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Autore: Romanova    31/07/2013    5 recensioni
Cato e Katniss durante il Gran Finale dei settantaquattresimi Hunger Games.
Perché il più grande debito non sarà mai costituito da soldi, ma dalla gratitudine per chi ci considera come esseri umani dotati di dignità e da rispettare.
Per non dimenticare che la più grande e terribile consapevolezza è quella di Cato: quella di morire senza memoria, senza la voce di qualcuno che ricordi cosa hai fatto e chi sei stato.
E per questo dice grazie, anche se Katniss non può più sentirlo.
Lei ricorderà.
Mi permetto di ringraziare Marlene che ha letto questa storia! Non so se ti piacerà ugualmente, ho modificato un po' il finale.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cato, Katniss Everdeen
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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La sensazione soffocante del fiato che progressivamente manca,  l’odio per una mente che non risponde più alle richieste e non riesce a mantenerlo lucido.
Uno schiocco secco alle sue spalle gli fa capire che qualunque cosa sarebbe sbucata dai cespugli per lui sarebbe stata foriera di morte.
Respira forte, continua a correre mentre la sua coscienza gli fa sfilare davanti agli occhi tutti coloro che ha ucciso, con le loro urla e i loro pianti, le loro suppliche e le preghiere.
Si preme le mani sulle meningi sperando di ridurre il dolore che sente alle tempie.
Ecco! La Cornucopia! E’ rimasto solo? Non può essere, si sarebbe sentito l’annuncio della vittoria.
Si nasconde per evitare di farsi scoprire dagli ultimi due sopravvissuti che sono inseguiti da… cosa sono quelle bestie? Perché una sembra avere gli occhi di Clove? E una i begli occhi ridenti di Glimmer?Sta morendo davvero e quello che sta vedendo è l’anticamera dell’Inferno per essersi macchiato le mani col sangue innocente?
C’è… qualcosa di sbagliato in tutta quella situazione, a partire dalla nausea che gli chiude lo stomaco per arrivare alla paura, forse? All’incertezza che lo tormenta?
Chiude gli occhi, fa un respiro profondo e si rivela, iniziando un breve corpo a corpo con Mellark, riesce a intrappolarlo tenendolo per il collo: può ucciderlo, soffocarlo e morire con lui.
O morire.
Sa benissimo cosa gli sta puntando addosso quella ragazza del distretto dodici: se la immagina già, cresciuta nei boschi che caccia scoiattoli o altre bestiacce per sfamare la sua famiglia di straccioni, riesce a vedersela con la responsabilità di tenersi in vita perché i crampi della fame che hanno stritolato il suo stomaco non colpiscano le persone che ama.
Lei deve vivere, lei è amata perché qualcuno la rispetta se riesce a tornare a casa.
Ha scritta negli occhi la ferrea determinazione dei guerrieri e le sue iridi ardono come fiamme vere.
Sono bellissime, gli viene da pensarlo non appena sente la corda dell’arco tendersi sino al labbro della mora.
Lei è bella e lui ha perso la testa diversi giorni addietro e non se n’era nemmeno reso conto.
Odia Mellark istintivamente, non sa troppo bene perché: lo ritiene un immeritato detentore di una grande fortuna e sa solo questo.
Lui è invidioso del piccolo e ingenuo Prometeo che ha sottratto il fuoco agli dei.
La vista gli si offusca e aumenta la presa sul collo del ragazzo del pane.
Le iridi di Katniss s’accendono d’odio.
“Uccidimi, io sono già morto!”
“Ti prego, fallo! L’unico modo in cui posso rendere felice la mia famiglia è morire!”
La mora si rende improvvisamente conto di quanto quell’affermazione sia esatta: in quelle iridi rilucono disperazione, angoscia, desiderio di annullarsi, perdita totale della speranza di sopravvivere.
Forse quello che sta per fare la Everdeen è uno dei pochi gesti d’amore che abbia mai ricevuto.
La freccia parte, sibila nell’aria e centra la mano di Cato, che viene spinto giù da Peeta.
Se ci fosse stata un’altra occasione, se fossero due ragazzi di un paese diverso e di un mondo differente, se non ci fossero stati i Giochi, se la fame non li avesse divisi…
I ragazzi dei primi distretti sono nati più morti dei ragazzi degli ultimi.
Un’altra freccia sibila nell’aria e colpisce il giovane in piena fronte ponendo fine alle sue sofferenze.
Probabilmente, se non fosse stato morto e troppo orgoglioso, l’avrebbe persino ringraziata.
E’ quella l’unica forma di pietà che si conosce a Panem.
L’unica che non disgusta Cato: il desistere dall’uccidere è deprecabile, il rifiuto della violenza, la tenerezza e la compassione sono per i deboli.
Portare la morte, sopravvivere è da forti.
Ma quel giorno, l’ultimo dei suoi, ha capito, finalmente.
Muore col sorriso sulle labbra, perché sa che ora qualcuno ricorderà che è vissuto.
Ha smesso di sopravvivere e ha potuto congedarsi da questo mondo salutando la morte come una vecchia amica.
Del resto, gli ha sempre camminato accanto.
Lui ha solo afferrato la mano di qualcuno che gli consentirà di intraprendere un viaggio più lungo.
Spera, in cuor suo, che ci sia un piccolo cantuccio in cui osservare, nel frattempo, il viaggio di Katniss, della guerriera che gli ha offerto il dono più prezioso di tutti (dignità).
La guerriera che uccidendolo, gli ha restituito il rango di creatura vivente (essere umano).
La guerriera che togliendogli la vita gli ha regalato quantomeno la certezza di essere vissuto (il ricordo).
Perché l’unica cosa che sopravvive alla morte è la memoria e Katniss non dimenticherà mai Cato, come non scorderà il dolce visino di Rue o Clove e la sua ferocia.
Non potrà: sa che saranno solo parte di una lunga lista di facce da non cancellare dalla memoria, un’infinita serie di nomi che andranno conservati in un angolo remoto della mente, da preservare sino al momento in cui il fuoco divamperà.
E il dolore di quei giorni accenderà la rabbia, che a sua volta eliminerà la pietà per i nemici, per coloro che si sono permessi di rendere la vita umana merce di scambio e per coloro che si rifiuteranno di accettare la realtà: ogni scintilla non soppressa diventa un incendio e un incendio non lo arresti gettando altra legna sul fuoco (altre morti, altre povere vite innocenti recise dalla falce della Grande Consolatrice).
No, Katniss non dimenticherà Cato quando verrà esibita nel Tour della Vittoria.
Sarà sempre lì, in un maledetto angolo della sua mente a sussurrarle strane parole che non riuscirà a  interpretare se non dopo aver distrutto il sistema politico di Capitol City ed essersi felicemente accasata con Peeta, il fortunato ragazzo del pane.
Sarà il suo fantasma ad avvicinare le labbra al suo orecchio e mormorare le parole che le avrebbe detto nell’Universo parallelo che può sognare ora, nel dolce abbraccio della morte.
Quelle che non ha mai avuto il tempo e l’umiltà di dirle, nella certezza che lei e lei sola avrebbe potuto capire lo strazio della sua anima.
“Grazie, Katniss…”
Una Kat che deve fare ancora il primo passo verso la rivolta e dà un primo colpo al Sistema, vince con Peeta, il ragazzo con cui è partita.
Perché lei non è solo la ragazza in fiamme, la ghiandaia imitatrice, la liberatrice di Panem, il messia con un messaggio di morte per chi le si oppone e la speranza di una pace e un futuro per chi sarà dalla sua parte.
Cato ha visto oltre quando l’ha scongiurata di ammazzarlo.
Ha visto che la speranza richiede forza.
Che il coraggio implica dolore.
Che l’ingiustizia implica l’odio.
Una missione prevede sacrificio, anche della propria vita.
Poi dopo morto, se hai fortuna, diventi qualcuno.*
Lui ha avuto fortuna, ci è riuscito.
Anche se non potrà mai dirlo a nessuno.
Resterà il segreto fra Katniss e una tomba che nessuno costruirà mai perché sol quando parti sei pronto a tornare.
Chissà perché quando sorridi sei pronto a piangere, quando dimostri coraggio hai scoperto la paura.
E quando muori sei pronto a vivere, a volare.
E’ stato quando la freccia gli ha inciso la fronte che ha capito di essere semplicemente pronto.
Non aveva più nulla da rimpiangere, poiché nessuno lo avrebbe compianto.
Non aveva più nulla da fare, perché aveva concluso la sua missione.
Non aveva più alcun debito, perché chiunque gli avesse chiesto e fatto favori era morto.
Senza pene, senza pesi, ora poteva partire.
Il suo “grazie” resterà un segreto, un diabolico momento di fragilità che si spegnerà nelle fauci degli ibridi, ma non importa.
Era diventato qualcuno, era vissuto.
Era morto.
Era un ricordo.
Era, finalmente e semplicemente, Cato.
Grazie, Katniss.
   
 
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