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Autore: AgnesDayle    30/07/2013    2 recensioni
Quattro esistenze relegate alla periferia. Quattro anime lungo una cornice. Quattro vite legate da un unico filo: il male.
"Juan si chinò alla ricerca di quelle labbra che tanto lo avevano tormentato, trovandole morbide e invitanti proprio come aveva immaginato. Mentre il bacio si approfondiva, al tempo della guajira che risuonava dal vecchio stereo, le mani non riuscirono più ad accontentarsi di poter solo sfiorare quel corpo così allettante e si fecero più pressanti: mentre una premeva la schiena per avvicinarla a sé, l’altra risaliva lungo la coscia per insinuarsi sotto la gonna.
Delia trattenne il respiro e Juan temette che volesse tirarsi indietro. Non lo fece: lo baciò con più foga e si fece ancora più morbida tra le sue mani."
Genere: Introspettivo, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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disper





Disunità Periferiche
 
Poco dopo si è qui come sai bene,
file d'anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.
(M. Luzi, La notte lava la mente)
 
 
I.

Guajira. Juan
 

18.10.2012


Le dita scivolavano sinuose sulle corde, nel movimento sicuro impresso da anni di esercizio. Il sorriso e lo sguardo del musicista, però, non erano per lo strumento che teneva in mano: come tutti i presenti, anche l’attenzione di Juan era catturata dal corpo che si muoveva sulla pista improvvisata di quel locale di periferia. Non capitava spesso che qualcuno avesse voglia di danzare la musica di Juan. I suoi amici gli avevano detto che era tutta colpa sua e di quel senso di nostalgia che riusciva a imprimere su ogni nota di quella maledetta musica. “Ti fa venire voglia di affogare nel rum,” gli aveva spiegato Carlo una volta, “Ti fa venire voglia di trovare una donna e, dopo averci scopato, chiederle di restare ancora un po’.”
Eppure lei, quella sconosciuta dalla pelle ambrata e dai capelli color miele, ballava. Forse era solo una puttana in cerca di clienti, forse era una signora dei quartieri alti o un’annoiata ragazzina scappata da casa. Non era possibile stabilirlo, guardandola: il suo volto, con gli occhi socchiusi e l’accenno di un sorriso, non svelava nulla e, forse proprio per questo, era un richiamo irresistibile per tutti gli uomini presenti. I fianchi si muovevano al tempo della guajira di Juan, morbidi e audaci, e si poteva quasi avvertire la sensazione che avrebbe dato posare le mani sui seni lasciati scoperti dalla scollatura della camicetta.
Juan continuava a suonare il suo laud e pensò che non avrebbe mai smesso, se la sua sconosciuta fosse stata disposta a ballare per lui come stava facendo. Odiava quel locale, nonostante ormai ci lavorasse da qualche anno: tempo prima – un’eternità per lui – aveva provato l’ebrezza di suonare nei locali più rinomati della città, tra donne bellissime come quella che stava ballando davanti a lui, tutte pronte a corteggiare ed esaltare un bell’uomo dal talento come il suo. Poi la vita lo aveva costretto a nascondersi tra i palazzi anonimi della periferia, in un locale frequentato da operai e qualche puttana di passaggio. Quella donna era fuori posto, come lo stesso Juan e il suo talento.
Lei nel frattempo continuava a bere i bicchieri che le venivano offerti e Juan pensò che non avrebbe mai smesso, se qualcuno non fosse intervenuto a fermarla. Immaginò di avvicinarla e darle uno strattone per tutte le volte che si era lasciata toccare da quegli estranei dalle mani luride, senza che quell’accenno di sorriso sparisse mai dal suo viso. Era una puttana. Doveva esserlo per forza.
Eppure gli uomini, dopo un ballo o un bicchiere, se ne tornavano al tavolo da soli. Chi sconfitto. Chi vagamente deluso. Chi già pronto a cercare un’altra preda.
Juan cantò la canzone con cui chiudeva ogni serata, la più struggente e malinconica del suo repertorio. Quella in cui parlava della sua terra, della sua infanzia e di un amore che non aveva mai conosciuto. Lì dentro nessuno parlava la sua lingua, nessuno capiva mai e spesso la gente finiva con il battere le mani mentre lui raccontava la sua nostalgia. Era confortante.
Non quella sera, però.
La sconosciuta posò i suoi occhi su Juan e non lo lasciarono più per tutta la durata della canzone. Era stranamente goffa, lì ferma al centro della pista. Ma a Juan parve ancora più bella e glielo fece sapere, lasciando che il suo sguardo malizioso la percorresse tutta quanta. Arrossì o no, non ne fu certo e non gli importò dopo che quel cenno di sorriso si allargò sul bel volto.
— Come ti chiami?
— Delia.
— Che ci fai in questo buco di periferia?
— Non la puttana.
— Non l’ho mica detto.
— È quello che hanno pensato tutti gli altri.
— L’ho pensato anch’io. Sei troppo bella per un posto del genere.
Juan portò Delia nel suo monolocale. Le offrì una coca e, quando lei chiese qualcosa di alcolico, le fece notare che aveva bevuto abbastanza per quella sera. Le si sedette di fronte e, quando lei chiese un po’ di musica, l’accontentò e la invitò a ballare, proprio come aveva immaginato di fare poche ore prima.
Le mise una mano dietro la schiena, lasciando che le dita la sfiorassero appena. Delia gli mise le mani sulle spalle e si mosse un po’ incerta sui tacchi. La mano rimasta libera le sollevò il mento, mentre Juan le chiedeva di tenere gli occhi su di lui, poi scivolò fino al fianco e ancora più giù, fino a sfiorare la pelle nuda delle cosce. Delia fece per abbassare gli occhi, forse turbata, forse colta da un improvviso pentimento. Ma dovette ricordare la sua richiesta e tornò a tenere il mento sollevato.
Juan si chinò alla ricerca di quelle labbra che tanto lo avevano tormentato, trovandole morbide e invitanti proprio come aveva immaginato. Mentre il bacio si approfondiva, al tempo della guajira che risuonava dal vecchio stereo, le mani non riuscirono più ad accontentarsi di poter solo sfiorare quel corpo così allettante e si fecero più pressanti: mentre una premeva la schiena per avvicinarla a sé, l’altra risaliva lungo la coscia per insinuarsi sotto la gonna.
Delia trattenne il respiro e Juan temette che volesse tirarsi indietro. Non lo fece: lo baciò con più foga e si fece ancora più morbida tra le sue mani.
Fecero l’amore e, per un momento, con la musica della sua terra che risuonava per la stanza, a Juan parve di essere tornato a casa e quelle note persero l’amaro sapore del ricordo e ne presero uno nuovo, più dolce, meno triste.
Le chiese di dormire accanto a lui. Era la prima volta per Juan: in quegli anni non lo aveva mai chiesto a nessuno. E Delia gli rispose di sì, con un cenno di sorriso sul volto e gli occhi socchiusi.
Lo uccise nel sonno.  
 
 
II.

Carillon
. Delia

 
07.09.2012
 
Era il giorno del suo compleanno. Mattia glielo aveva annunciato la sera prima. L’aveva chiamata nel suo studio, l’aveva fatta sedere sulle sue gambe e, dopo averle dato un bacio sulla guancia, le aveva detto che sarebbe stato un evento speciale.
Era settembre e, pensando al giorno che aveva davanti, qualcosa irruppe nella memoria di Delia: uno zaino, tacchi vertiginosi, una macchina blu, una strada poco illuminata, un sorriso nostalgico. In quei mesi aveva imparato a temere quegli stralci di vita che a volte attraversavano la sua mente e aveva finito per dare un nome a quel qualcosa che sentiva premerle il petto. La chiamava l’Altra.
L’Altra era sua nemica, Mattia glielo diceva sempre. Dopo averla punita, la metteva a letto e le curava i tagli e le scottature con la dolcezza che solo lui sapeva donarle: metteva cerotti, spalmava pomate e nel frattempo piangeva e la chiamava per nome: “Delia”.
L’Altra era crudele, anche questo le diceva Mattia. La faceva parlare in quella lingua che faceva tanta rabbia a suo marito. Le faceva dimenticare tutte quelle cose che sapeva, persino la ricetta delle meringhe che tanto piacevano a lui. Una volta, l’aveva persino spinta a fuggire dalla loro bella casa. Per fortuna, lui l’aveva ritrovata subito e, dopo la punizione che le aveva dato, l’Altra era stata in silenzio per molto tempo e Delia aveva potuto concentrarsi su suo marito.
Chiuse gli occhi e si disse ciò che Mattia le aveva insegnato a ripetere quando l’Altra la chiamava a sé. Non funzionava sempre, ma quel giorno per fortuna sì.
Proprio mentre tirava un sospiro di sollievo, Mattia entrò in camera con un vassoio pieno di prelibatezze. Sorridendole mite, lo posò sulle sue gambe e le accarezzò il viso.
— Mangia tutto e poi potrai avere il tuo regalo.
— Lo sai che non ho molta fame la mattina.
Ci aveva messo un po’ di tempo per capirlo, ma lui voleva che gli rispondesse sempre così davanti alla colazione.
— Amore, lo sai che qualche chiletto ti farebbe solo bene.
Delia gli sorrise e prese con tutte e due le mani la tazza di caffelatte.
Un rumore bruscò la fece sobbalzare.— Quei cazzo di capelli si stanno di nuovo scurendo, perché non riesci a tenerli biondi per un tempo decente?
Delia trattenne il respiro, mentre suo marito le tirava una ciocca di capelli. — Te l’ho detto, non posso farci niente.
E perché stai parlando in questo modo?
Si morse il labbro. Quando la rimproverava, l’Altra se ne approfittava e le faceva fare degli stupidi errori come quello.
— Scusami Matti.
Lo guardò nel modo in cui lui le aveva insegnato: il cenno di un sorriso e gli occhi un po’ socchiusi. Il lampo di rabbia sparì com’era venuto: annuì, abbassò gli occhi per un momento e, quando li risollevò su di lei, era l’uomo innamorato e devoto che Delia amava tanto.
— Ne riparleremo domani, oggi è il tuo compleanno.
L’Altra le mormorò all’orecchio che era una bugia, che quello non era affatto il suo compleanno. Le faceva paura, l’Altra, ma quella lingua che usava per ottenere la sua attenzione le era così confortevole che non riusciva mai a ignorarla come avrebbe voluto.
— Vai a prepararti.
Delia mise da parte il vassoio della colazione e andò in bagno. Si lavò con tutta la cura per quei particolari che erano così cari a suo marito: fece lo shampoo due volte, in modo che i capelli profumassero di mora; si spalmò la crema perché la pelle fosse ben idratata; asciugò e pettinò i capelli fino a farli diventare lisci e luminosi.
Il vestito che quella mattina Mattia aveva scelto per lei era uno di quelli che l’Altra non avrebbe mai voluto indossare: un abitino da cocktail fiorato e dai colori accesi. Le scarpe erano delle ballerine di pelle lucida arancione che puntualmente le scorticavano le caviglie. Prese dei cerotti, si ripeté la frase che Mattia le aveva insegnato e indossò quelle insopportabili scarpe e il sorriso che lui tanto amava.
Raggiunse suo marito piena di aspettative. Forse quel giorno l’avrebbe portata fuori, forse addirittura in centro. Matti però diceva sempre che a lei non piaceva il centro e che proprio lei l’aveva costretto a scegliere quell’elegante villetta in periferia: tutto era falso per quelle strade eleganti, le grandi boutique erano vane promesse per chi poteva solo ammirarne le vetrine, quei volti sorridenti erano solo delle maschere di chi in periferia invece piangeva disperato. Erano pensieri suoi, di Delia. Ma Delia non li ricordava affatto.
— La borsa non ti servirà.
— Non…
— Non usciamo mai per il tuo compleanno.
Lei non usciva mai e basta. Eppure l’Altra le raccontava che un tempo aveva amato camminare per la città con un paio di tacchi vertiginosi e un abbigliamento che la esponeva al mondo e insieme la proteggeva. L’Altra le sussurrava che un tempo la città le aveva dato quella sicurezza che Mattia le aveva tolto.
Delia si dovette ripetere per due volte la frase che le aveva insegnato Mattia prima di seguirlo nell’unica stanza della casa dove non era mai entrata.
La mano di Mattia tremava  quando girò la chiave e poi accese la luce. Non era mai un buon segno quando suo marito appariva nervoso.
Era una camera da letto come tante, appena un po’ personalizzata dalle tantissime foto appese alle pareti. Ciò che colpì Delia, però, fu il familiare quanto nauseabondo odore che aleggiava in tutta la casa e che lì si faceva più intenso che mai. Sembrava provenire da quei macchinari attorno al grande letto. No, dovette riconoscere mentre si avvicinava, proveniva dalla patetica figura distesa sotto le coperte: il centro esatto di quella matassa ingarbugliata di tubi e fili.
— Non temere, vieni a vedere.
Gli occhi di Mattia andavano dalla donna inerme sul letto a Delia. Frenetici. Tormentati. In cerca di una rassicurazione che lei non sapeva come dargli, perché colta da un’angoscia ancora più profonda. Guardare lei era come guardarsi attraverso uno specchio oscuro, che si prendeva gioco della sua vanità deformando tutto ciò che di bello aveva.
— È il tuo compleanno,— mormorò Mattia, mentre con le mani sfiorava la coperta che avvolgeva quel guscio vuoto che un tempo era stato una persona. — Ho un regalo per te: quello che abbiamo sempre voluto.
Quando la guardò turbato, Delia gli sorrise come le aveva insegnato lui. Quel gesto sembrò rassicurarlo, così da allungare una mano e prendere due pacchetti lasciati sul comodino. Le diede il primo e la guardò mentre lo scartava con molta attenzione.
— Un carillon…
— Quello che ti ha regalato tua zia,— mormorò lui, — Non proprio quello, in realtà: era nella tua borsa quel giorno e si è fatto in mille pezzi. Ho dovuto cercarlo in tutta Italia, perché non sono più in produzione.
Delia aprì il cofanetto lentamente e una musica metallica risuonò nella stanza.
Lui iniziò a respirare a fatica: gli occhi erano chiusi.
— Se vuoi, smetto.
Scosse la testa e riaprì gli occhi. — Ora l’altro.
Nel pacco più grande, Delia trovò una pistola.
— Si chiama Juan e tu lo ucciderai.
 
 
III.

The Prodigy. Mattia
 
Marzo 2011


— Lo so che sembra un posto di fighetti, ma ti assicuro che c’è musica buona.
— Solo musica?
L’altro rise sguaiato. — Musica, alcol, puttane e ogni genere di pasta, se sai come cercarle.
— E noi sappiamo cercare?
— Matt, quando mai ti ho deluso? Stai tranquillo.
Matt… Da quanto tempo non lo chiamavano così? Forse, da quando non vedeva quel tizio tutto ossa che faceva strada e continuava a voltarsi verso di lui. A trentasei anni si faceva ancora chiamare Roger. Aveva un vago ricordo di come lo aveva conosciuto: era un tipo mingherlino, dall’aria troppo perbene, Ruggero. Figlio di un qualche pezzo grosso della finanza, destinato a frequentare le migliori scuole e università. Come lo stesso Mattia, d’altronde. Lui però a quei tempi teneva a marcare la sua diversità da chiunque: se ne fotteva della scuola, di qualsiasi progetto futuro, di ogni persona che non fosse lui stesso. Nella sua compagnia lo veneravano tutti perché aveva più soldi, scopava di più, aveva i contatti giusti, reggeva alcol e droga come nessun altro. Era quello a cui capitavano le cose più incredibili, era quello che nelle retate non veniva mai arrestato né finiva mai all’ospedale. Era un vincente nato, Mattia. Talmente vincente da aver capito quando fermarsi e prendere un’altra strada.
Era un vincente… Adesso gli sembrava trascorsa un’intera esistenza dall’ultima volta che si era sentito un vincente.
— Là c’è Fabio. Lui ci procurerà tutto quello che vuoi.
Quello che voleva Mattia non si trovava in quel luogo. Lo aveva capito a vent’anni e lo capiva con ancora più chiarezza adesso che ne aveva trentaquattro. Si sentiva ridicolo anche solo a camminare tra quella massa di corpi accaldati, si era pentito di aver fatto quella telefonata e adesso stava già pensando a come tornarsene a casa. La sua bella villetta di periferia. Dove non avrebbe chiuso occhio e avrebbe trascorso la notte a pensare e pensare.
— Oh Fabio, che si dice?
— Serata di merda. Hanno arrestato uno dei miei in centro…
Mattia ignorò la conversazione, sapendo che agli spacciatori dava fastidio contrattare in presenza di estranei. Si guardò intorno e quasi ebbe una sensazione positiva quando riconobbe la canzone che stavano passando in quel momento. Erano i Prodigy e questo lo fece sentire meno vecchio, meno fuori posto.
Fu in quel momento che la vide. Ballava al tempo della musica dei Prodigy con movimenti che da languidi si facevano improvvisamente rapidi e scattanti; sovrastava la folla dal piano rialzato su cui si trovava e dove si stava spogliando con consumata sicurezza. Nonostante l’abbigliamento da battona, riusciva a non essere volgare. Era a dir poco eccitante, sì. Era quasi del tutto nuda e sorrideva ai fischi e commenti che le rivolgevano da sotto. Ma non era volgare.
Con espressione assorta ingoiò la pasticca che gli passò Roger. — Quella lì,— disse con un cenno alla spogliarellista,— Quella coi capelli scuri.
Gli rispose Fabio: — Aleida costa tanto.
— I soldi non sono un problema.
Fu così che cominciò. La prima volta che fece sesso con lei, non fu molto cosciente. Era da tanto che non prendeva droghe e non fu nemmeno sicuro di essere riuscito a concludere. La sera dopo tornò: andò da Fabio, prese qualche pasta, pagò il suo prezzo e si ritrovò di nuovo con la mente annebbiata e un corpo morbido e quasi passivo tra le mani. Tornò quasi ogni sera, abituandosi sempre di più a quella nuova routine. Passarono mesi e anche lei ormai si era abituata a lui.
Stentava a parlare l’italiano e aveva una voce molto dolce. Veniva da un piccolo paese cubano. Gli aveva detto il nome, ma l’aveva dimenticato subito. Quando non era truccata in modo vistoso, svelava lineamenti molto dolci e delicati. Gli aveva detto che in un paese povero come il suo la bellezza poteva essere la più grande fortuna o la più grande disgrazia. Nel suo caso, non c’erano dubbi in merito.
Quando le aveva chiesto la prima volta se fare la puttana le andava bene, lei aveva risposto con un gesto di noncuranza. Era una domanda che le facevano spesso. Poi, quando gli aveva raccontato della sua infanzia, di come aveva sempre giurato di non fare la fine di sua madre e l’amarezza per non essere stata fedele nemmeno a quella promessa, Mattia cominciò a capire che la ragazza iniziava a fidarsi di lui. Presero a vedersi anche fuori dal locale, senza che lui dovesse pagare per la sua compagnia.
Quella sera era andato a prenderla al locale. Qualcuno l’aveva picchiata e, quando salì in macchina, lei stava ancora piangendo. — Vorresti essere un’altra persona?— le domandò dopo averla confortata.
— Sì, sarebbe bello,— rispose mentre si asciugava le ultime lacrime,— Mi piacerebbe essere una di quelle donne eleganti che camminano per i negozi di quella via… quella con i negozi costosi! Chanel, Gucci, Louis Vuitton… Non hanno problemi, loro. Guardano le vetrine e non si rendono conto di essere proprio loro la vetrina più invidiata da tutte noi.
— Io posso darti questa possibilità,— disse dopo un attimo di silenzio.
Lei lo guardò stralunata. — Ma cosa stai dicendo, Matia?
— Basta chiamarmi così, prova a dire “sì, Matti”.
Lo soppesò con lo sguardo e ripeté cauta: — Sì, Matti.
— Ecco, vedi!
Gli restituì il sorriso e scosse la testa.— Le pasticche di Fabio ti hanno fatto male.
— Sto parlando sul serio.
— Tu vuoi dire che da oggi in poi potrei essere un’altra persona?
— Sì.
— E che persona?
Mattia si girò a guardare dritto davanti a sé e si ritrovò a sorridere, sentendo quel vago ricordo di calore che un tempo era stato un familiare compagno di vita.
— Una donna bellissima, allegra e luminosa.
— E come si fa? Io sono e sarò sempre Aleida.
Le prese lo zaino che portava sempre con sé, quello che a detta sua conteneva quasi tutti i suoi averi. Lo buttò dal finestrino e tornò a guardarla sorridendo.
— Tutte le volte che avrai dei dubbi o avrai la tentazione di tornare ad essere la puttana che sei, dovrai solo ripetere a te stessa: “io sono migliore, io sono Delia”.
 
IV.

Palpito. L’altra Delia
 

03.04.2008
 

Non si sedeva mai nella metro. Se ne stava all’in piedi, evitando quanto più possibile di toccare quelle superfici unte che la circondavano e tenendo gli occhi fissi sui nomi delle fermate. Matti avrebbe voluto accompagnarla, quella sera. Eleonora però le aveva chiesto di andare da sola e Delia la capiva: non era piacevole raccontare del fallimento del proprio matrimonio davanti a una coppia di neosposi. L’aveva spiegato a Mattia, ricordandogli come non fosse in grado di tenere le mani al posto davanti agli altri. Lui aveva brontolato, ma l’aveva lasciata andare.
Anche se non ne parlava mai, lo sapevano tutti che detestava andare in centro da sola. Anche in quel momento le sembrava di vedere mille pericoli intorno a lei: una frenata troppo brusca, uno scippatore, un ubriaco. Prima che l’ansia l’assalisse, arrivò la sua fermata a salvarla.
Scese dalla metro senza guardarsi intorno, con la borsa stretta al petto e le ballerine che premevano a terra con decisione, un passo svelto dietro un altro passo svelto. C’erano delle ombre alle sue spalle e a ogni angolo davanti a lei. Ma proseguiva, ignorando le immagini tetre della sua fantasia.
Trovò Eleonora seduta a un tavolo appartato del locale che le aveva indicato. Un posto alla moda con i drink a due cifre e un’atmosfera retrò. C’era stata con Matti prima del matrimonio e ricordava di aver provato un grande disagio alla vista della reazione che le donne appariscenti scatenavano negli uomini eleganti seduti ai tavoli e al bar. Lei non aveva mai provocato occhiate di quel genere. Neanche in Mattia. Niente di strano: loro due erano cresciuti insieme, giocando a nascondino nelle loro grandi case dirimpettaie. Finché lui non era diventato la pecora nera della famiglia e suo padre le aveva ordinato di prenderne le distanze. Una notte, poi, lo aveva scorto dalla finestra seduto sull’asfalto e lo aveva raggiunto lì per strada: era fatto, puzzava orribilmente e sembrava non capire dove fosse. 
— Sei disgustoso.
Ma non l’aveva sentita. Aveva le cuffie alle orecchie e muoveva la testa al tempo di una musica a lei sconosciuta.
— Togliti da qui,— gli aveva ordinato dopo avergli tolto le cuffie.
Lui le aveva preso i polsi e l’aveva costretta a inginocchiarsi sull’asfalto.
— Non esci mai, te ne stai sempre rinchiusa nella tua stanza. Come fai?
— Ho tutto ciò di cui ho bisogno.
— Non hai nulla.
— Tu sì?
Qualche giorno dopo si era presentato a casa sua. Gli avevano chiuso la porta in faccia. Le aveva telefonato. Aveva spento il cellulare. L’aveva fermata per strada. Era andata dritto.
Mesi dopo lui era pulito e aveva preso a lavorare con suo padre. Poi tutto era andato come doveva andare. Ma nessuna scintilla, nessuna passione incontrollata.
Eleonora stava sorseggiando un cocktail molto colorato e alcolico. Dal sorriso e dalla voce incerta dell’amica, Delia pensò che l’avessero preceduto in tanti.
— Spero che non ti dia fastidio, ho scelto questo tavolo perché non mi andava che ci disturbassero.
A Delia andava benissimo quel tavolo posto di lato rispetto alla sala dove uomini d’affari flirtavano non troppo velatamente con coppie d’amiche vestite in maniera audace. Dopo una mezzoretta, però, ebbe l’impressione che l’amica avesse ormai dimenticato il suo proposito iniziale: continuava a guardare verso la stessa direzione e a sorridere in quel modo che a lei non era mai riuscito bene.
— Oh, sta venendo!
— Chi?
— Un tizio bellissimo. Non voltarti, però!
Le raggiunse e si presentò. La sicurezza trapelava da ogni parte, anche nell’inflessione straniera con cui parlava l’italiano. Si chiamava Juan e quella sera avrebbe suonato per loro. Era stato cortese a includere anche lei, ma era chiaro che quel cubano aveva occhi solo per Eleonora.
La musica iniziò, a tratti allegra, a tratti ammaliante. Degli uomini portarono nuovi bicchieri dai contenuti colorati e le invitarono a ballare: Eleonora disse di sì a tutti, Delia solo a uno particolarmente insistente.
— Sei troppo rigida, tesoro.
— Non sono molto brava,— si scusò.
— Neanch’io, figurati. L’unico movimento che faccio è correre da un’aula a un’altra del tribunale! Il segreto è buttare giù qualcosa di tosto che ti faccia sciogliere.
Delia accettò il cocktail che le veniva offerto e iniziò a divertirsi davvero. Sentiva la musica di Juan percorrerle la pelle, la sua voce guidarla nei movimenti seducenti e attrarla a sé, al centro di qualcosa che a lei era ignoto. Si voltò verso il palco e vide che la stava guardando: le sorrise e, dopo un attimo, anche lei gli sorrise. Non il sorriso che Matti adorava: occhi socchiusi e un timido cenno. Uno più aperto, uno più spontaneo.
Eleonora andò a salutarla, bisbigliandole all’orecchio che se ne stava andando con un suo vecchio amico. Delia la salutò distratta, per ricordare quando era troppo tardi che quel pomeriggio l’amica le aveva assicurato che l’avrebbe accompagnata lei a casa.
Si scusò con Paolo, l’avvocato che le aveva offerto il drink, e si allontanò per fare una telefonata.
— Vai via?
Juan l’aveva seguita e adesso le era vicino, troppo vicino. Delia si limitò a scuotere la testa, troppo sorpresa per utilizzare la voce.
Lui le rivolse un altro sorriso, abbagliando la sua mente già confusa. — Balli benissimo la musica cubana.
Delia scosse di nuovo la testa e il suo sorriso si fece ancora più ampio e luminoso. — All’inizio eri un po’ imbarazzata. Poi ti sei lasciata andare…
Fece un altro passo e le fu addosso, togliendole il respiro. — Vieni con me,— le mormorò con le labbra vicino al collo, fra le lunghe ciocche di capelli biondi. 
A Delia il cuore batteva fortissimo, per la tensione e la paura, per l’emozione. Si era sempre ritenuta contenta, soddisfatta di ciò che aveva. Ho tutto ciò di cui ho bisogno. Ma non aveva mai conosciuto quel palpito, quell’impulso folle che la spingeva a dire di sì.
Non rispose a Juan. Lui semplicemente la baciò e lei si lasciò baciare, mentre il cuore continuava a battere e un tremito le sconvolgeva la pelle. Si lasciò condurre all’aperto da quella mano grande, sconosciuta. Per strade che non aveva mai percorso prima e che per una volta non la terrorizzarono.
Si baciarono di nuovo, al ridosso di un muro sporco. Lui la spinse e lei si ritrovò con quel corpo bellissimo addosso, e il suo cuore batteva sempre più forte, incontrollato. E il tremito continuava a scuoterla da dentro, togliendole il respiro e facendole male. Poi Juan le voltò le spalle e disse qualcosa a qualcuno, che gli rispose con altre parole che Delia non riuscì a comprendere:
— Stronzo, vedi di andartene a cantare. Non le abbiamo fatto bere quella schifezza perché te la facessi tu.
Lei non capiva: c’era tanto male e poca aria. Ma la voce di Juan era alterata, nervosa, finché si voltò verso di lei e qualcosa si fece spazio nella sua mente: è terrorizzato.
— Scappa.
Avrebbe voluto farlo, davvero. Ma quel palpito non smetteva mai, sembrava trapanarle la mente e il petto. Se solo avesse smesso per un momento…
Delle mani la presero per le spalle. Non erano gentili come quelle di Juan e Delia cercò di togliersele di dosso. Un pugno la colpì in viso. Gridò. Qualcosa la colpì allo stomaco. La borsa le cadde a terra e una musica a lei familiare la raggiunse mentre continuava a gridare. Un colpo secco e il carillon si ammutolì, mentre una mano le veniva stretta sulla bocca e altre mani le mostravano tutto ciò che non aveva mai visto in vita sua.
Rimase sola, stesa sull’asfalto. Il palpito finalmente rallentò.






Note:

Eh sì, proprio un racconto estivo e pieno di brio.......Beh, a mia discolpa posso dire che in realtà ho iniziato a scriverlo alcuni mesi fa, quando l'estate sembrava lontana ed ero piena di impegni. Oggi, a dodici giorni dalla mia sudatissima laurea, sono finalmente tornata a scrivere e sono riuscita a completare questa strana storia. So che in questo periodo su efp troverò le balle di fieno ad attendermi, ma pubblico comunque perché Disunità Periferiche per me è stata un'autentica sfida e non ho idea del risultato finale. Mi piacerebbe avere il parere di chiunque avrà voglia di leggere questa sorta di puzzle per comprendere se sono riuscita a trasmettere quella che era la mia idea originale. In ogni caso, ringrazio in anticipo chi passerà da qui.
Buona estate,
Agnes
   
 
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