia aiuta a canalizzare il chakra. Vi ricordate anche la sequenza di sigilli per aiutarsi a concentrare il proprio chakra in una parte precisa del corpo?»
Silenzio.
I ragazzi si guardarono fra loro, si scambiarono suggerimenti sottovoce, e cercavano con gli occhi lo sguardo degli altri, perplessi. Qual era la sequenza di sigilli esatta? E, che diamine, possibile che nessuno se la fosse segnata negli appunti?
E Nohiro guardava ridacchiando sotto i baffi, laggiù dal suo posticino da solo all’ultimo banco. Gli sembrava impossibile che tutti loro fossero così locchi da non capire l’intenzione di Iruka- sensei… E, cogliendo l’occasione, aprì la bocca per dare la risposta esatta, che conosceva; ma si fermò senza proferir suono. Non era conveniente per lui rispondere alle domande dei professori, molto meglio restarsene in disparte: si attirava già addosso il fastidio di molti, mettersi in mostra non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.
Ma no, stavolta avrebbe risposto. Far vedere a Tomita che ne sapeva di più di lui era un’occasione imperdibile.
Alzò lentamente e timidamente la mano, giusto quel che bastava per farsi vedere dal maestro e non dai compagni di classe. Ma costoro si girarono immediatamente verso di lui con le sopracciglia aggrottate e un’espressione che andava dal contrariato allo stupito quando Iruka sentenziò un «Si Nohiro?» con un sorriso compiaciuto stampato in faccia.
Il ragazzo si fermò un secondo prima di rispondere avvertendo lo sguardo di tutti puntato su di sé. «Non servono sigilli per raccogliere il chakra…». L’aveva detto con una punta di incertezza tremolante nella voce, dovuta unicamente al fatto che sapeva che quella risposta esatta non gli avrebbe cambiato la giornata in meglio, ma c’era stata anche una sorta di ovvietà nel suo tono di voce, quasi a canzonare tutti gli altri che ora si battevano le mani sulla fronte dandosi degli stupidi per non averlo pensato prima di lui.
Nohiro si trattenne dal sorridere trionfante mentre il maestro annuì soddisfatto tanto quanto il suo allievo.
«Esattamente. Non occorre nessun sigillo per una cosa di questo genere.» Strinse gli occhi passandoli sulla platea in parte irritata e amareggiata, in parte invidiosa. «Mi sembrava di averlo specificato, ieri…».
«Ma maestro, le domande a trabocchetto non valgono!».
«E questo chi l’ha detto? Valgono eccome, siete soltanto voi che non arrivate a capirle».
Il ragazzino che aveva protestato stava in prima fila, nello stesso banco di Tomita… Hyeon Sook, capelli neri e corti laccati all’indietro, occhi dello stesso colore, grandi e magnetici. Un altro della combriccola delle “nuove promesse”, un altro che a Nohiro sembrava un perfetto idiota. Se non fosse stato per le ire di tutta la scuola sarebbe andato davanti a quei due antipatici e avrebbe detto loro che non li poteva sopportare e che gli avrebbe fatto piacere stracciarli in un duello per mostrare quanto era migliore, quante più jutsu sapeva padroneggiare rispetto a loro. Ma anche questi erano sogni.
Non rispose ad altre domande per il resto della lezione, tutti gli altri alzavano la mano prima che si decidesse a farlo lui. Ma ovviamente sapeva le risposte, meglio anche di coloro che completavano i quesiti del maestro Iruka.
Non voleva che quella lezione finisse, come sempre, perché poi ci sarebbe stato l’intervallo e forse qualcuno sarebbe venuto a canzonarlo, forse si, forse no. Quella volta era più propenso a pensare di si, visto il suo intervento di quella mattina. Gli avrebbe dato fastidio, lo sapeva, ma sapeva anche che sarebbe rimasto in silenzio a subire, senza ribellarsi. Per un momento i suoi pensieri si distrassero dalle parole di Iruka e pensò ad un giorno in cui l’avrebbero fatta finita di trattarlo a quel modo. Era quello uno dei motivi per cui ci teneva tanto ad essere un ninja, a conoscere le jutsu e le varie arti di combattimento: per ottenere il rispetto che non aveva mai ricevuto. Un giorno, pensò, non ti befferai tanto di me Tomita, un giorno voglio avere la soddisfazione di ordinarti di pulirmi le scarpe e farmi da appoggiapiedi, solo per il gusto di avere la mia rivincita.
Fu la campanella della ricreazione a scuoterlo dai suoi pensieri e riportarlo lì, seduto in quella classe davanti ad un povero maestro Iruka che stava quasi urlando le ultime frasi per farsi ascoltare, fra il frastuono dei ragazzini che uscivano dalla classe e la campanella dai toni acuti.
Quel giorno Nohiro non sarebbe rimasto in classe. Non conveniva, dopo aver già notato lo sguardo di Tomita su di sé. Si alzò e uscì a tutta velocità per non farsi fermare, decidendo di andare in cortile e, magari, arrampicarsi su un albero per evitare fastidi.

Delle foglie secche rotolavano, silenziose, sul terreno polveroso del cortile della scuola, avvolgendo tutto in un’irreale quiete disturbata solo dal fischio del vento fra le chiome dei tozzi alberi e dal vociare ovattato delle lezioni. Quiete che venne rotta in un sol colpo dal suono dalla campanella e dallo spalancarsi delle porte della scuola sul cortile deserto.
Una marea di ragazzi si riversò fuori spintonandosi per prendersi i posti più soleggiati e scaldati dai deboli raggi invernali.
Jiro e Mayumi uscirono fra i primi, nel mezzo a quel fiume di altri bambini dall’età che variava dai sette anni ai tredici.
Jiro, con gli occhi neri e i capelli platinati tagliati corti eccetto che per un codino sulla nuca, era conosciuto da tutti… ovviamente per la sua parentela. Chi potrebbe non conoscerti se sei figlio del Sannin leggendario Jiraiya? Ovviamente nessuno. Mayumi, con i suoi dolci occhioni azzurri e i capelli biondi boccoluti, era anch’essa conosciuta da tutti. Logico. Valeva lo stesso discorso che era stato fatto per il figlio dell’eremita dei rospi: chi può non conoscerti se sei l’allieva della Godaime?
Furono salutati dai compagni, anche di classi diverse. Mayumi rispose con sorrisi, Jiro con gioviali pacche sulle spalle e solari battute.
Ma entrambi si spostarono alla svelta dalla confusione e andarono a mangiare all’ombra dei robusti alberi del cortile. La ragazzina si sedette fra le grosse radici della pianta mentre l’altro si appoggiò al fusto della stessa giocherellando con il bianco codino.
Jiro addentò il panino imbottito che portava in mano lasciando scorrere gli occhi scuri sulla folla nel cortile. Le pupille si fermarono su un gruppo di bambine raccolte poco lontano e sul volto gli spuntò un sorrisetto mentre strizzava loro l’occhio. Le componenti del gruppetto subito iniziarono a ridacchiare fra loro e ad indicarsi l’un l’altra il giovanotto.
Mayumi rise a sua volta. «Non ti smentisci mai, vero Jiro? Tale e quale a tuo padre…».
Il ragazzino rispose accennando una finta espressione offesa. «Che c’è di male? Io spero di diventare almeno la metà di quello che è lui!».
Seguì uno scambio reciproco di linguacce.
Di nuovo entrambi lasciarono vagare la vista e i pensieri dove nessuno si sarebbe potuto intromettere finchè una figura attraversò il loro campo visivo. Un ragazzino incredibilmente pallido saettò nel cortile, i fluenti capelli neri al vento e addosso un kimono troppo grande per lui. E quegli occhi ormai erano impressi nella mente di tutti.
Veloce, zigzagò fra gli studenti per poi arrampicarsi su un albero e scomparire alla vista.
Jiro aggrottò la fronte osservando la chioma della pianta per poi rivolgersi a Mayumi.
«L’hai visto?» Il suo tono di voce era diventato improvvisamente gelido. «Mostro schifoso…».
Mayumi scrutò l’altro contrariata. «Non mi sembra così cattivo. Non è che un bambino».
Jiro sbuffò, con un moto d’irritazione, e abbassò gli occhi. «E’ figlio di suo padre. Non mi fido, e non intendo farlo».
Ora la giovane sembrava veramente a disagio, come se l’altro avesse offeso lei personalmente e non quel ragazzino dall’aria malaticcia nascosto sull’albero.
«Se non ti fidi, non per questo devi trattarlo male. Nessuno sceglie i propri genitori e per lui non è stato diverso».
«Ma l’hai visto? Hai visto come si comporta? Sarebbe capace di pugnalarti alle spalle… Hai visto i suoi occhi no?».
La ragazza si alzò di scatto da terra e fissò Jiro. «E’ solo un bambino…» ripeté con foga. «Soltanto un bambino molto solo» concluse prima di allontanarsi a passo veloce.
Jiro la seguì con gli occhi neri finché non sparì fra gli altri ragazzi.
«Padre… mi devi insegnare ancora un sacco di cose sulle ragazze» sussurrò tra sé ridacchiando.
Avrebbe voluto seguire Mayumi ma lì poco lontano c’era ancora quel bel gruppetto di bambine…

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Disclaimer: i personaggi appartengono a Masashi Kishimoto e la ff non è ideata a nessun scopo di lucro.

Dunque, l’idea di questa storia è davvero vecchissima e nemmeno io la ricordo. E’ una long fic davvero… lunga. XD I pairing sono già tutti predisposti.
Vi lascio ai commenti, sperando che vi piaccia. ^__^
   
 
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