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Autore: ErinThe    31/07/2013    1 recensioni
[Sfida dei Grandi Autori, II turno]
Beaverton, Oregon. Jim Brooks e Mickey Cox, entrambi diciannovenni. Il primo nuotatore per salvamento, il secondo meccanico un po' maldestro.
– Bene, Brooks, con i tempi potremmo anche starci, – esordì l’allenatore – fai così come ora la prossima settimana e ti presenterai ai campionati dell’Ovest a Portland con minimo un paio di secondi in meno dell’anno scorso.
Jim sorrise sotto i baffi,
(...)
– Ehi Mick! – lo guardò in viso e subito spalancò la bocca, in un’espressione scioccata – Si può sapere cosa diavolo hai combinato?
Jim allungò una mano verso la fronte dell’altro, attraversata da un taglio, e con l’altra gli sfiorò lo zigomo destro, dove si stagliava un’ombra violacea.
(...)
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Sproloquiando: Salve a tutti! Provengo dal mondo delle fanfiction, quindi non sono assolutamente in grado di scrivere originali. Eccomi qui, però, con questa incursione "a causa" del contest a turni "La Sfida dei Grandi Autori", in cui appunto l'obbiettivo del turno era creare un'originale. Il risultato è questa roba che, forse, vi accingerete a leggere, che ho scritto in fretta e furia in meno di mezza giornata, cosa che sicuramente non fa ben sperare. Bene, non blatero oltre e lascio i pochi che vorranno alla lettura della piccola one shot. Grazie e chiunque legga e Hope you enjoy! ^^ *grido di battaglia*





Nick ErinThe
Squadra Nera
Giudice responsabile Ele
Turno II
Pacchetto Zar
Titolo Storia Lifebelt
Rating Arancione
 
 
 
 

Lifebelt

 
 
 
 
 
 
Un bracciata, una gambata. Sollevò il viso di lato, aspirando quanta più aria poté, ritornando poi ad eseguire un’altra successione di bracciate. Dietro di lui, l’acqua si muoveva tumultuosa, forse fatta eccessivamente agitare dai suoi movimenti non del tutto fluidi.
Da dietro le lenti in plastica verdognola, scrutava il basso fondale della piscina, cercando di contare mentalmente quante piastrelle mancassero per arrivare nel punto in cui si sarebbe dovuto immergere.
Poi, finalmente, vide quella sagoma scura sulla pavimentazione; prese un respiro ed unì le ginocchia e con un colpo di reni si immerse, mirato con velocità sul fondo. Afferrò il rigido e plastico manichino, avvolgendolo da dietro con le sue braccia, e con una lieve smorfia si diede una spinta sulle mattonelle lisce, dirigendosi verso l’alto. Affiorato finalmente dal pelo dell’acqua, si spostò al lato del manichino, fermandolo sul petto ed iniziando a piegare energicamente le gambe e dando vigorose bracciate nell’acqua con il braccio rimasto libero.
La parte più delicata era ormai conclusa, adesso avrebbe semplicemente dovuto nuotare fino a raggiungere il muretto all’altra estremità della vasca.
– Ok, stop! Brooks, mi senti? Ora fermati! – Il ragazzo si arrestò immediatamente, facendo calmare l’acqua intorno a sé e mollando la presa del fantoccio, che mollemente si lasciava ora scivolare verso le profondità della piscina. Ansimando, spalancò gli occhi e alzò il viso, incontrando lo sguardo apparentemente truce e severo del suo allenatore.
 
Aaron Hughes era probabilmente l’uomo più dedito al lavoro della Hughes Pool, l’azienda di famiglia aperta ormai decenni prima e ora sotto la direzione di un anziano zio, fratello di suo padre. Raggiunta ormai la mezz’età, era un ex praticante della disciplina del nuoto per salvamento – corso tutt’ora attivo nella piscina ma poco frequentato, a sua detta però molto più eccitante e all’occorrenza più utile del mero sfiancarsi allo scopo di raggiungere a bracciate il muretto opposto al trampolino. Tuttavia, sebbene amasse questo sport, la sua carriera aveva dovuto concludersi anticipatamente, quando era ancora relativamente giovane, a causa di un infortunio provocato da un suo errore nel trasporto di un manichino, costatogli la rottura dei legamenti ad un ginocchio e l’esonero forzato e definitivo dalle gare.
Cominciò a dedicarsi così all’allenamento di giovani selezionati da lui stesso tra quelli partecipanti ai corsi, durante le sue tacite osservazioni alle lezioni.
Il suo ultimo allievo era appunto Jim Brooks, diciannove anni e praticante del nuoto da quando si era traferito nella cittadina di Beaverton, tre anni prima. Nonostante fosse all’epoca il più piccolo e scarno tra i partecipanti ad un corso di poche settimane, e avesse l’aria di uno capitato lì per puro caso, dovette ricredersi appena vide il ragazzo gettarsi malamente in acqua, cominciando ad annaspare in modo parecchio scoordinato ma muovendosi poi in modo scaltro e determinato a completare l’esercizio del giorno, ovvero il recupero di qualche pesante oggetto dal fondo della vasca. Alla fine della lezione successiva il ragazzino fu chiamato da Hughes, che senza troppi convenevoli gli comunicò che dal giorno successivo lo avrebbe voluto con sé per impartirgli i suoi insegnamenti personalmente.
E ci aveva visto giusto, dal momento che, benché in tre anni non avesse perso quella sua nota di goffaggine che non lo faceva muovere in maniera del tutto fluida, pian piano Jim Brooks era riuscito ad inserirsi nel circolo di atleti della regione, scalando di volta in volta le classifiche delle gare a livello statale e di zona.
– Bene, Brooks, con i tempi potremmo anche starci, – esordì l’allenatore – fai così come ora la prossima settimana e ti presenterai ai campionati dell’Ovest a Portland con minimo un paio di secondi in meno dell’anno scorso.
Jim sorrise sotto i baffi, reprimendo subito però il piccolo ghigno, ben sapendo che non era il tempo il suo cruccio.
– Ma – continuò infatti Hughes, corrugando le sopracciglia e stringendo gli occhi – i problemi sono altri, vero? Hai quasi spezzato le costole alla bambola nel prenderla e tirarla su, e poi l’hai praticamente fatta affogare continuando a spingerla sott’acqua quando annaspavi per portarla alla fine. Insomma, fai una performance così sabato e verrai cacciato fuori a calci nel sedere. E ciao-ciao campionati.
Il ragazzo annuì.
– Sì, coach, è lo stesso discorso ogni volta. Comunque, potrei anche prendere qualche secondo di penalità ed essere comunque dentro con i tempi, no? E poi, nelle ultime gare non ho fatto neanche un errore.
– Quindi tu fai le cose male solamente qui. Adesso vai sotto la doccia e fila a casa, domattina tocca alla palestra. Ti saluto!
Detto questo, l’allenatore gli voltò le spalle e scomparì dietro gli spalti vuoti.
Jim, rimasto ancora ammollo, scosse la testa e si sfilò la cuffia, scrollando l’acqua dai capelli neri. Entrò poi nello spogliatoio immerso nella penombra vista la tarda ora, facendosi un veloce shampoo sotto la doccia, asciugandosi i capelli e infilando i jeans e la maglia. Indossò poi il pesante giaccone imbottito, ficcando una mano nella tasta ed estraendo il cellulare. Un angolo della bocca gli si sollevò leggendo il nome sul display, Mickey, e successivamente un sms.
 
 
Il ragazzo dai corti capelli castani stava seduto al bancone del chiassoso pub, un boccale mezzo pieno di birra e la testa china sul ripiano in legno. Il cellulare accanto a lui vibrò, facendolo scuotere la testa, apparentemente destandolo da cupi pensieri, e alzare lo sguardo verso il resto del locale. Scrutò la massa di persone che lo affollavano, spostando gli occhi da un lato all’altro, finché non vide una testa nera e più altra delle altre.
– Jim! – chiamò a gran voce, agitando una mano. L’altro, incrociando il suo sguardo, gli sorrise e con qualche falcata, non senza dovere dare qualche gomitata per farsi spazio tra la gente, lo raggiunse al banco.
– Ehi Mick! – lo guardò in viso e subito spalancò la bocca, in un’espressione scioccata – Si può sapere cosa diavolo hai combinato?
Jim allungò una mano verso la fronte dell’altro, attraversata da un taglio, e con l’altra gli sfiorò lo zigomo destro, dove si stagliava un’ombra violacea.
 
 
La prima volta in cui Jim Brooks incontrò Mickey Cox avevano entrambi sedici anni. Jim si era da poco trasferito con la sua famiglia, a causa di un cambio di sede di lavoro del padre, da Seattle alla piccola cittadina di Beaverton, vicino alla costa dell’Oregon.
Era il suo primo giorno di frequentazione del liceo del posto, quando, durante un cambio dell’ora ed in mezzo al marasma di studenti, diede una spallata ad un ragazzo basso ma massiccio che camminava tenendo la testa china. Preoccupato, si era immediatamente scusato tendendogli la mano, ma questo alzò lo sguardo rivelando gli occhi color nocciola chiaro e abbozzò un sorriso, presentandosi.
Mickey fu la prima conoscenza che fece in quella nuova scuola, e sebbene la sua apparenza fosse burbera e scontrosa, il realtà si svelò un ragazzo piuttosto cordiale e disponibile, nonostante a volta pareva si facesse più chiuso e malinconico. Ben presto i due divennero grandi amici non riuscendo più a staccarsi l’uno dall’altro, neppure quando due anni dopo conclusero il liceo. Terminata la scuola, infatti, poiché nessuno dei due era portato ed entusiasmato dallo studio, entrambi decisero di rinunciare al college e di trasferirsi insieme in un piccolo appartamento, con lo scopo di limitare le spese.
Jim era determinato ad arrivare in alto nel nuoto di salvamento, che aveva iniziato a praticare subito dopo essere arrivato in città, mentre Mickey cambiò diversi lavori nel giro di poco più di un anno. Nei primi tempi fu assunto come barman presso un piccolo motel prima dell’ingresso alla città, ma dopo pochi mesi questo chiuse per la scarsa attività. Lavorò poi per pochi mesi come magazziniere presso un’importante azienda di articoli sportivi presso la periferia della città, salvo poi venire licenziato e ritrovarsi di nuovo disoccupato.
Era un periodo ora in cui era stato impiegato, dopo qualche tempo di apprendistato, in una piccola officina che si occupava di riparazioni di camion e altri grossi mezzi industriali. Imparò il mestiere abbastanza in fretta, salvo poi essere a volte molto maldestro, il che unito alla pericolosità del trovarsi sotto ad imponenti mezzi lo rendeva in rischio costante. Non mancava infatti il fatto di vederlo con lacerazioni e lividi in ogni parte del corpo, alternati da infortuni più gravi, come la volta in cui si fratturò il radio sinistro, il che lo costrinse ad un esonero dal lavoro di tre settimane.
 
 
– Dannazione, Mick, ci sarò una volta in cui non ti vedrò tutto rotto?
I due si trovavano nel divano del piccolo trilocale che dividevano da quando avevano terminato gli studi, al terzo piano di una diroccata palazzina di una via secondaria.
Jim era inginocchiato a fianco all’altro, seduto con le gambe divaricate, e stava tamponando con una mano con un batuffolo di cotone la sua fronte in cui il sangue aveva ormai impiastricciato il ciuffo di capelli, mentre l’altra stava appoggiata con delicatezza nella guancia sinistra, a tastare delicatamente il livido sotto l’occhio.
– Mi chiedo come tu faccia a farti male ogni santa volta che ti ritrovi sotto il motore di un camion… Cos’è successo stavolta?
Lui ridacchiò – Te l’ho già detto, avevo avvitato male alcuni bulloni, così mi è finito in faccia un pezzo di lamiera.
– Ti resterà una cicatrice in mezzo alla fronte, ne sei contento?
– Ha ha, moltissimo. Avere una cicatrice sul viso è da veri duri, denota un fortissimo carattere, non trovi?
Jim sospirò. Prese dal tavolino di fianco un rotolo di garza, lo srotolò quanto necessario e tagliò la benda con un paio di forbici, poi l’appoggiò nella fronte ferita fermandola con un pezzetto di nastro adesivo. Dopo si alzò e scomparì dalla porta del soggiorno, tornando un attimo dopo con un pacco di ghiaccio istantaneo tra le mani.
– Stenditi – ordinò. Mickey sbuffò e appoggiò la testa al bracciolo del divano, sollevando le gambe e posandole sulle gambe dell’altro. Jim lo sovrastò con il suo corpo e si chinò poi sul suo viso, poggiando delicatamente la borsa del ghiaccio sullo zigomo tumefatto.
– Tu mi preoccupi – sussurrò a fior di labbra.
Mickey ridacchiò piano, facendo subito dopo una smorfia per avere mosso la guancia dolorante.
– È il mio lavoro. Devo ricordarti che l’affitto per questo buco proviene esclusivamente da me, Mister Nuotatore con uno stipendio da fame?
Jim scosse la testa, posandogli un dito sulle labbra per zittirlo.
– Prima o poi ti succederà qualcosa. E poi, chi me lo pagherà questo buco?
L’altro gli mise a sua volta una mano sulla guancia, sorridendo con un lato della bocca.
– Smettila con le paranoie. – disse, prendendo con la sua la mano con cui Jim teneva il ghiaccio. Questo sospirò, allentando la presa sul sacchetto e abbandonando la testa sul petto dell’amico, che prese ad accarezzargli i capelli morbidi. Jim alzò poi lo sguardo e lo puntò sul suo, sorridendo e trascinando il viso più in alto. Quando fu alla sua altezza, Mickey gli alzò il mento con due dita e posò le labbra sulle sue.
 
 
 

*

 


– Hai capito bene, Brooks? – Hughes agitava le mani da dietro il vetro che divideva le tribune dall’area della piscina, dando le ultime istruzioni ad un Jim dallo sguardo truce e fisso davanti a sé.
– Sì, coach. Va bene.
– Buona fortuna, ragazzo.
Jim scostò gli occhi dall’allenatore e rivolte uno sguardo a Mickey, seduto pacatamente poco distante. Questo, ancora con la fronte coperta dalla garza bianca, gli strizzò l’occhio.
– Vai, piccolo Jimmy, fai il culo a tutti!
Questi sorrise e poi si voltò. Lo speaker aveva appena annunciato l’ordine delle batterie e fortunatamente a Jim era toccata la terza, quella dove si trovavano i favoriti.

Jim osservava raggiante il suo allenatore, che senza ammorbidire lo sguardo abbozzò un ghigno.
– Ha visto, coach? Alla fine ce l’ho fatta, e anche con un tempo decente!
Hughes sospirò – Sì, Brooks, ma una vittoria in una gara locale non vuol dire nulla. Specie se hai buttato ben due volte la testa sott’acqua!
Il ragazzo gli diede un’occhiata vuota, e questo capì che in quel momento proprio non aveva voglia di ascoltare prediche. L’osservò poi dargli le spalle e correre dall’amico che lo aspettava dopo lontano e saltargli in groppa, gridando un “Ecco il campione!”


– Allora Brooks, hai compreso tutto?
Jim era con il suo allenatore nella piccola sala adibita a palestra nei locali della Hughes Pool, intento ad arrotolare il sottile materassino azzurro una volta finita la serie di addominali.
– Sì, coach – annuì – d’ora in poi è meglio che usi la tecnica a dorso. La presa del modello deve essere con entrambe le mani ai lati della testa, il pollice e l’indice devono avvolgere l’orecchio e il resto della mano è appoggiata sul viso. – ripeté meccanicamente.
Hughes emise un abbozzo di risata, dando una pacca sulle spalle del ragazzo.
– Bravo. Fai così, senza le tue solite manovre brusche, e filerà tutto liscio. Mancano solo due giorni, eh? Stasera esci, divertiti ma torna e casa presto e riposati domani e dopodomani.
Jim annuì sorridendo.
– Ci vediamo domenica, quindi, passerò come sempre a casa tua con l’auto – disse l’allenatore, dopodiché uscirono insieme dalla palestra, uno diretto verso gli uffici, l’altro verso gli spogliatoi.

 
 

*

 
 
 

Sorrise. Sorrise sornione, sorrise quasi beffardo.
Lo sovrastava, lo schiacciava con il suo peso, mentre con una mano percorreva per intero tutta la sua figura. La superficie morbida sotto di essi si avvallava, cigolando id tanto in tanto.
Sul volto di Jim, con la schiena aderente al materasso, la stessa identica increspatura, gli stessi angoli delle labbra curvati all’insù, gli stessi occhi socchiusi, provocanti, celanti una sfida.
Mickey emise un grugnito, e con uno scintillio delle iridi scattò su di lui, con una mossa silenziosa e felpata. Si avventò poi ad afferrare con la bocca le sue sottili labbra, succhiandole e mordicchiandole, mentre una mano affondava nella sua chioma e tirava i capelli corvini.
Jim ricambiò quell’agrodolce morsa, graffiando il suo petto tozzo e massiccio e poi passando la lingua sulle sue gote, ispide della scura barba di qualche centimetro.
Mickey ghignò, mentre scendeva lungo il suo corpo, ad accarezzare e poi passare con la lingua le larghe spalle, gli addominali scolpiti dalle ore di palestra, la vita stretta risultato dei molti allenamenti e il bacino sottile del compagno, percorse la muscolosa e spigolosa figura, fino ad arrivare sotto il ventre. Sorrise tra sé di nuovo nell’udire il lamento soffocato dell’altro mentre risaliva di nuovo fino alla bocca, catturando nuovamente le sue labbra tra i denti.
Jim sbuffò, tirando con decisione i suoi corti capelli, facendo scivolare tra loro i due corpi madidi di sudore, finché non lo costrinse a stendersi supino. Si puntò sopra di lui, con un sorriso stampato e lo sguardo vittorioso. Mickey lo fissò nuovamente negli occhi.
Fu Jim questa volta ad andare in esplorazione, percorrendo tutto il corpo dai muscoli massicci fino a scendere al centro del suo piacere, saggiandolo con l’intera bocca. E questa volta fu il compagno ad emettere un impercettibile singulto quando lo sentì risalire, attaccando nuovamente le sue labbra.
Poi Mickey scattò, afferrandolo per i polsi. Tra la sua sorpresa, lo fece di nuovo distendere.
Scese sul suo corpo con una mano, arrivando in basso ed intrufolando due dita dentro di lui. Jim sbarrò gli occhi, mentre il compagno gli chiuse di nuovo le labbra in un bacio. Poi si staccò da lui e ghignò, prendendogli il viso tra le mani, mentre con delicatezza e decisione affondò in lui.
 
Fissava il soffitto ad occhi spalancati.
Si lasciò sfuggire dei lenti e rumorosi respiri, mentre con le dita accarezzava piano la barba del compagno, disteso a fianco a lui.
Si girò poi sul fianco, sorreggendosi la testa con un braccio.
–  Micky… Domani ci sarai, vero?
Questo sollevò un sopracciglio, guardandolo.
– Ti risulta che non ci sia stato in una delle tue gare, Jimmy?
– Sì, lo so. È una competizione importante… – prese a tormentare una ciocca di capelli tra le dita, tornando a scrutare il soffitto.
– Devo prima però passare in officina per una riparazione urgente ad un bilico che ha avuto un incidente tosto. Sarò lì in tempo per te, lo giuro.
– Però ci sarai, vero?
– Ehi, vuoi rilassarti? Sarò lì come sempre, e finora sei andato benissimo ad ogni gara, perché agitarsi per questa?
– Forse è vero… – Jim abbozzò un sorriso e girò il viso, nascondendolo nell’incavo della spalla del compagno.
 

 
 
*

 
 
 
– Signore e signori, benvenuti agli annuali LSC Western Championships… –
Jim alzò il viso, ascoltando da dietro il consueto vetro le ultime raccomandazioni di Hughes.
I suoni erano ovattati alle sue orecchie, mentre con gli occhi passava in rassegna la folla radunata sugli spalti, alla ricerca di quel viso famigliare. La voce dell’allenatore pareva un’eco lontano dalle indistinguibili parole.
Giunse poi il momento in cui lo speaker scandì le composizioni delle batterie, spalancando gli occhi quando pronunciò le parole Jim Brooks, serie uno, corsia sei.
Senza quasi rendersene conto si ritrovò sul trampolino di partenza. Fissò gli occhialini intorno al capo, abbassando le lenti che colorarono tutto intorno a sé di verdognolo. Da Beaverton a Portland si impiega meno di trenta minuti, aveva promesso che avrebbe finito il turno presto e che sarebbe arrivato in tempo…
La sirena suonò acuta, e tutti i nuotatori scattarono verso la piscina azzurra. Jim, ritardando di un secondo, li seguì a ruota gettandosi dal trampolino.
Il contatto con l’acqua lo destò immediatamente dal torpore cui era caduto. Mosse le gambe battendole energicamente ed iniziò a dare vigorose bracciate, girando il viso di tanto in tanto per inspirare aria. Esaminò la pavimentazione, non potendo però contare le piastrelle, troppo diverse da quelle abituali, finché non scrutò sul fondo della vasca la sagoma scura del manichino. Prese un respiro, si immerse e si spinse in profondità, lo afferrò e lo portò sulla superficie. Qui staccò per un attimo la presa e avvolse il capo tra le sue mani, circondando le orecchie tra pollice ed indice. Poi si girò a dorso e cominciò a dare energiche gambate a rana, tenendo il viso del manichino sempre sollevato ed inclinato in avanti. Nuotò velocemente, fino a che non vide sopra di lui le bandierine che avvisavano l’imminente fine della vasca. Si voltò e, tenendo ben saldo il manichino tra le braccia, toccò il muretto.
 
In piedi sul pavimento bianco, davanti la piscina ora calma e silenziosa, Jim guardava di nuovo gli spalti, gli occhi ancora lucidi dopo aver appreso poco prima i risultati e le mani leggermente tremanti nascoste dietro la schiena.
Hughes lo osservava dall’angolo della tribuna con un lieve sorriso e l’espressione soddisfatta, mentre lo speaker scandiva i nomi dei primi tre classificati.
– Secondo classificato… – Jim chiuse un momento gli occhi, inspirando a fondo – Jim Brooks di Beaverton!
Si lasciò andare in un aperto sorriso e salì sul suo gradino del podio, mentre gli si avvicinavano i giudici stringendogli la mano. Riservò un’occhiata d’intesa ad Hughes, dopodiché si dedicò agli applausi degli spettatori.
 
Uscì dallo spogliatoio con il borsone in spalla in spalla ed i capelli ancora umidi, trovandosi davanti l’allenatore sorridente, che lo accolse con una pacca sulla spalla. Teneva però gli occhi bassi, rigirando nervosamente tra le dita il nastro della medaglia d’argento.
Ad un tratto, sentì il trillo del suo cellulare, e rispose senza riconoscere il numero.
 
 
 

*

 
 
Jim era in piedi, immobile. Osservava l’austera facciata del Beaverton Hospital, incapace di fare un solo passo avanti. Prese a fregare le scarpe sulla ghiaia del parcheggio, spostando qua e là i piccoli sassi. Si chinò e ne raccolse uno dalla forma rotonda, lo studiò un momento e poi lo scagliò con forza lontano, dalla parte opposta all’edificio. Poi si voltò e si diresse deciso verso la porta a vetri.
 
Inspirò quanto più poté davanti alla porta bianca laccata contrassegnata da una targhetta numerata. Strofinò le mani sui jeans, tentando di asciugare il sudore, e buttò fuori l’aria dai polmoni. Respirò poi ancora una volta, portando una mano sulla maniglia ed abbassandola con decisione.
Davanti a sé, una stanza bianca immacolata, avvolta da un forte odore di disinfettante. Al suo centro stava un letto, affiancato da macchinari dall’aria minacciosa.
Mickey era disteso su questo, coperto fino al petto da un lenzuolo candido, attaccato a numerosi tubicini che lo collegavano a quei macchinari.
Jim mosse un passo avanti, tremando, mentre l’altro socchiuse gli occhi.
– Jimmy… – mormorò debolmente.
– Mick – Jim sentì le lacrime pungergli pericolosamente le palpebre.
Si affiancò al letto, sfiorando una mano del compagno.
– Scusa se non sono riuscito a venire a vederti… Però ho già saputo. Complimenti, mio caro quasi campione – ridacchiò piano.
– Stai zitto… – gliela strinse più forte – come hai fatti a ridurti così?
– Quel bilico era davvero pesante, e non sono riuscito ad evitarlo… –
– Io te l’avevo sempre detto. E se ti fosse successo qualcosa? Se… – si interruppe – cosa avrei fatto?
– Sono ancora qui, no? In fondo, qualcuno dovrà pur pagare l’affitto di quel buco.
Jim posò la fronte sulla sua, in cui il taglio era riaperto.
– Idiota.
 


 

 
 




 
 
 

   
 
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