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Autore: KaienPhantomhive    05/08/2013    2 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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6.

 

Un labirinto di rose

 

 

C’è un cielo meraviglioso a proteggere quei giardini incantati, dentro i quali si snodano ossessivi labirinti di rose e rovi. Nel cielo trapunto di stelle morbidi oceani soprannaturali disegnano una Via Lattea diversa: al suo centro, lontanissimo e remoto – come un bocciolo di fiore – pulsa un ammasso scarlatto. Una ragazza corre senza mai voltarsi indietro – il suo ampio abito di seta porpora si impiglia e si straccia nelle spine – tra i vicoli tortuosi del roseto. Vetusti ruderi dai marmi immacolati svettano raramente, come fantasmi fatiscenti di tempi passati. Corre ancora, non in fuga ma alla ricerca di qualcosa. E poi la vede.

Tra cespugli di fiori scarlatti, oltre un arco di spine, c’è lei: dalle iridi violette, bella oltre ogni immaginazione, i lunghi capelli le corrono sul corpo vestito da un abito di raso e oro ricamato con misteriose rune. Volge il suo sguardo in direzione della ragazza che corre verso di lei: “Finalmente. Ti attendevo…Nataša Elizaveta Novikov.”

Ora il giardino di rose è scomparso.

Sono su una spiaggia e la notte ha ceduto il posto al giorno. Tutto è sbiadito, stinto. Più che la luce del mattino, si potrebbe dire che ogni cosa ha perso colore. La sabbia, sottile e farinosa, è bianchissima e biancastro è anche il cielo. Il mare quieto è una tavola grigia da cui affiorano strani resti di tubi spezzati e forme calcaree ritorte. Nulla vive.

“Me? Perché attendevi me?” – domanda Natasha, l’abito rosso inzaccherato di sabbia.

 

“Ho sognato questo momento per molti eoni.” – risponde l’altra con un tono che la mente di Natasha non riesce a decifrare tra la serenità o il rammarico – “Tutte noi abbiamo sperato nella Congiunzione.”

“Ma chi siete? Di che cosa parli?”

“La ricompensa che ti attende alla fine dei tempi, il destino che siete tutti chiamati ad adempiere.” – continua la donna senza nome – “La Divinità Metallica del tempo – Fafner – e il suo pilota. E poi tu, Nataša Novikov, e quella con cui la tua volontà ha risuonato, spezzandone il sonno ancestrale: Freya.”

“Fafner…Freya…” – ripeté la ragazza, quasi ipnotizzata.

“Per un breve attimo le vostre anime hanno ricucito l’Infinito, rispondendo all’antico richiamo di Exarion.”

“Chi è…Exarion?”

“L’antico Imperatore d’Oro, che esige un sacrificio per coloro che vogliono servirsi del suo potere: in cambio della tua anima, la Deva Freya esaudirà un tuo preciso desiderio. Dimmi, Nataša, vorresti che tale desiderio si avverasse?”

Sebbene rinchiuso in un angolo inaccessibile del suo inconscio, un desiderio sopito muove il braccio e le labbra di Nataša. La sua mano si allunga incerta e le sue dita si incrociano a quelle dell’altra donna: “Sì.”

I suoi occhi violetti risplendono di raggi ultraterreni e le sue labbra si incurvano in un sorriso che cela emozioni discordanti.

Sussurra: “Il Contratto…è concluso.”

 

*   *   *

 

Ore 8:00. Ospedale centrale di Mosca.

 

Nat riaprì d’impulso gli occhi.

Nella rètina ancora mezza addormentata gli danzavano lunghi fili dorati, viola e rossastri, come brandelli di un sogno lasciato a metà. Quando i residui del sonno si dissolsero, la prima cosa che vide fu il soffitto grigio e stinto della stanza in cui si trovava.

Debolmente si diede un’occhiata intorno: il suo corpo riposava sotto un lenzuolo bianco dalla qualità piuttosto economica e se non fosse stato per un sottile strato di camice da ricovero la sua pelle avrebbe toccato il materasso. Un elettrocardiogramma mandava impulsi stabili, mentre una flebo con dentro un qualche strano liquido opaco aveva smesso di pompare attraverso il tubicino di gomma inserito in una vena dell’avambraccio. Altre due piccole pipette le erano state inserite nelle narici, solleticandole e riempiendole di un pungente odore di ammoniaca mista a qualche altro medicinale.

Sono ancora viva. – pensò tra sé, allungando lo sguardo al resto della scialba stanzetta d’ospedale in cui si trovava.

Fuori dalla porta si sentiva un fitto chiacchiericcio.

“Sei sveglia.” – una voce di donna la colse di sorpresa.

Ekaterina Asimov era in piedi con la schiena contro la parete destra della stanza, reggendo delle cartelle cliniche.

“Dottoressa…” – mormorò Nat, ancora stordita – “…non l’avevo notata.”

 

Macerie, grida, scintille ovunque.

Un uomo anziano riverso al suolo in una pozza di sangue e sua figlia che lo fissa sgomenta.

 

Nat serrò i denti e le palpebre tentando di ricacciare indietro quell’immagine ancora così vivida, ma non vi riuscì.

“Mi spiace.” – disse poi, a bassa voce.

“Come, prego?”

“Per suo padre, intendo. Per caso lui…?”

“Non ce l’ha fatta, no.” – la interruppe la scienziata – “Grazie per averci pensato subito. Il funerale è stato due giorni fa.”

Due giorni. Come era possibile che lo avessero già organizzato?

“Quanto tempo è che sono qui?” – chiese ancora, se possibile perfino più intontita di prima.

“Sono passati quattro giorni. Hai ripreso piena conoscenza solo ora.” – rispose freddamente la Asimov.

“Già quattro giorni…” – ripeté con sconcerto la ragazza.

“Hai visite, comunque. Credo ti farà piacere.” – e si congedò, aprendo la porta della stanzetta.

Oltre la soglia, lo sguardo di una donna sulla cinquantina incrociò il suo e poi si affrettò a entrare nella stanza, seguita da un ragazzino.

“Nataša…!” – sua madre la raggiunse fremente, prendendo il suo viso tra le male e baciandola sulla fronte – “Oh Dio…oh, grazie a Dio! Come ti senti?!”

“Nat!” – suo fratello Luka quasi le si gettò sul letto, stringendole il braccio abbastanza forte da farle sfuggire un gemito.

“Aspetta Luka, fa’ piano, tua sorella si è appena svegliata.” – lo rimproverò senza durezza sua madre; lui si staccò, imbarazzato.

“Mamma…Luka…” – sorrise sua figlia, tentando debolmente di mettersi a sedere sul letto – “Avete aspettato che mi svegliassi per tutto questo tempo?”

“Aspetta, non…”

“Sto bene.” – e si sfilò i respiratori dal naso – “Sono solo un po’ confusa.”

“Oh, tesoro, con tutto quello che è successo!” – la signora Novikov ricacciò indietro le lacrime di commozione che volevano affiorare – “Dobbiamo chiamare i nonni!”

Ed estrasse dalla borsa uno smartsquare per cercare il numero.

Luka chiese ancora alla sorella: “Nat, ma che è successo l’altro giorno?”

“Beh…io non…non sono sicura.” – mormorò lei. Era vero. Non riusciva a capacitarsi di cosa era potuto accadere il giorno del suo compleanno. Laboratori segreti, armi dalla forma di giganteschi umani, Nazisti…se si fosse fatta un trip allucinogeno durante la visione di un film di fantascienza avrebbe avuto visioni più verosimili.

Luka le si avvicinò ancora per non farsi sentire troppo da sua madre, che passeggiava per la stanza mentre annunciava ai parenti che la loro Nat stava bene e che li avrebbe chiamati dopo. “Il telefono di casa squilla da tre giorni. Mamma e papà sapevano più che inventarsi per tenere buoni tutti!” – bisbigliò lui.

“Tutti chi?”

“Beh…tutti!” – ripeté Luka. – “Prima le tue amiche, poi credo dei tizi di lavoro di papà e anche qualcuno della TV!”

“Come la TV?!” – Nat iniziava a riprendere le forze, ma non era del tutto un buon segno.

“Shhh, non farmi scoprire per favore!” – le fece segno il fratello – “Mi hanno detto di far finta di niente, ma secondo me sbagliano loro. Ne hanno parlato anche al telegiornale! Dicono che hanno visto…tipo dei robot giganti, hai presente quelli dei cartoni animati? Hanno fatto un sacco di interviste a quella signora bionda che era qui e anche a papà e lui ora è sempre preocc-“

“Ho avvisato la nonna Anna e anche gli zii.” – sua madre si era riavvicinata e Luka si era automaticamente ammutolito – “Se hai voglia dopo puoi chiamarli, che dici?”

Nat annuì con un verso distratto, cercando di allineare le idee.

Qualcuno l’aveva vista? Milioni di domande, mass-media, inchieste, interviste e casini vari: ecco cosa ne sarebbe venuto fuori. E come se non bastasse, in quella stanza mancava un elemento fondamentale: suo padre. Con tutto l’accaduto, con il trauma appena subìto e una valanga accettabile di domande da porgli a Nataša sembrò assurdo che l’uomo più importante della sua vita non fosse lì.

 

“Dov’è papà?” – domandò d’un tratto.

“Beh, lui…” – sua madre tentò senza molto successo di giustificare l’assenza – “…ha degli incontri molto importanti in questi giorni.”

“Più importanti di me.” – sottolineò Nat con sarcasmo – “A quanto pare.”

 

*   *   *

 

Stanza del Oberstleutenant Dietrich. Settore-12; Base Golgotha.

 

Zeitland riposava supino sul piccolo letto del suo appartamento.

Sollevò il braccio sinistro verso l’alto: era fasciato da bende che lo stringevano fino al torso nudo. Serrò un paio di volte il pugno in aria. Non faceva male ma era ancora indolenzito.

Provò a chiudere gli occhi.

Luci rosse di un abitacolo di guida in perenne lampeggiamento, la sensazione di sentirsi cullato in una bolla a zero-Gravità, una brughiera notturna in fiamme. Quella Macchina: nera, elegante, feroce più del suo Fafner e veloce come un alito di vento. L’Infinito – a un certo punto – aveva anche preso forma, nelle sue infinite tonalità e due occhi azzurri e innocenti come un cielo di primavera gli si erano incisi nella mente. E poi un dolore da strapparsi i capelli che gli pervadeva il braccio; sangue rosso oltre i monitor di guida.

Petali di rosa.

Li riaprì.

Tutto inutile: come da tre giorni a quella parte, le stesse ombre della battaglia continuavano a stamparsi nel fondo del suo cervello.

Chi era quella ragazza? – si chiese.

Era in ritardo.

 

*   *   *

 

Stanza Reale del Mond-Kaiser; stessa Base.

 

Il suono melodioso di un’arpa dorata echeggiava per l’immenso appartamento del Re Lunare. Arya – la Siren, ora libera da catene – ne suonava le corde su uno spalto rialzato rispetto al pavimento. Marmi splendenti ricoprivano ogni superficie e le immense vetrate gotiche aprivano la visuale sul terreno lunare.

“Volevate vedermi, mein Kaiser?” – chiese Zeit, al centro della sala. Si era rivestito, ma il braccio fasciato pendeva ancora dal suo collo.

Il leader supremo di Golgotha era ritto sul piano più elevato, di spalle.

“Soltanto parlarti.” – rispose, voltandosi – “In fin dei conti credo che Luft-Oberst ti abbia già redarguito a sufficienza, nella riunione di eri.”

Senza maschera, l’uomo al vertice del Quarto Reich si mostrava per quello che era: un giovane dal viso di pallido e raffinato, quasi femminile, dagli occhi sottili e scuri come quel fiume di capelli neri. Degli abissi in cui sprofondare. Per essere un uomo la sua bellezza era sconcertante.

Da una bottiglia di nera versò in un bicchiere una qualche bevanda viola e domandò con una pacatezza che inquietò Zeitland più di ogni altra cosa: “Come va il braccio?”

“Meglio. Vi ringrazio.”

Il Kaiser continuò a mescolare il liquore nel calice, poi aggiunse con una nota di sarcasmo: “Doveva certamente trattarsi di un avversario molto temibile se è riuscito a disarmarti così, Schwarz Ritter.”

“Soltanto imprevisto.”

Una ragazza, ecco chi era stato il suo nemico, lo aveva battuto. Imperdonabile.

“Ma certo.” – un’increspatura infinitesimale nel sorriso del leader supremo fece accapponare la pelle di Zeit – “Nessuno di noi si sarebbe mai aspettato che i Russi nascondessero una Divinità Metallica.”

Rivolse un’occhiata agghiacciante alla Siren inginocchiata e Arya dovette chinare lo sguardo. Poi riprese a parlare, con tono più autorevole e formale: “Nonostante questo, però, il miglior pilota del Reich non dovrebbe uscirne sconfitto, danneggiando gravemente anche una delle preziose Machine a nostra disposizione. Com’è stato possibile?”

“Mi sono distratto per un attimo e l’avversario ne ha approfittato, tutto qui.” – si affrettò a rispondere.

Questo lo hai già detto ieri.” – pur tentando di controllarsi, il Kaiser parve perdere improvvisamente la pazienza.

Il bicchiere che stringeva in mano si era incrinato dalla pressione.

Un’ondata di disagio colse di sorpresa il giovane Dietrich. Da quando era nato, sulla Luna, mai una sola volta era stato ritenuto esempio di debolezza e ora non solo aveva miseramente fallito alla sua prima missione in solitaria ma aveva anche suscitato il fastidio dell’Imperatore. Per la prima volta, il senso di colpa gli percorse i nervi fino a fargli sputare le parole successive tutte d’un fiato: “D’accordo, lo ammetto. Ero sul punto di ucciderlo quando Fafner si è bloccato, smettendo di obbedirmi! Non capisco proprio il motivo…mancava così poco!”

Serrò un pugno.

L’Imperatore inarcò appena un sopracciglio in un’espressione di raro stupore: “Ah…dunque è così. Beh, questo cambia tutto. Forse dovremmo riconsiderare l’affidabilità di quella Machine…e magari anche il tuo ruolo come Meister.”

“No!” – Zeit non si rese nemmeno conto di aver alzato la voce in modo così brusco – “Sono io il pilota di Fafner e sono in grado di portare a compimento tutto ciò che mi ordinerà! Posso riscattarmi…magari con un’altra missione.”

L’uomo dai lunghi capelli neri attese un istante e poi iniziò a scendere con passi lenti i gradini che lo distanziavano dal suo sottoposto.

“In questo mondo di freddo e buio in cui siamo esiliati” – disse gravemente – “a voi Meister sono concessi diritti negati a chiunque altro. Voi siete gli eletti. Se non ripagaste questo privilegio con la vittoria del Reich, che enorme spreco sarebbe?”

Zeitland chinò la testa, sotto un peso invisibile. Si vergognava di sé stesso: “Avete ragione, mein Kaiser”.

“La volontà delle Machine è certamente un enigma,” – continuò l’altro, che ora gli passeggiava intorno – “ma questo non può giustificare l’incapacità a comandarle.”

Si fermò proprio difronte a Zeitland, che d’istinto si sentì in dovere di alzare lo sguardo e fissare dritto negli occhi il suo interlocutore.

“Devi essere consapevole che la responsabilità di tutta la gente di questa colonia grava anche su di te.” – concluse il Kaiser.

“Io sono stato scelto da Fafner per pilotarlo, mein Herr.” – affermò Dietrich, inghiottendo un groppo amaro e cercando di riprendere un contegno marziale – “Farò in modo che il nostro grande Reich torni a dominare sul mondo, grazie al potere che la Machine mi ha concesso. Posso garantirlo.”

Il comandante in capo del Reich lunare sorrise appena e poi si allontanò, dandogli le spalle: “Ne sono convinto.”

Fece ancora qualche passo e poi si voltò ancora di tre quarti.

“E un’altra cosa.” – aggiunse – “Una Divinità Metallica in mano ai terrestri è un sacrilegio. Vedi di uccidere quel pilota.”

“Sissignore.” – Zeit strinse il pugno con ancora più forza.

“Ora va’ e medita su ciò che ti ho detto.”

Dietrich girò sui tacchi e si avviò verso l’uscita, quando si rese conto di essere osservato: proprio di fianco alla grande porta, Adler Jung – le braccia conserte con uno sfacciato ghigno dipinto in volto – lo fissava.

“Brucia, eh?” – sibilò Schattennarr, quando gli passò accanto.

Zeitland non rispose.

 

 

   
 
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