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Autore: vannagio    05/08/2013    13 recensioni
«Che cosa gli è successo, oggi?», urlò cercando di avere la meglio sull’assolo di chitarra.
«Non ne ho idea, Howard». Maria era seduta sul divano, una rivista di moda in grembo e una tazza di caffè fumante poggiata sul comodino. «Si è fiondato in camera senza neanche salutare e un secondo più tardi è cominciata la musica. Non sono riuscita nemmeno a vedere la sua espressione, con tutti quei capelli che porta sempre davanti alla faccia! Quando si convincerà ad andare dal barbiere?».
Come se i capelli lunghi fossero la peggiore cosa che potesse capitare a un quindicenne.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Howard Stark, Nuovo personaggio, Tony Stark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Elivelivolo e dintorni '
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Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”




L’espressione della giraffa




Villa Maria aveva un sistema di insonorizzazione tra i più all’avanguardia del mondo, per questo motivo Howard Stark si accorse delle vetrate tremanti e della musica spaccatimpani solo dopo aver varcato la soglia di casa. Sempre che di musica si potesse parlare: quei versi striduli e metallici a lui facevano venire in mente soltanto un gatto che si affila le unghie sul vetro.
«Che cosa gli è successo, oggi?», urlò cercando di avere la meglio sull’assolo di chitarra.
«Non ne ho idea, Howard». Maria era seduta sul divano, una rivista di moda in grembo e una tazza di caffè fumante poggiata sul comodino. «Si è fiondato in camera senza neanche salutare e un secondo più tardi è cominciata la musica. Non sono riuscita nemmeno a vedere la sua espressione, con tutti quei capelli che porta sempre davanti alla faccia! Quando si convincerà ad andare dal barbiere?».
Come se i capelli lunghi fossero la peggiore cosa che potesse capitare a un quindicenne.
La tazza di caffè traballava pericolosamente in prossimità del bordo del comodino, Howard la salvò in extremis e la porse a Maria, che ne bevve subito un lungo sorso con un’espressione beata e rilassata sul viso. Il mondo stava per esplodere? I russi stavano per bombardare gli USA con l’atomica? Nulla poteva turbare Maria se c’era una tazza di caffè a scaldarle le mani. Howard aveva cercato senza successo di rimuovere chirurgicamente dalla memoria il tragico periodo della gravidanza e le lunghe notti passate al telefono per rintracciare il barman che nel maggio del millenovecentosessantasette, a Venezia, aveva preparato il miglior caffè espresso con panna che Maria avesse mai assaggiato.
«Come faccio a lavorare con questo fracasso? Obadiah e il consiglio di amministrazione non mi danno tregua».
Maria fece spallucce.
«Accomodati pure, con me non vuole parlare e la porta della stanza è chiusa a chiave».
«Be’, se la montagna non viene a Maometto…».
Tony si era trincerato in camera per la prima volta a dodici anni, infuriato col mondo perché Howard aveva detto “No” alla richiesta “Posso avere una giraffa?”. Ne era uscito fuori dopo due giorni, con alle calcagna un minirobot rudimentale di nome Jarvis che a suo dire si era occupato dei bisogni primari e un contratto di acquisto per una giraffa africana. Howard aveva preferito non indagare a quali bisogni primari si stesse riferendo suo figlio. La giraffa invece, consegnata davanti al cancello di ingresso di Villa Maria una settimana più tardi, era stata sistemata nella stalla con sommo stupore dei cavalli.
Howard aveva un’alta opinione di se stesso, pensava di essere quel tipo d’uomo che impara dai propri errori. Da quella particolare esperienza aveva appreso che non si deve mai dire “No” a un ragazzino prodigio e poi permettergli di chiudersi a chiave in camera per giorni. Così aveva progettato il Tony’s Room Passepartout 1.0.
Spense l’impianto stereo e l’improvvisa assenza di musica fece sussultare Tony.
«Hai modificato la serratura».
Howard aveva impiegato ben venti secondi in più della volta precedente per forzare la porta, presto avrebbe dovuto costruire la versione 10.3 del Tony’s Room Passepartout.
Tony spense il cannello del saldatore, si sfilò gli occhiali protettivi e fece spallucce. Nello stesso, identico modo in cui faceva spallucce Maria, quando annunciava di aver speso cinquantamila dollari per un arricciacapelli tempestato di brillanti. Con la stessa, identica espressione strafottente di Howard, quando Obadiah criticava la decisione di stanziare fondi per ricerche non approvate dal consiglio di amministrazione.
«A mali estremi, estremi rimedi. E dato che la parola privacy non è presente sul dizionario di questa famiglia…».
«Nemmeno silenzio, a quanto pare. O pace, o tranquillità, o qualsiasi altra parola abbia a che fare col concetto “Devo lavorare per garantire gli agi a cui sei abituato e non riesco a concentrarmi con questo baccano infernale”. Perciò tagliamo la testa al toro e dimmi che cosa ti è successo».
La baldanza negli occhi di Tony si spense come una lampadina fulminata e una cascata di capelli ricadde davanti al suo viso. Questo significava una cosa sola: problemi al MIT. Essere un quindicenne prodigio che condivide il corso di studi con diciannovenni palestrati non era facile.
«Ho chiesto a una ragazza di uscire», disse Tony.
Howard non riuscì a trattenere un mezzo sorriso mentre si sedeva sul… primo spazio libero venti centimetri per venti individuato tra il tornio e il trapano a colonna. Maria si ostinava a chiamarla camera da letto, ma quella di Tony era diventata ormai una vera e propria officina. A proposito, che fine aveva fatto il letto?
«E lei?».
Tony inforcò gli occhiali protettivi, riaccese il cannello e riprese la saldatura del… oh, no, stava potenziando l’impianto stereo? Di nuovo? da dove l’aveva interrotta.
«Secondo te? Starei rinchiuso qui dentro ad ascoltare Iron Man a rotazione continua se lei avesse risposto sì?».
«Una compagna di corso?».
«Già».
Howard scoppiò a ridere.
«Cosa ti aspettavi, Tony? Lei avrà almeno quattro anni più di te e scommetto che è anche una gran bella ragazza. Tu invece hai la faccia ricoperta di brufoli, i baffi da latte e vesti come un barbone».
Lo sguardo di Tony dietro gli occhiali protettivi divenne sprezzante.
«Stai dicendo che non sono alla sua altezza, che devo accontentarmi della prima che passa?».
«Assolutamente no. Non avrei fondato il mio impero se mi fossi accontentato. Uno Stark sa quello che vuole e punta sempre in alto».
«Allora stai dicendo che devo cambiare me stesso per piacerle».
«No, nemmeno. Anche se indossare una maglietta pulita, ogni tanto, non guasterebbe».
Tony scattò in piedi con ancora il cannello accesso in mano.
«Questa maglietta è stata autografata da Kirk Hammett in persona, dopo il concerto privato per il mio quindicesimo compleanno. Ho promesso di non toglierla mai più e sicuramente non verrò meno al mio voto per far colpo su una ragazza».
«D’accordo, d’accordo». Howard alzò le mani in segno di resa, il cannello acceso era pericolosamente vicino al suo naso. Tony se ne rese conto un istante più tardi e lo spense nuovamente. Howard sospirò di sollievo. «Volevo soltanto dire che devi puntare sulle tue capacità, sui tuoi punti di forza. Come ho fatto io».
Tony tirò fuori da sotto un mucchio di cianfrusaglie una vecchia chitarra elettrica e dopo essersi seduto su quello che aveva tutta l’aria di essere il motore di un’automobile, strimpellò qualche nota balbettante.
«Facile parlare per te, pa’. Tu non sei un… com’è che mi ha chiamato? Ah, sì. Un secchione, figlio di papà, inchiavabile, che non piace a nessuno».
Howard gli assestò uno scappellotto sulla nuca.
«Modera il linguaggio, giovane! E poi da quando in qua mio figlio si lagna come una ragazzina? Quei capelli ti hanno reso effemminato, per caso? Sai cosa diceva sempre mio padre?». Tony sbuffò e ripeté all’unisono con Howard: «Per raggiungere il successo bisogna avere il ferro nella spina dorsale. Non chiederti cosa ti manca per riuscire, chiediti cosa di quello che già possiedi può aiutarti a vincere!».
«A cosa serve essere figlio di un miliardario, se non posso comprare quello che mi manca? È una stronza-ahia!».
Altro scappellotto sulla nuca.
«Se ti sento parlare ancora in questo modo giuro che ti sequestro la saldatrice e lo stereo».
Tony fece di nuovo spallucce, continuando a strimpellare.
«Fa pure, tanto ho appena ordinato un nuovo modello».
Howard si coprì il volto col palmo della mano. «Della saldatrice o dello stereo?».
«Di entrambi».
«E con quali soldi?».
«Quelli della mia paghetta mensile, ovvio».
Howard si alzò in piedi, dando delle pacche ai pantaloni per ripulirli dalla polvere di metallo che si era depositata sul costoso tessuto gessato.
«Be’, mi spiace comunicarti che il versamento della tua paghetta mensile è stato temporaneamente sospeso».
Una corda della chitarra saltò, producendo un blaaaaaang tremolante e rassegnato. Da sopra gli occhiali protettivi, scivolati sulla punta del naso, fecero capolino pupille atterrite ridotte a due puntini neri.
«Da quando? E soprattutto perché?».
Howard ghignò. «Da adesso. Con effetto immediato. Fin quando non riuscirai a rimediare un appuntamento con i soli mezzi che hai a tua disposizione». Si diede un’occhiata intorno. «Che ti assicuro è più di quanto avessi io ai tempi della mia prima conquista».
Prima di chiudersi la porta alle spalle, Howard si guardò indietro e sorrise. L’espressione sul viso di Tony era identica a quella del dodicenne di qualche anno prima che si era sentito dire “No” dal padre: quella che lui amava chiamare “L’espressione della giraffa”.



Il turno del venerdì pomeriggio era il preferito di Tabatha: chiusura del fine settimana alle porte, caffetteria semideserta, pochissimi studenti universitari tra i piedi. Aveva trovato lavoro al Bosworth’s Cafè dopo il diploma. Solo per qualche mese, si era detta, giusto il tempo di racimolare un gruzzoletto per quel viaggio in cadillac di cui lei e Jimmy avevano sempre parlato. Poi Jimmy l’aveva mollata per una promettente studentessa di medicina e lei, che a differenza di Jimmy non aveva un facoltoso avvocato come padre a pararle il sedere, un anno dopo si trovava ancora là, a servire caffè e muffin agli studenti del MIT.
Poco male, era venerdì pomeriggio.
Di venerdì pomeriggio era facile tollerare i tre idioti del tavolo cinque, che spargevano zucchero sulla superficie nera del tavolo perché così studiare astrofisica era più divertente. Di venerdì pomeriggio il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio seduto vicino alla porta non sembrava fuori posto come un uovo di Pasqua sotto l’albero di Natale. Di venerdì pomeriggio non aveva importanza se la ricciolina bionda stava occupando il tavolo sette da mezz’ora per dare ripetizioni di matematica a un adolescente brufoloso, dopo aver ordinato solo un bicchiere d’acqua. Era venerdì pomeriggio, mancava un’ora alla fine del turno, fate un po’ quello che vi pare.
«Hai voglia di scherzare?».
Tabatha sollevò lo sguardo dalla tazza che stava asciugando apaticamente da un quarto d’ora e lo portò sul tavolo sette. Una corolla gialla svolazzava intorno al viso paonazzo della ricciolina bionda, facendola assomigliare a un girasole un po’ disorientato. Il brufoloso le dava del filo da torcere con la matematica? Ah, la dura vita degli universitari!
«Mai stato così serio. E poi me lo devi, un appuntamento, non credi? Senza di me non avresti mai capito la lezione di oggi».
Ricciolina scattò in piedi.
«Per chi mi hai preso? Non ti devo niente, non ti ho mica costretto, sei stato tu a offrirmi il tuo aiuto!».
«Ma posso pagarti!».
SBAAAM!!!
Ricciolina aveva un attimo gancio destro, bisognava dargliene atto, probabilmente frequentava il corso di autodifesa del campus come tutte le studentesse modello del MIT. I tre idioti vennero ribattezzati da Tabatha Iene Ubriache, per le risate sguaiate alle quali si lasciarono automaticamente andare nel vedere Brufoloso finire col sedere per terra. Il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio seduto vicino alla porta, invece, rimase impassibile come una statua di sale. Mentre Ricciolina usciva dalla caffetteria col naso all’insù e la corolla un po’ ammaccata, Brufoloso tornò al suo posto senza fiatare. Aveva le spalle flosce, lo sguardo perso nel vuoto e una guancia più rossa dell’altra. Tabatha provò un po’ di pena per lui, e poi era venerdì pomeriggio, così prese un muffin ai mirtilli, lo mise su un piattino e glielo portò fin sotto al naso. Lui lo fissò in silenzio per qualche istante.
«Avrei preferito una fetta di cheesecake».
Non era la reazione che Tabatha si era aspettata: il primo istinto fu di mandare a quel paese lui e tutto il venerdì pomeriggio. Un pizzicore alla nuca, però, la trattenne. Un pizzicore che aveva a che fare con un qualcosa di familiare sul viso di Brufoloso e di inquietante nella granitica impassibilità del tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio seduto vicino alla porta.
«Oh». Tabatha sgranò gli occhi. «Tu sei lui, non è vero? Il ragazzo prodigio».
Tony (perché sì, quello era proprio Tony Stark, Anthony Edward Stark, unico erede di quel figone, nonché genio miliardario ex-playboy, di Howard Anthony Stark) diede un morso al muffin con aria annoiata.
«Fofì fifono», disse con la bocca piena.
Tabatha sorrise. «Ho sentito molto parlare di te».
«Tutte cose belle, spero».
«Non proprio. Pare che tu sia un arrogante, saccente, figlio di papà, pallone gonfiato, con ancora il moccio sotto il naso, che corregge tutti, anche i professori».
Tony fece spallucce. «Non è colpa mia se sono degli incompetenti».
«Da quello che ho appena visto, potrei aggiungere che dai ripetizioni di matematica alle ragazze in cambio di appuntamenti…».
«Non abitualmente».
«…e che non cambi la maglietta da… no, sul serio, da quanto tempo è che non la porti a lavare? Cos’è, le domestiche non vengono pagate abbastanza a Villa Maria?».
«Che avete tutti contro la mia maglietta, eh? È autografata da Kirk Hammett, non posso metterla in lavatrice, si rovinerebbe!».
«Se lo dici tu… ma fin quando indosserai quella, dubito che rimedierai un appuntamento con una ragazza».
«Nemmeno se la pagassi profumatamente?».
Tabatha arricciò il naso. «Un milione di dollari non profuma abbastanza per coprire questa puzza».
«Ehi, tu!». Una delle Iene Ubriache si stava rivolgendo a Tabatha, che inghiottì a malincuore una parolaccia. Al terzo posto della classifica “Le dieci cose che odio di questo lavoro” c’era lo studente universitario medio che apostrofa le cameriere con un “Ehi, tu!”. «Portaci tre caffè espresso e tre fette di cheesecake. Ci sono dei cervelli qui che hanno bisogno di glucosio per funzionare a pieno regime».
«Peccato che il glucosio serva a ben poco, se manca la materia grigia», sussurrò Tony.
Tabatha non poté fare a meno di sorridergli, mentre si avviava verso il bancone.



«Ehi, tu! Stiamo facendo la muffa, qui».
La macchina da caffè espresso occupava il secondo posto della classifica “Le dieci cose che odio di questo lavoro”: una volta su tre smetteva di funzionare senza un motivo ben preciso. Se c’era una cosa che Tabatha possedeva in gran quantità era la pazienza, soprattutto di venerdì pomeriggio, ma la macchina da caffè stava esaurendo l’ultima scorta a sua disposizione.
«Permetti?».
Senza attendere risposta, due mani dalle unghie mangiucchiate e sporche di nero comparvero nel suo campo visivo e cominciarono a smontare la macchina da caffè con una nonchalance impressionante, come se non avessero fatto altro in tutta la loro vita. Tabatha lanciò un’occhiata incredula a Tony, che si esibì in uno sbadiglio esagerato.
«Sai davvero quel che fai?», gli chiese.
«Probabilmente si tratta di un falso contatto».
Più i pezzi si accumulavano sul bancone, più Tabatha sudava freddo.
«Non c’è bisogno di dirti che devi anche rimontarla, vero? Se non torna come prima, il proprietario vorrà essere risarcito ed io non ho…».
«Rilassati! È come un puzzle, un gioco da ragazzi. A proposito, sai per caso se c’è un cacciavite a stella nei paraggi? No? Va be’, a tutto c’è rimedio». Tony estrasse dalla tasca dei jeans un coltellino svizzero, scelse la lama più sottile e la usò a mo’ di cacciavite. «Cosa stavo dicendo? Ah, sì. Smonto e rimonto oggetti da quando avevo cinque anni. Anzi, sei fortunata. La prima cosa che ho smontato in vita mia è stata proprio una macchina da caffè espresso, era di mia madre, veniva direttamente dall’Italia».
«Perché mai un bambino di cinque anni dovrebbe fare una cosa del genere?».
Tony si portò dietro l’orecchio una ciocca di capelli che gli penzolava floscia e unta davanti agli occhi.
«Non so. Per me era come… Hai presente quei bambini che vedono un bottone grosso e rosso e non resistono alla tentazione di premerlo? Ecco, io non premevo bottoni, io smontavo cose. Immagino che capiti a tutti di sviluppare una fissazione per qualcosa, da piccoli. A te, no?».
Tabatha rifletté per qualche istante, mentre Tony con la lingua incuneata tra i denti usava la spugnetta d’acciaio del lavandino per carteggiare un contatto ossidato.
«Be’, non so se vale, ma a dieci anni decapitavo bambole. Poi mia madre ha smesso di comprarle e sono stata costretta a farmela passare. Tu, invece? Come ti hanno convinto a smettere?».
Con lo sguardo fisso sul circuito, Tony sorrise. Se per la domanda o per essere riuscito ad aggiustare la macchina da caffè, Tabatha non seppe dirlo. Sapeva solo che, vendendo la bocca di Tony arricciarsi in quel sorriso malizioso, per un millesimo di secondo dimenticò di aver a che fare con un quindicenne brufoloso dai capelli unti.
«Non ho mai detto di aver smesso», rispose Tony. «Due mesi fa mio padre ha comprato una cadillac. Del cinquantanove. Grossa e rossa. Non ho resistito, ho dovuto premere il bottone». Il viso di Tony si adombrò. «Secondo te questo significa che mio padre non comprerà mai più un’auto d’epoca?».
Tabatha si strinse nelle spalle. «Certo che sei strano. Se fossi stata tanto fortunata da trovarmi al tuo posto, il mio primo pensiero sarebbe stato sgraffignare la cadillac per farci un giro, non smontarla per vedere come è fatta dentro».
Tony intanto aveva ricomposto il puzzle. Premette il bottone di accensione e…
«Funziona!».
«Hai idea di quanto mi offenda questo tuo tono incredulo?».
Tabatha lo ignorò. Le Iene Ubriache stavano ancora aspettando e lei non voleva grane, così si affrettò a programmare la macchina per tre tazzine. Mentre l’aroma intenso e vellutato del caffè tostato saturava l’ambiente, andò a tagliare cinque fette di cheesecake. Ne servì tre alle Iene Ubriache, insieme al caffè, una al tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio seduto vicino alla porta, che la ringraziò con un impercettibile cenno del capo, e l’ultima a Tony, che era ancora dietro al bancone.
«Te la sei meritata. Offre la casa».
Tony mandò giù la prima forchettata di torta a occhi chiusi, sorridendo come un bambino felice. Be’, non che fosse molto più grande di un bambino, a dire il vero.
«E così ti piacciono le auto d’epoca?», chiese lui dopo aver spazzolato il piatto. «Potrei farti guidare la cadillac di mio padre, se accetti di uscire con me».
Tabatha roteò gli occhi. «Nemmeno per sogno».
«Oh, andiamo! Perché no?».
«L’approccio è tutto sbagliato, lo fai sembrare un baratto. E poi si intuisce a un miglio di distanza che hai solo una cosa in testa, che a te non frega niente se sono felice o meno di salire sulla cadillac di tuo padre. Intuisci che la cosa potrebbe interessarmi e cerchi di approfittarne, tutto qua».
Tony si grattò un brufolo sul mento. «Ancora non capisco cosa ci sia di male in questo».
«Okay, proviamo così. Mi hai appena riparato la macchina da caffè, sì? Senza che te lo chiedessi e senza chiedermi niente in cambio. Ecco, questo sì che è stato un bel gesto, un bel gesto disinteressato, fatto più per aiutare che per il proprio tornaconto».
Tony inarcò un sopracciglio. «Non ho mai detto che fosse disinteressato».
«Okay, forse non era disinteressato, ma almeno non mi hai fatto sentire in obbligo nei tuoi confronti. Capisci la differenza?».
«Sì, certo. In parole povere, per piacere alle ragazze devo fare l’ipocrita».
Tabata sbuffò, esasperata. «Sei un moccioso, non puoi capire».
«Sarà, ma resto convinto del fatto che se avessi una bella automobile, le ragazze farebbero la fila per uscire con me».
«Non avrai la macchina, ma hai un autista-barra-guardia del corpo». Tabatha indicò con un’occhiata il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio seduto vicino alla porta. «Non è mica da tutti».
Tony fece una smorfia. «Avere l’autista è da sfigati. Senza offesa, Rock». Alzò una mano a mo’ di saluto e la linea dura della bocca dell’uomo si incrinò appena in un mezzo sorriso. «È come andarsene in giro con la balia. Jimi Hendrix non sarebbe stato altrettanto figo se si fosse fatto scarrozzare in giro da un autista, non credi?».
«Credo che Jimi Hendrix sarebbe stato figo anche in tutù rosa».
Le spalle di Tony si afflosciarono. «Allora sono fregato».
«Voglio dire che dipende da te, non da quello che possiedi o indossi. Se ti vedi figo, anche gli altri ti vedranno tale».
«Allora tu devi vederti molto figa», disse Tony. E ammiccò, in un modo che sarebbe stato affascinante, se lui non avesse tentato di saltare a sedere sul bancone con un colpo di reni, non avesse messo le mani in fallo e non fosse caduto miseramente sul pavimento trascinando con sé pentole, padelle e mestoli in un baccano infernale.
Tabatha scoppiò a ridere. «Bel tentativo, Casanova!».



Il primo posto della classifica “Le dieci cose che odio di questo lavoro” era stato conquistato a pieni voti dagli studenti universitari che si attardano in caffetteria ignorando, o facendo finta di ignorare, l’orario di chiusura. Le cinque del pomeriggio erano passate da venti minuti, le sedie erano state capovolte sui tavolini, le veneziane abbassate, le tazzine messe in fila sulla mensola sopra il bancone, quasi tutte le luci spente, ma le Iene Ubriache erano troppo prese dai loro studi astrofisici con lo zucchero per accorgersene.
Porta pazienza, Tabatha. È venerdì pomeriggio.
Anche Tony e il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio seduto vicino alla porta non erano ancora andati via. Però loro non facevano testo: primo, non erano studenti universitari (non nel senso convenzionale del termine, almeno); secondo, Tabatha aveva la netta sensazione che stessero aspettando lei per sloggiare (la qual cosa non la rendeva di certo euforica).
«Ehi, tu! Altro caffè!».
«Mi spiace, ragazzi. Ho spento la macchina da caffè venti minuti fa».
Il portavoce delle Iene Ubriache si strinse nelle spalle. «E tu riaccendila, no?».
Tabatha prese un respiro profondo, è venerdì pomeriggio.
«In realtà dovrei chiudere la caffetteria».
«Ancora dieci minuti, okay? Siamo a un passo dal venire a capo di una teoria fisica complicatissima, non possiamo interrompere proprio adesso. Naaaah, lascia perdere!», il portavoce delle Iene Ubriache agitò la mano come per scacciare una mosca, «Cosa può capirne una cameriera, di fisica? Dai, portaci altro caffè e non scocciare».
Era venerdì pomeriggio, d’accordo, ma anche la pazienza di Tabatha aveva un limite. Fece per afferrare il bricco del latte, vedendosi già in procinto di versarne il contenuto sulla testa del portavoce delle Iene, ma si bloccò con la mano a mezz’aria registrando un movimento anomalo vicino alla porta. Tabatha sbarrò gli occhi.
«Ah, le radiazioni di Stephen Hawking, quanti bei ricordi!». Tony stava sbirciando gli scarabocchi di zucchero tracciati sulla superficie del tavolo cinque. Poi sollevò lo sguardo e sorrise alle Iene Ubriache che invece lo fissavano col vetriolo negli occhi. «Scusate se vi sto disturbando, stavate parlando di una teoria fisica complicatissima e mi sono incuriosito. Ma è roba vecchia, Stephen me l’ha spiegata di persona cinque anni fa, a una cena con la mia famiglia. Tipo davvero divertente, Stephen, anche se ha un senso dello humor molto british».
Il motivo per cui le Iene Ubriache non avevano ancora replicato si trovava alle spalle di Tony, era alto un metro e novantotto centimetri, aveva mani chiuse a pugni grosse come vanghe, indossava giacca, cravatta e un paio di occhiali a specchio e si ostinava a rimanere in rigoroso silenzio. Tony invece continuava a sorridere.
«La signorina deve chiudere la caffetteria, ragazzi. Non preoccupatevi per le radiazioni di Hawking, ve le spiego io domani, credo di avere giusto dieci minuti liberi tra una lezione e l’altra».
Pochi minuti più tardi, Tabatha stava chiudendo a chiave la porta della caffetteria con la sensazione di avere due paia di occhi puntati sulla nuca.
«So che è una domanda stupida dal momento che sei figlio di un miliardario, ma non ce l’hai una casa alla quale tornare, tu?».
Messe le chiavi in borsa, si voltò, ed eccoli là, proprio dove li aveva immaginati: un quindicenne brufoloso sorridente seduto sul marciapiede e un tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio in piedi due passi più indietro.
«Ti è piaciuto il mio gesto disinteressato?», le chiese Tony.
«Non era disinteressato».
«Sì, ma hai notato come sto facendo del mio meglio per non farti sentire in obbligo nei miei confronti?».
Tabatha scosse la testa e incrociò le braccia sotto al seno.
«Non lo hai fatto per me, lo hai fatto perché non vedevi l’ora di vendicarti di quei tre, umiliandoli con la tua intelligenza. E se c’è qualcuno con cui dovrei sentirmi in obbligo, quello è Rock. Se non fosse stato per lui, ci troveremmo ancora in caffetteria, io a servire caffè e tu con un occhio nero».
«Lo sai? Hai perfettamente ragione». Tony si mise in piedi e si rivolse al tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio in piedi due passi più indietro. «Ti va un kebab, Rock?».
Tabatha aggrottò le sopracciglia. «Che cosa hai in mente, adesso?».
Per la seconda volta la bocca di Tony si arricciò in un sorriso malizioso, che per la seconda volta colse Tabatha in contropiede.
«Lo hai detto tu, no? Siamo in obbligo con Rock, dobbiamo offrirgli qualcosa per sdebitarci. Si dà il caso che Rock adori il kebab, che solo per una fortuita coincidenza piace anche a me».
Tabatha si coprì il volto con il palmo della mano, si era data la zappa sui piedi da sola. È venerdì pomeriggio, si disse per l’ennesima volta. Peccato che sembrava non voler finire mai, il maledetto venerdì pomeriggio.
«D’accordo, ma prendiamo la mia auto», acconsentì con un sospiro.
Tony batté le mani. «Solo se è figa, però. Io salgo soltanto sulle spasso-mobili».
«Una cadillac del cinquantanove è abbastanza spassosa per il figlio del miliardario?».
Tony sgranò gli occhi. «Tu, una cadillac del cinquantanove? Mi prendi in giro? Cosa? Dove? Come? Quando? Ma soprattutto, perché non me lo hai detto subito?».
«Era di mio nonno. E… perché avrei dovuto, scusa?».
Quando raggiunsero l’auto, parcheggiata sul retro della caffetteria, Tabatha temette che Tony potesse scoppiare in un pianto isterico da un momento all’altro.
«Tu, essere blasfemo!».
«Lo so, è messa male. Il mio ragazzo ed io avevamo intenzione di darle una sistemata e girarci l’America. Era il sogno di mio nonno, mi sembrava un buon modo per onorare la sua memoria. Poi Jimmy ha ritenuto più allettante giocare al dottore con una studentessa di medicina e il progetto è sfumato».
Ma Tony non la stava ascoltando, ovviamente. Stupida lei, ad aver anche solo pensato che a un quindicenne viziato figlio di papà potesse importare qualcosa dei suoi sogni infranti. Il quindicenne in questione, infatti, stava accarezzando la fiancata opaca e ammaccata dell’auto con la stessa delicatezza che si riserva a un animale ferito. Tabatha lanciò un’occhiata perplessa al tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio in piedi due passi più indietro, il quale si limitò a un’impercettibile scrollata di spalle. Intanto Tony aveva aperto la portiera del guidatore (come aveva fatto senza chiavi?), trovato la levetta apposita e sollevato il coperchio del cofano. Mentre si chinava sul motore dell’auto, con i capelli tirati dietro le orecchie per non ostruire la visuale, la fronte aggrottatissima per la concentrazione e le dita che strimpellavano le corde di una chitarra immaginaria, Tony sembrava un chirurgo che si appresta a eseguire una rischiosissima operazione a cuore aperto. In quel momento, Tabatha dovette ammettere a se stessa che, brufoli a parte, c’era un che di attraente in quel quindicenne.
«Le servirebbero un mucchio di pezzi di ricambio», fu il verdetto dell’esperto.
«Già, ma i pezzi di ricambio costano. E sono anche difficili da trovare». Tabatha chiuse il cofano, e con esso anche il discorso. «Allora, andiamo? Rock sta ancora aspettando il suo kebab».
Tony aveva una strana espressione sul viso, adesso. Salì sul sedile del passeggero senza dire una parola, cogliendo Tabatha di sorpresa. Lei era già preparata a un’estenuante discussione mirata a convincerlo che sì, credimi, a quindici anni e senza patente è illegale guidare, anche per un ragazzo prodigio. Invece niente. L’unica cosa che credette di sentire, mentre metteva in moto l’auto, fu il sussurro del tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio seduto sul sedile posteriore. Un sussurro molto simile a «Dio ci salvi dall’espressione della giraffa» talmente fioco, che dopo un po’ lei si convinse di averlo soltanto immaginato.
Fece mentalmente spallucce, è venerdì pomeriggio.



I sabato mattina assolati erano anche più belli dei venerdì pomeriggio. Tabatha si svegliava sempre molto presto perché il suo orologio interno era cristallizzato sugli orari feriali, perciò riempiva un cesto con tutto il necessario per un’abbondante colazione, saliva sulla cadillac, abbassava il tettuccio e guidava con i capelli al vento fin dove la portava il buon umore.
Quel sabato mattina i suoi intenti non sarebbero stati molto diversi dal solito, se non fosse stato per un tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio appoggiato alla fiancata di una cadillac nuova di zecca parcheggiata davanti casa, che sembrava aspettare proprio lei.
Tabatha inarcò un sopracciglio e si guardò intorno. «Rock, cosa fai qua? E dove è finita la mia cadillac?».
Il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio che aspettava proprio lei non disse nulla, si limitò a dare una pacca affettuosa allo specchietto della cadillac nuova di zecca. Tabatha capì al volo, ma avrebbe preferito non capire mai.
«No, quella non è la mia cadillac. Non può essere. Ieri sera era un ferro vecchio, lo so, me lo ricordo bene, era lì, proprio dove sei tu adesso e cadeva a pezzi. Quella non è la mia cadillac, no».
E accadde una cosa stupefacente, una cosa che Tabatha non si sarebbe mai aspettata, che la colse impreparata, perché non credeva che lui ne fosse capace: il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio che aspettava proprio lei distese le labbra e sorrise. Tabatha si chiese se quello non fosse il primo segnale che il mondo stava per finire. Anzi, il secondo. Il primo era la cadillac rossa fiammante, che non era la sua cadillac, perché non era umanamente possibile, parcheggiata davanti casa. Quando il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio che sapeva anche sorridere le porse un bigliettino, Tabatha era talmente sconvolta da non riuscire, in un primo momento, a decifrare le parole che vi erano state scarabocchiate sopra in una calligrafia frettolosa. Fu costretta a leggere ad alta voce per aiutare i suoi neuroni.
«Un gesto disinteressato. Tony». Tabatha scosse la testa, sorridendo tra sé e sé. «Hai un pazzo come datore di lavoro, lo sai, vero?».
Il tizio in giacca, cravatta e occhiali a specchio che sapeva anche sorridere non rispose. Forse non riteneva opportuno sputare nel piatto in cui mangiava. Oppure non era il tipo d’uomo che spreca fiato per ribadire l’ovvio.
«Pensi che a quel pazzo andrebbe un picnic nel parco?».
Lui annuì, sorridendo ancora. Probabilmente era un record. Tabatha fece il giro dell’auto e si sedette al posto del conducente.
«Andiamo a prenderlo, allora. Immagino che le chiavi della cadillac le abbia tu. Aspetta, questo significa che qualcuno è entrato in casa mia stanotte? Lo sai che potrei denunciarvi alla polizia, per questo? Ah, ma adesso quel moccioso mi sente e…». Tabatha aggrottò la fronte. «Qualcosa non va, Rock?».
Non che la sua faccia avesse esternato qualcosa di appena lontanamente assimilabile a un’emozione, per carità, però se ne stava impalato accanto alla cadillac e la fissava. Son cose che una ragazza trova strane, per non dire inquietanti.
«Stai dicendo che sono invitato anch’io?».
Aveva una voce da basso, profonda e cupa come l’oceano, che accarezzò Tabatha lentamente, sulla nuca e lungo la schiena. Aveva una voce capace di frantumare cuori.
«Mi meraviglio di te», disse lei. «Una voce così non si spreca per fare domande stupide».



«No! Nononono, NO!». Howard lasciò cadere il biglietto e si artigliò il petto, gemendo. «Maria, MARIA!!».
Ecco, ci era riuscito finalmente, quel figlio ingrato, a fargli venire un infarto! Dio gli era testimone, se fosse riuscito a sopravvivere anche a questo, lo avrebbe spedito in un collegio militare in Antartide, altro che MIT!
Mentre il ticchettio dei tacchi a spillo ruzzolava giù dalla rampa delle scale, Howard si inginocchiò per terra e accarezzò le spoglie della sua fu-cadillac-del-cinquantanove. Era stava sparpagliata pezzo per pezzo sul pavimento del garage. Di nuovo. Solo che l’altra volta non mancava nessun pezzo all’appello.
«Oddio, Howard, che c’è? Ti senti male?». Ancor prima del tocco gentile delle mani di Maria che lo afferravano e lo tiravano su, Howard sentì arrivare l’aroma di caffè. «Cosa è successo alla cadillac?».
Howard scosse la testa e le indicò con l’indice che tremava il bigliettino abbandonato per terra. Lei lo prese e lesse ad alta voce.
«Caro papà, sono felice di informarti che ho un appuntamento con una ragazza. Andiamo a fare un picnic nel parco. Ovviamente ti starai chiedendo come sia riuscito in questa impresa. All’inizio non è stato facile, poi però ho scoperto che lei aveva una cadillac del cinquantanove che necessitava di qualche pezzo di ricambio. Ebbene, ho fatto proprio come mi hai detto tu: non ho perso tempo a chiedermi cosa mi mancava per riuscire, mi sono chiesto cosa di quello che già possedevo poteva aiutarmi a conquistarla. E, guarda caso, in garage avevamo una cadillac del cinquantanove che nessuno usava. Nemmeno a farlo a posta! Adesso posso riavere la mia paghetta mensile, vero?».
Sotto lo sguardo incredulo di Howard, Maria scoppiò a ridere.







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Note autore:
È scientificamente provato che tutti, una volta nella vita, soprattutto nell’adolescenza, attraversano una fase di bruttezza inaudita. Anche Tony Stark, e ne ho le prove.
Per quanto riguarda la caratterizzazione di Howard Stark, l'IC dei movie!verse mi ha messo un po’ in crisi: nel film di Capitan America viene presentato come una versione 1.0 di Tony, nel film di Iron Man e dalle parole di Tony stesso emerge la figura di un padre severo e distante, sempre impegnato col suo lavoro. Nel comic!verse, invece, Howard cerca sempre di stimolare suo figlio, di spronarlo a migliorarsi e a fare del suo meglio (la frase “someone must have iron in their backbone to be successful”, da me liberamente tradotta, è stata estrapolata proprio dal fumetto): un'immagine che cozza con quanto affermato nei film. La mia caratterizzazione di Howard cerca di essere una via di mezzo tra tutte queste versioni.
Detto questo, ringrazio come sempre la mia beta Dragana e tutti quelli che continuano a leggere le mie storie.
A presto, vannagio.
   
 
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