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Autore: _Luthien_    04/08/2013    1 recensioni
"Correva fino a quando la milza non implorava pietà, i muscoli delle gambe non urlavano per lo sforzo ed il dolore, i polmoni cercavano di continuare il loro necessario lavoro ed il cuore pompava ad una velocità stratosferica.
Ma non era abbastanza."
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando non si riesce a smettere di pensare

 

Erano passati nove giorni.
Nove fottutissimi, orribili, devastanti giorni.
Li aveva passati alla centrale di polizia, dove veniva sottoposto ad interrogatori continui, estenuanti ed inutili, solo perchè conosceva il suicida.  Come se in questo modo avesse potuto spiegare a qualcuno cosa era successo, quando nemmeno lui riusciva ancora ad accettarlo. Vedeva Lestrade guardarlo con compassione, portandogli tazze di tè e caffè non richieste; anche lui aveva il sospetto che le cose non fossero anìdate così come apparivano, ma non sapeva come o cosa fare.
Quei giorni infiniti li aveva passati all’obitorio da Molly, stringendola e asciugando le sue lacrime, senza però versarne una.
Li aveva passati correndo come un pazzo lungo tutto il St. James Park. Aveva infatti pensato che quello lo avrebbe aiutato.
In fondo, prima di incontrarlo, non riusciva nemmeno a camminare senza zoppicare. Poi, improvvisamente si era ritrovato a correre e a salire i gradini a due a due.
Quindi correre era una buona idea, ne era convinto.
Cercava di sentire il vento sul viso, l’odore della pioggia nell’aria prima che essa iniziasse a scendere dal cielo.
Cercava di sentire qualcosa che lo facesse sentire vivo.
Correva fino a quando la milza non implorava pietà, i muscoli delle gambe non urlavano per lo sforzo ed il dolore, i polmoni cercavano di continuare il loro necessario lavoro ed il cuore pompava ad una velocità stratosferica.
Ma non era abbastanza.
Quel dolore, intenso, forte, bruciante, era sempre lì.
Il male fisico non lo mandava via.
Restava presente, come uno stupido post-it giallo evidenziatore attaccato sul frigo che però non poteva essere rimosso.
Era la campana d’allarme, quella che suonava ininterrottamente per dire a John che le cose non funzionavano, ma non c’era modo di spegnerla.
Nulla funzionava.
Non importava quanto tenesse la mente occupata, quando si prendesse cura degli altri per non pensare, quando si riducesse con i muscoli doloranti ed una stanchezza fisica indicibile.
Nonostante tutto, non chiudeva occhio da nove giorni.
Ci provava, si metteva nella sua solita posizione per dormire, a pancia in giù, con una gamba piegata e l’altra tesa, un baccio sotto l’addome e l’altro vicino al viso, e chiudeva gli occhi.
Ma nulla da fare.
Il sonno non arrivava.
Al contrario, come una maledizione che si ripeteva tutte le notti, arrivavano i pensieri.
John li sentiva strisciare come serpenti, poteva percepirli partire dai piedi, risalire lentamente lungo le gambe, avvolgersi intorno alle cosce, passargli sinuosi sulla schiena ed entrargli nella testa.
E la paura... la paura, che lui, in quanto medico, sapeva benissimo essere prodotta dal cervello, gli attanagliava il cuore.
Lo avvolgeva nelle sue spire e stringeva.
Non c’era modo di prendere sonno.
Perchè con il sonno, sarebbero arrivati anche gli incubi.
Non si possono mandare via i pensieri.
Non poteva mandare via l’idea che Sherlock si fosse buttato per una buona ragione, che le sue ultime parole fossero state una menzogna.
Ma non poteva nemmeno evitare di essere arrabbiato. Holmes era stato un dannato egoista; sapeva che, prima di incontrarlo John aveva praticamente rinunciato ad una vera vita, cosa pensava sarebbe successo se l’avesse lasciato? Non aveva pensato alle devastanti conseguenze?
Si aspettava forse che il medico riuscisse semplicemente a voltare pagina, senza nemmeno un problema? Beh, non era quello che stava accadendo, perchè John si sentiva abbandonato dalla persona che più contava per lui, dal suo migliore amico.
Si alzò dal letto, tanto era inutile.
Andò nella camera di Sherlock, nella quale non era più entrato da quel giorno, e afferrò la pistola dal cassetto del comodino.
Non importava che fossero le quattro di notte, che tutti dormissero, che l’intero quartiere l’avrebbe cosiderato pazzo.
Andò nel salotto e scaricò tutti i colpi contro la parete.
Come aveva visto fare una volta a Sherlock.
Solo per fare una cosa che potesse ricordarglielo concretamente.

  
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