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Autore: umavez    05/08/2013    3 recensioni
“Pensò a cosa rispondere allo shinobi che gli stava affianco. Avrebbe saputo benissimo come spiegare quel suo comportamento, quel suo drastico calo di concentrazione che gli impediva addirittura di lanciare un sasso ad una distanza pressappoco ridicola, ma sapeva altrettanto bene di non dover far alcun riferimento al suo clan, al suo cognome a quel loro essere diversi, a quel loro essere divisi.
Inspirò pesantemente l’aria, lasciandola poi scappar via dai suoi polmoni con lentezza, quasi ad assaporare ogni singola molecola di ossigeno presente.
« C’è fermento. » si limitò a dire.
C’è la guerra, è arrivata anche qui.”
Una song-fic su una delle canzoni, a parer mio, più belle di Fabrizio De Andrè!
Genere: Guerra, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hashirama Senju, Madara Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Più contesti
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Disamistade - Inimicizia

 
 
 
 

Che ci fanno queste anime davanti alla chiesa
questa gente divisa, questa storia sospesa

 

« Non ne sei in grado.» disse il ragazzo scostandosi da davanti agli occhi un ciuffo di quei capelli liscissimi che, col tempo, erano arrivati a sfiorargli le ciglia. Il bambino davanti a lui si imbronciò visibilmente, pronto ad accogliere a braccia aperte la sfida.


« Oh sì, invece! Sta a guardare! »


Madara diede uno sguardo fugace al terreno in cerca di una pietra che potesse essere abbastanza liscia da poter rimbalzare sulla superficie del fiume. Dopo mezzo minuto di minuziosa ricerca, si decise a prendere il primo che gli capitò a portata di mano, impaziente di dimostrare all’altro le sue indubbie capacità. Tirò il sasso il più velocemente possibile per cercare di non far vedere al suo compagno la tecnica con la quale lo aveva lanciato. Dopo neanche un paio di secondi sentì il rumore dell’acqua infrangersi sotto il peso di qualcosa – qualcosa che entrambi sapevano essere quel piccolo sasso che poco prima Madara aveva lanciato. Rimase sgomento a guardare le onde dell’acqua muoversi fino a raggiungere la riva. Si prese qualche secondo per  immaginarsi il volto di Hashirama, sicuramente compiaciuto, e ancor prima di sentire la sua voce dire qualcosa per deriderlo bonariamente, decise che era il caso di rimproverarlo.


« E’ tutta colpa tua! Tu! Sei un nano malefico! Mi hai scagliato contro una maledizione, non è così?!»


Hashirama, seduto su un masso, chinò sconsolato la testa, cominciando a torturarsi le unghie, sinceramente dispiaciuto.


« Non credevo che avresti fallito sul serio...io stavo scherzando...»
« Bugiardo! »
« Scusami...»


Madara sospirò, affranto. “Con questo ragazzino non si può nemmeno scherzare” pensò, togliendosi di dosso quella maschera di irritabilità – che tanto maschera non era – per sedersi accanto ad Hashirama. Sperò che quel suo avvicinarsi e mettere da parte l’ascia di guerra avrebbe fatto desistere il ragazzo dall’autocommiserazione, ma Hashirama continuava ad emanare una certa aura di negatività.


« E smettila di frignare, Hashirama! Non capisco come sia possibile che tu sia quello che inizia a prendere in giro e che poi sia anche il primo a rimanerci male. »


Il ragazzo al suo fianco fece spallucce, non sapendoselo spiegare nemmeno lui, ma si sbrigò, vista l’alta concentrazione di isteria nella voce dell’amico, ad asciugarsi il volto con un braccio.


Madara, nel frattempo, prese un altro sasso e cominciò a rigirarselo tra le mani. Dando un’occhiata al fiume calmo si decise a non lanciarlo: sarebbe stato l’ennesimo buco nell’acqua, letteralmente.


« Come mai oggi non ci riesci? » chiese ingenuamente Hashirama guardando la pietra che Madara si rigirava tra le dita « di solito la mandi sempre sull’altra sponda. »


Madara, punto sul vivo, rigettò la pietra tra le altre come per far finta di non averla mai tenuta in mano, il solito rumore di accozzaglia a disturbare le orecchie quando questa cadde a terra. Il ragazzo si pulì le mani dalla polvere sottile che il sasso gli aveva lasciato sui palmi.


Pensò a cosa rispondere allo shinobi che gli stava affianco. Avrebbe saputo benissimo come spiegare quel suo comportamento, quel suo drastico calo di concentrazione che gli impediva addirittura di lanciare un sasso ad una distanza pressappoco ridicola, ma sapeva altrettanto bene di non dover far alcun riferimento al suo clan, al suo cognome a quel loro essere diversi, a quel loro essere divisi.


Inspirò pesantemente l’aria, lasciandola poi scappar via dai suoi polmoni con lentezza, quasi ad assaporare ogni singola molecola di ossigeno presente.


« C’è fermento. » si limitò a dire.
C’è la guerra, è arrivata anche qui.


Sentì Hashirama compiere il suo stesso gesto con altrettanta esasperante lentezza. La loro aria si mischiava, vi era lo stesso identico fermento che entrambi riuscivano a percepire, eppure erano divisi.


« Sì. » affermò Hasirama, i capelli a caschetto che tornavano a solleticargli leggermente gli occhi.


Madara fu contento di non dover portare avanti quella conversazione, e quasi rilassato, si sdraiò sul masso tremendamente scomodo su cui si ritrovava seduto, incrociò le braccia dietro la testa e chiuse gli occhi. Hashirama però non aveva nessuna intenzione di rimanersene in silenzio.


« Quindi sei come...regredito? » chiese il giovane alzandosi e prendendo un sasso che, con straordinaria ed invidiabile facilità, arrivò a toccare l’altra riva. Madara aprì giusto un occhio per gettare uno sguardo annoiato su ciò che stava facendo l’amico. E quando vide quello sguardo appagato e soddisfatto che ormai aveva imparato a conoscere in ogni minimo dettaglio, non resistette più e gli saltò al collo.


« E’ stata tutta colpa tua!! »
 

A misura di braccio, a distanza di offesa
Che alla pace si pensa, che la pace si sfiora


 
« Se tu solo potessi immaginartelo! » disse entusiasta Hashirama, le braccia aperte verso il panorama come a volerlo circondare e abbracciare. Madara, guardandolo in quello stato, si chiese se fosse davvero il ninja abile con cui combatteva assiduamente.


« Me lo immagino. » rispose sarcastico, spostando lo sguardo dal ragazzo al bosco di fronte a loro, le montagne sullo sfondo a incorniciare il tutto.


« Potremmo costruire anche un mega parco, con degli scivoli e dei giochi per bambini, così usciti dall’accademia potrebbero andare a divertirsi, eh? »
Madara sorrise all’idea, senza però dare a vedere tutto il suo entusiasmo. Ciò che più di tutti lo divertiva era il modo stravagante ma perfettamente esatto con cui Hashirama – che aveva scoperto avere una fervida, fervidissima immaginazione – riusciva a presentargli davanti agli occhi ogni minimo particolare del loro screanzato sogno senza capo né coda, ma già perfettamente congeniato.  


« I bambini del villaggio finirebbero per essere dei pappamolle con tutti i parchi che vuoi costruire. » disse, sentendosi in dovere di smorzare un po’ l’atmosfera di sovreccitazione.
Il giovane Senju – che era semplicemente Hashirama, per l’altro – si accovacciò su se stesso, offeso.


« Ma almeno potrebbero essere sereni...» piagnucolò, immergendo la testa tra le ginocchia e cominciando a dondolare pericolosamente avanti e indietro. Quando infine cadde, sbilanciato dalla spinta troppo energica che si era dato con i piedi,  notò che Madara era troppo preso a guardare l’orizzonte per rispondergli e per badare a lui.


« Riesci a vederlo? » chiese quindi speranzoso Hashirama, domandandosi se Madara riuscisse davvero a vedere case, bambini e pace tra quel fruscio di foglie e le brezze del vento.


« Io...» cominciò Madara. Tornò a guardare il compagno.


Si disse che se loro due riuscivano a convivere in quel modo, allenandosi e fantasticando su cose inverosimili, allora forse anche i diversi clan avrebbero potuto riuscirci. E nonostante quel loro stare insieme fosse ancora così precario e instabile da poter essere distrutto da un semplice cognome, decise di credere che un giorno avrebbe potuto rivelare all’amico di essere un Uchiha ricevendo in cambio solamente un sorriso di quelli enormi che Hashirama dispensava solitamente in seguito alle sue crisi depressive senza senso.


Decise di credere che quella loro distanza di sicurezza che poteva rompersi sia per un abbraccio sia per un’aggressione, che quella distanza lunga giusto un braccio, sufficiente o per colpire alle spalle o per una semplice pacca consolatoria, un giorno non sarebbe più esistita, e sarebbero stati membri di una sola famiglia.


Sorrise ad Hashirama che, nell’attesa, si era fatto perplesso.


« ...Sì. » sussurrò, tornando a guardare l’orizzonte, e gli sembrò davvero di scorgere comignoli fumanti e luci accese nei palazzi.
« Già la vedo. » Il sorriso si ampliò sul volto di entrambi.


« Siamo vicini alla pace, me lo sento. »

Due famiglie disarmate di sangue si schierano a resa
E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà



« Non lo vedi?!» urlò Hashirama, la fronte imperlata di sudore e un immancabile rivolo di sangue all’angolo della bocca. Izuma e Tobirama, poco distanti, continuavano a combattere. Madara preparò un nuovo colpo, nella forza delle sue azioni nessuna intenzione di porre fine a quella faida. L’istinto lo divise nuovamente tra la scelta di proteggere i Senju e quella di riuscire a salvare Madara da se stesso. Parò il colpo, indietreggiando di qualche passo.


« Non lo capisci, Madara?! » chiese con maggior impeto, ritirandosi ancor più indietro dopo l’ennesimo attacco del suo rivale immemore che quel giorno sembrava essere instancabile.
Lo sguardo del capo degli Uchiha era fisso su di lui, rosso, la mano stretta intorno alla katana.


« Non c’è bisogno della guerra! Tu non hai mai voluto la guerra! »


A quella dichiarazione che altro scopo non aveva se non quello di riportare alla memoria di entrambi un sogno lontano milioni di anni luce ma in realtà onnipresente, non provocò nessun effetto. Lo sguardo di Madara rimase invariato,  e solamente la stretta sulla katana si fece più salda.


Hashirama sentì gli occhi pizzicargli, e lasciò cadere le braccia inermi lungo i fianchi, nonostante sapesse che Madara non avrebbe seguito il suo esempio. Quegli occhi rosso sangue rimanevano puntati dritti nei suoi.


« Non vedi che non c’è più sangue, da versare? » sussurrò a mezza bocca, il vento a scompigliare i lunghi capelli castani e a muovere le vesti larghe. Un attimo di lunghissimo silenzio lasciò ad entrambi il tempo di scrutarsi a vicenda mentre intorno a loro la battaglia imperversava. Hashirama avrebbe desiderato dire di conoscere abbastanza bene Uchiha Madara da poter prevedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa, sia che questa fosse una resa, un insulto o parole di puro odio, ma si sentì così impreparato davanti a ciò che l’avversario disse che per un attimo percepì le gambe cedere. 


« Il sangue dei Senju scorrerà copioso su questa terra da riuscire ad impregnare la pietra. »


E mai parole furono più dolorose, per Hashirama Senju. La sua mente cercò addirittura di calcolare la quantità di sangue necessaria per far sì che una pietra potesse effettivamente tingersi di rosso, e la risposta che fu rimandata al suo cervello lo raccapricciò a tal punto che per un attimo, quell’attimo in cui Hashirama assottigliò gli occhi per scrutare a fondo lo Sharingan di Madara, riuscì a provare odio per il suo vecchio amico.


Pochi secondi dopo il capo dei Senju tornò alle trattative, o a tutto ciò che quelle chiacchiere scambiate nel bel mezzo di una guerra sarebbero mai potute essere.  


« Il sangue del mio clan è stata versato tanto quanto il tuo. Perché non porre fine a tutto questo? »
« Hashirama, » gli occhi di Madara si spalancarono in un’espressione folle « il vostro sangue non sarà mai abbastanza rispetto a quello dei miei fratelli. »


 Ed ecco arrivare quella nota dolente, quel nome, quel legame che significava tutto, e che la guerra non aveva fatto altro che recidere. Fratello, pensò Hashirama, e ripensò subito alla morte del suo caro Itama. Come non comprendere il dolore e la rabbia di chi ha visto morire tre dei propri fratelli? Nel veder venir fuori una parte di umanità – per quanto insana – da quella che ormai sembrava essere un’anima divorata dall’odio, Hashirama credette che non tutto fosse ancora perduto.
 
« Anche io ho perso due fratelli, Madara, anche io so cosa significa. Perché non mettiamo da parte rancori e vendette? Tutti abbiamo provato gli stessi dolori. »


« Gli stessi dolori? » la risata di Madara giunse irrisoria e impertinente. Il volto in parte coperto dai capelli scuri deformato dalle troppe risa.


« Per me i vostri stupidi dolori non sono nulla. Voi Senju la pagherete cara per tutto quello che avete fatto, un Uchiha non dimentica il dolore. »


Hashirama abbassò lo sguardo, sconfitto, senza trovare altro da aggiungere a parole così crude.


« E questo tuo volerti schierare a resa non mostra altro che la tua debolezza. Non ci sarà resa finché tutto il sangue necessario non verrà versato. »


Madara attivò Susanoo, scagliandosi in avanti per un altro attacco.


« Un Uchiha non dimentica! » urlò.


Si accontenta di cause leggere la guerra del cuore,
il lamento di un cane abbattuto da un'ombra di passo

 
 
Madara portò il cucchiaio alla bocca ingerendo quella brodaglia bollente senza sentir bruciare la gola e, più in generale, senza sentire nulla. Se giornalmente qualcuno dei suoi sottoposti non gli avesse ricordato che era ora di pranzo o di cena, Madara si sarebbe limitato a non mangiare nulla fino a quando i crampi allo stomaco non lo avessero riportato alla realtà.


Guardandosi intorno vide come tutto ciò che lo circondava sembrava essere un accampamento temporaneo. Ogni cosa era arrangiata: le cucine, le case, i posti letto. Tutto era precario.
 
Tornò lentamente alla sua cena, giocherellando con il cucchiaio e rimanendo sempre più indifferente al sapore che quel pasto gli lasciava in bocca.
 
Izuna rientrò in quel momento, in mano una katana stranamente pulita.  Subito lo invitò a sedersi al suo fianco spostando una sedia verso la sua direzione. Il ragazzo accettò ben volentieri l’invito, ritrovando in quell’atmosfera di rara e tranquilla familiarità un ottimo modo per rilassarsi e riacquisire un po’ di forze.


Uno sguardo più attento portò poi Madara a notare una ferita sul braccio. Lasciò cadere il cucchiaio nel piatto, parte del brodo finì sul tavolo arrangiato alla bell’è meglio con travi di legno.
 
« Izuna. » disse, il tono autoritario di un fratello maggiore.
 
« Sì, fratello? »
« Chi ti ha fatto questo? »
 
Due paia di occhi neri si soffermarono quindi sul taglio superficiale e quasi trascurabile che percorreva parte del braccio e che aveva strappato una minima parte della lunga veste da combattimento.
 
« Ah, » disse guardando quel piccolo taglio divertito « non me ne ero nemmeno accorto. »
 
Madara lanciò uno sguardo riflessivo al fratello minore, porgendogli poi il piatto quasi pieno di quella che sarebbe dovuta essere la sua cena e che si era rivelata solamente inutile routine.
 
« Grazie. » Izuna cominciò a mangiare. Madara fu contento di vedere che almeno ad Izuna il calore del pasto dava ancora sollievo.
 
Tornò a pensare alla ferita sul braccio. La preoccupazione di quando Izuna andava in ricognizione o in missioni esplorative non lo lasciava nemmeno un istante, e nonostante sapesse che quello che poteva arrivare a malapena a definirsi un graffio non aveva nessun potere di uccidere suo fratello, Madara non riusciva a smettere di credere che forse l’imprudenza o la giovinezza un giorno gli sarebbero costate la vita, e che quello che per una volta si era limitato ad essere una ferita superficiale, un altro giorno, in un’altra occasione, contro un altro avversario, avrebbe potuto diventare uno squarcio.
 
« Ci sono novità dal campo di battaglia? » chiese Madara, distogliendo se stesso dai suoi pensieri.
 
« I Senju sorvegliano bene la zona. C’è una vedetta in cima alla collina a nord-est, hanno un’ampia visuale su tutto il campo. Purtroppo non siamo riusciti ad espugnare quella base, è intervenuto Hashirama. »
 
Madara istintivamente sorrise a sentire quel nome
 
« Hashirama. » ripeté.
 
Il fratello lo guardò perplesso, ma prima di poter chiedere all’altro cosa ci fosse da sorridere, Madara lo anticipò.
 
« Chi ti ha fatto quel taglio? » chiese di nuovo, ossessionato dalla necessità di sapere nome e cognome del responsabile.
 
Izuma si guardò nuovamente il braccio.
 
« Non ricordo, fratello. »
 
Madara giurò allora a se stesso che chiunque fosse stato a ferire suo fratello in quel modo – seppur insignificante - , lo avrebbe trovato e lo avrebbe ucciso. Anche a costo di sterminare ogni Senju sulla faccia della terra.
 

Si soddisfa di brevi agonie sulla strada di casa
uno scoppio di sangue, un'assenza apparecchiata per cena

 
 
Tobirama stava tornando in quel momento da uno dei pochi momenti di riflessione che poteva permettersi durante la giornata, da quel piccolo lusso che suo fratello lo aveva invitato a concedersi almeno una volta ogni tanto, giusto per ricordarsi della bellezza degli alberi della zona che venivano periodicamente sradicati o la purezza dell’aria che ad ogni passo veniva inquinata da terra o da sangue. E proprio in quel momento, mentre il ricordo di terre incondizionate gli attraversava la mente, vide un bambino.
 
Stava accovacciato su se stesso all’angolo di una strada, pensieroso, e disegnava con le mani sulla terra qualcosa di ancora non visibile ai suoi occhi. Gettò uno sguardo veloce alla porta di casa sua, dove sapeva attenderlo un pasto caldo e la risata spensierata di suo fratello, ma poi quel bambino sospirò affranto e Tobirama capì che finché non avesse trovato il motivo di tanto dolore non sarebbe riuscito a mandar giù boccone.
 
Deviò quindi direzione e sempre con quella velocità e leggiadria che lo contraddistinguevano giunse davanti al ragazzo talmente inaspettato che il giovane sussultò, la schiena schiacciata sul muro dietro di lui.
« Che ci fai qui, ragazzo? » chiese senza perder tempo, una mano che si andò ad appoggiare sulla spalla di lui. Il bambino chinò lo sguardo prima fisso negli occhi dell’uomo dai capelli argentei , tirò su con il naso.
« Il mio gatto è scappato. » biascicò, come vergognandosi di quella ammissione.
 
Tobirama, per suo conto, era già propenso ad un’alzata al cielo e ad andarsene via, irritato. Poi però guardò il disegno del suddetto gatto che il bambino aveva artisticamente riprodotto in terra con le sue dita. Gli sembrò di vedere affetto in quei baffi decisamente troppo lunghi e quelle zampe in posizioni innaturali.
 
« Come si chiamava? » domandò, costringendosi alla curiosità.
 
« Si chiamava come mio padre. » rispose il bambino, lo sguardo che tornava deciso ma  questa volta pieno di lacrime ad incontrare quello dell’uomo. « Mio padre è morto. » concluse.
 
Tobirama chiuse gli occhi, prendendo piena consapevolezza di quanto la perdita di quel gatto non fosse altro che la riapertura di una ferita più grande. Il ricordo inamovibile di una ferita enorme.
 
« E’ colpa degli Uchiha. » disse, portando anche l’altra mano sulla spalla del bambino.
 
« Quando li avremo sconfitti, nessuno soffrirà più. È tutta colpa de-»
 
« Tobirama. »
 
Il più giovane dei fratelli Senju spalancò gli occhi, il tono di voce usato dall’altro decisamente poco amichevole. Voltandosi vide Hashirama aspettarlo sulla soglia della porta. Sapeva esattamente il motivo per cui era stato ripreso ed interrotto, ma non trovò il coraggio – o meglio, nessuna ragione logica – per rimangiarsi le proprie parole, né per chiedere scusa.
 
« Ti aiuteremo a trovare il tuo micio, ragazzo, si sarà solo spaventato un po’. » riprese Hashirama, invitando poi il fratello ad entrare in casa con un cenno della testa. Tobirama lo seguì diligentemente.
 
Fu la piccola sala da pranzo ad accoglierli, disordinata e sottosopra, sul tavolo pronte due razioni di cibo non troppo abbondanti. I due fratelli si sedettero rispettivamente l’uno davanti all’altro, posti sui due lati lunghi.
 
Il pasto cominciò in silenzio, proprio come Tobirama si aspettava. Il fratello avrebbe poi detto la sua a fine cena probabilmente, rimproverandolo per il suo comportamento e le sue parole, e sperando di farlo sentire in colpa ed immaturo.
 
« Ti ricordo, » disse severamente infatti mentre l’altro mandava giù un sorso d’acqua per strozzare il boccone «che bisogna essere in due, per fare una guerra. Bisogna essere in due, per uccidere qualcuno. »
 
Lo sguardo fisso negli occhi di Tobirama.
 
« Bisogna essere in due per venire uccisi. »
 
Hashirama si alzò da tavola portando via entrambi i piatti ormai vuoti e riempiendo nuovamente i bicchieri con un po’ d’acqua, riaccomodandosi più pesantemente di prima, lasciando andare la schiena sulla spalliera della sedia che, pericolosamente, cigolò.
 
« In questa guerra, » disse « entrambi gli schieramenti hanno le stesse responsabilità. Tutti proviamo e provochiamo lo stesso dolore. Bambini Uchiha si staranno chiedendo che fine ha fatto il proprio, di gatto, proprio come quel ragazzo là fuori, e tutti-»
 
« Ma come puoi parlare così, fratello?! » Tobirama si alzò, le mani aperte poggiate violentemente sul tavolo e la sedia, nell’impeto di alzarsi, rovesciata per terra. Hashirama lo guardò, non particolarmente sorpreso, ma con sguardo severo ed autoritario.
 
« Come puoi dire che abbiamo le stesse responsabilità quando tu hai cercato di porre fine a tutto questo mentre lui non vuole far altro che ucciderci tutti?! Gli stessi dolori, fratello? Lui non sa cosa vuol dire-»
 
« Non sa cosa vuol dire? » la voce del fratello sembrava per la prima volta alterata davvero.
« Tutti qui sanno cosa vuol dire perdita,Tobirama, lo hai visto con i tuoi occhi, anche quel bambino là fuori lo sa! E gli Uchiha non sono altro che la stessa identica faccia della medaglia. Ogni persona qui, ogni ragazzo, ogni madre...»
 
Gettò uno sguardo alla sedie vuote dove tempo addietro erano soliti sedersi Itama e Kawarama. Il numero dei bicchieri a tavola non faceva altro che diminuire, e quel tavolo troppo grande sembrava semplicemente ricordare loro anno dopo anno, che stavano perdendo. Non le battaglie, non la guerra, ma tutto il resto. La felicità, la compagnia, la tranquillità. Gli affetti.
 
« ...conosce la perdita. » si avvicinò alla sedia del più piccolo dei tre fratelli, ormai morto da tempo, e carezzò affettuosamente la spalliera, un sorriso ad increspargli le labbra.
 
« Quando la guerra finirà, questa tavola sarà di nuovo imbandita a dovere. Non ci saranno più posti vuoti, nessuna assenza. Uchiha e Senju mangeranno insieme senza doversi preoccupare di controllare se il cibo è avvelenato. »
 
Si avviò verso l’uscio di casa, aprendo la porta.
 
« E avremo migliaia di fratelli. »
 
Hashirama uscì, e il fratello sentì distintamente la sua voce urlare “Allora ragazzo! Descrivimi il tuo gatto, sono sicuro che lo ritroveremo!”, ma nonostante quella sua gioia nell’aiutare gli altri e quella inflessibile speranza che non lo abbandonava mai, Tobirama, al contrario, sentì crescere ancor di più la convinzione che prima o poi avrebbe portato al disastro.
 
« E’ tutta colpa degli Uchiha.» biascicò tra i denti, velenoso.


 

E a ogni sparo di caccia all'intorno si domanda fortuna

 
Si nascose maggiormente tra i cespugli, gli occhi vigili saettavano da una parte all’altra della sponda del fiume senza lasciarsi sfuggire nessun dettaglio, ma sapeva che imbranato com’era nel percepire gli altri chakra e la presenza di avversari, non sarebbe riuscito ad avvertire la presenza di qualcun altro oltre a lui, anche se viste le notizie giunte da nord qualche giorno prima riguardanti uno scontro cruento e brutale tra due raggruppamenti di Uchiha e Senju , era sicuro che ci fosse qualcun altro a controllare il letto del fiume.
 
Il suo cuore sperò ardentemente e contro ogni senso logico, che fossero di Madara quei due occhi neri che sorvegliavano la zona.
 
Avrebbero potuto affidare a qualsiasi sottoposto quel compito, anche ad un ragazzino inesperto – proprio come erano loro due anni addietro -, ma quel fiume li aveva richiamati quel giorno con troppa forza e con troppa nostalgia per delegare ad un altro quell’impiego.
 
Hashirama attese pazientemente, più preso dalla ricerca di un paio di occhi rossi e familiari che da altro. Poi, all’improvviso, qualcosa poco lontano emerse dall’acqua.  In un balzo fu fuori dal proprio nascondiglio, sotto la luce del sole, e davanti a lui, sull’altra riva, un inconfondibile uomo dai capelli lunghi.
 
Gli sorrise impercettibilmente, i capelli erano mossi dal vento e le vesti svolazzavano di qua e di là.
 
« Hashirama, » gli disse « il capo in persona che si disturba a controllare cadaveri. »
 
Hashirama venne percorso dai brividi all’ultima parola pronunciata da Madara.
 
« Anche tu sei qui. » replicò, il cadavere che intanto si avvicinava lentamente a loro. Madara ridacchiò, e sempre con tono saccente e ironico rispose.
 
« Solamente perché conosco bene questi luoghi e so come muovermi. » disse a mo di giustificazione, il cadavere ormai quasi davanti a loro.
 
Entrambi misero piede sull’acqua, rompendone l’equilibrio, e a passo lento si avvicinarono al centro del letto del fiume, dove il corpo esanime sarebbe di lì a poco giunto. Ebbero il tempo di scrutarsi e di studiarsi, ma più che altro ebbero il tempo di sperare.  
 
Speriamo che non sia un Senju, si disse Hashirama, sperando nella vittoria del suo clan, ed era sicuro che Madara, nonostante lo sguardo fiero e la postura imponente, stesse pensando esattamente le stesse cose.
 
« Ho come la sensazione, » disse l’Uchiha ridacchiando « che sarà un Senju, o uno dei vostri stupidi alleati. »
 
Hashirama evitò di replicare, chinandosi poi sulla superficie dell’acqua quando il corpo fu arrivato tra i due uomini. Gettò, ancor prima di guardare il cadavere, uno sguardo sotto la superficie, pensando che lì da qualche parte, sepolte da altre migliaia di pietre, forse trasportate via dalla corrente, forse ormai irraggiungibili, forse sbiadite ed erose, ci sarebbero dovute essere le loro pietre, la loro reciproca speranza di salvezza, la testimonianza del loro legame di amicizia e quella della loro apparentemente inevitabile divisione.
 
Poi vide il corpo. Gli occhi diventarono lucidi e anche Madara, davanti a lui, non poté fare a meno di stringere un pugno, rabbioso. Si guardarono a vicenda, l’odio momentaneamente sparito. Nessuno sembrò più badare al simbolo del clan ben visibile sulla veste bagnata.
 
« E’ solo un bambino. » dissero contemporaneamente.
 
 

Che ci fanno queste figlie a ricamare a cucire,
queste macchie di lutto rinunciate all'amore

 
 
Nonostante sapesse che sua moglie non gradiva che le si sciogliessero i capelli, Hashirama sentì il bisogno, in quel momento, di far scorrere le dita in qualcosa che non fosse sangue, di far vagare la mente su qualcosa che non fosse la guerra, di carezzare un viso non solo per chiudere gli occhi rimasti aperti di un cadavere.
 
Lentamente sciolse il primo chignon della donna, che sapeva essere sveglia e ben vigile nonostante rimanesse ferma, la guancia poggiata sul suo petto e una mano poggiata poco lontano, sull’addome.
 
Non si lamentava, Mito, anche se poi gli ci sarebbero voluti parecchi minuti per rimettere in sesto tutto quell’intrigo di capelli e di acconciatura.
 
Hashirama spense la luce, per dimenticarsi un attimo che quei capelli che adorava carezzare erano rossi.
 
Di un rosso inconfondibile e agghiacciante, e pur sempre bellissimo.
 
« Avremo mai un figlio, io e te? » chiese laconicamente, le dita intrigate tra i fili rossi e lunghissimi di lei. La donna alzò lo sguardo verso il volto del marito, ma con la debole luce che entrava dalla finestra riuscì solamente a scorgerne il profilo. Si mise seduta al suo fianco, lasciando che Hashirama si coricasse su di lei, scambiandosi posizione. Il marito poggiò la testa sulle sue cosce, e fu Mito quella volta a carezzare i capelli altrettanto lunghi dell’uomo.
 
« Certo che sì! » gli rispose allegramente, scostando quelle due ciocche di capelli castani al lato del viso che non smettevano mai di infastidire Hashirama durante un combattimento o appena tirava un filo di vento.
 
« E per allora la guerra sarà finita? »
 
Mito si chinò giusto il necessario per posargli un bacio in fronte.
 
« Non lo so. » rispose con un fil di voce, rimanendo piegata sul volto del marito per scorgerne meglio i tratti e i lineamenti.
 
Hashirama era esausto, le palpebre erano deboli e il sorriso che le regalò in quel momento stanco. Mito continuò a posare dolci baci su tutto il suo volto senza riuscire a scorgere sotto quella pelle liscia e abbronzata una minima traccia di vitalità o di brio. Si soffermò giusto un poco di più sulle sue labbra carnose e calde, prima di tornare con la schiena sulla spalliera del letto.
 
« Vorresti un maschio o una femmina?  » gli chiese, cercando di risvegliarlo a forza dalla trance in cui era caduto, dove – ne era sicura – l’argomento principale era la guerra.
 
Hashirama si voltò a guardarla dal basso verso l’alto. Per un attimo la donna vide il sorriso divenire enorme sulle guance dell’uomo per poi collassare su se stesso.  
 
« Non saprei, Mito. » disse, poco convinto « E’ meglio vedere il proprio figlio morire in guerra o guardare una figlia sprecare una vita intera per preparare un pasto caldo al padre che torna dal campo dibattaglia – sempre se tornerà? »
 
La donna chiuse gli occhi pesantemente, una lacrima scese lenta lungo la guancia sinistra.
 
« Qual è il modo migliore per mortificare un’esistenza? »
 
Mito pensò seriamente a quella domanda. Cercò di ricordarsi ogni nome di ogni donna che in quel momento, nel villaggio dei Senju, stava aspettando il rientro del marito dai turni di guardia, o dalle varie ricognizioni notturne, o anche solo di quelle che aspettavano invano. E nonostante non fosse riuscita a rammentare tutti i nomi di tutte quelle persone in attesta, riuscì a vedere distintamente i loro volti nella sua mente. Gli occhi consumati dal pianto, le labbra screpolate morse fino a sanguinare. Le unghie sporche di terra di sepoltura e un cuore arido che batte a ritmi lenti, lentissimi. Agonizzanti.
 
Avrebbe potuto dire a suo marito che la guerra avrebbe continuato a distruggere famiglie, che mogli e mariti sarebbero stati divisi prematuramente dalla morte e che figli e figlie avrebbero continuato a morire e ad aspettare pazientemente a casa il ritorno di qualche fantasma sperduto nel tempo e nello spazio. E che forse anche la loro famiglia avrebbe potuto subire la stessa fine, lo stesso infausto destino.
 
Ma Mito era una Uzumaki, e quel sangue che aveva dentro, quel vortice di emozioni e di speranza che mai l’abbandonava, le impose e la convinse a comportarsi diversamente. Con delicatezza fece alzare il marito dalle sue gambe, facendolo sedere davanti a sé. Si mise in ginocchio, poggiando il sedere sui propri talloni, e con delicatezza sciolse anche l’altro chignon, rimasto intatto fino a quel momento. Lasciò i lunghi capelli rossi liberi da fermagli e li vide arrivare fino al materasso e ben oltre.
 
Hashirama sorrise davanti a quella massa arruffata di bellezza.
 
« Tu renderai la vita dei nostri figli meravigliosa. » gli disse, carezzandogli il volto. « Qualsiasi cosa succeda, che la guerra continui o cessi, la nostra famiglia sarà felice, Hashirama. E un giorno riusciremo a porre la parole fine a tutto questo. Le donne non dovranno più aspettare un rientro incerto e non dovranno più occuparsi di funerali precoci. Non verranno più costruite bare per bambini. »
 
L’uomo si avvicinò a Mito fino a circondarle la vita con le braccia, poggiando invece la guancia sulla sua spalla e inspirando forte, fino ad intossicarsi con l’odore selvaggio di quei capelli rossi. Sorrise, Hashirama.
 
« Spero abbia i tuoi capelli. »

Fra di loro si nasconde una speranza smarrita,
che il nemico la vuole, che la vuol restituita


 
« Lascia che ti spieghi come stanno le cose. » gli disse con innaturale calma facendo un passo avanti nella sua direzione. L’uomo dai lunghissimi capelli neri sentì l’adrenalina invaderlo e cominciare a scorrergli per tutte le vene del corpo fino a fargli impazzire il cervello. Un tic nervoso alla mano faceva muovere le sue dita spasmodicamente intorno all’elsa della katana, ancora ben ferma nel fodero appeso al suo fianco.
 
Per poco, pensò.
 
Sorrise sghembo guardando prima gli occhi decisi e fieri del suo avversario, e poi l’orizzonte che, da lassù, da quella radura in capo al mondo, sembrava essere infinito. Si ricordò di aver scorso delle vite, una volta, da lassù, di aver saputo immaginare attimi di auspicabile tranquillità e di aver inventato giochi per bambini, ma quel suo nuovo Sharingan, quella sua ultima trasformazione interiore gli permetteva di vedere ben oltre, in quel momento.
 
Era fuoco, quello che vedeva bruciare case e uccidere persone?
 
Oh sì, si disse, mentre il sorriso si ampliava ancor di più, è fuoco allo stato puro.
 
Tornò a guardare Hashirama, ormai l’adrenalina in circolazione era arrivata a livelli incalcolabili.
 
« Lascia che ti spieghi come sta la situazione. » ripeté, il tono affabile che cozzava con ogni suo gesto.
 
« Ieri avete ucciso mio fratello. » disse, uno sguardo infuocato raggiunse Tobirama che però, senza scomporsi, resse lo sguardo, quasi più fiero di prima.
 
« Ieri avete ucciso ogni mia speranza di vita. » si avvicinò ad Hashirama mentre il fratello, sempre più guardingo e attento ai movimenti ,– probabilmente aveva notato la mano che era andata a sfoderare di poco la katana, facendo intravedere alla fioca luce dell’alba quel luccichio sinistro di morte e cattiva sventura – aveva già assunto posizione di difesa.
 
« Hashirama, sta attento! » gli aveva urlato, intimandogli prudenza, ma l’uomo era rimasto immobile, fiducioso sul fatto che probabilmente Madara non lo avrebbe colpito in quel modo, non lo avrebbe colpito senza prima aver combattuto strenuamente per veder dimostrata la propria superiorità.
 
Sorrise ancor di più, Madara.
 
« E infine, » aggiunse, ormai ad un palmo di naso dall’altro « avete ucciso le vostre speranze di vita. » sussurrò, poggiando una mano sulla spalla del rivale e avvicinandoselo, riuscendo così a parlargli all’orecchio, a bassa voce. Sorrise, sfiorando con lo zigomo il lobo di Hashirama.
 
« Mi riprenderò ogni speranza che mi è stata strappata, Hahirama. » disse eccitato, ormai in preda alla collera e a vere e proprie convulsioni « mi riprenderò ciò che è mio, e lo farò rubandovi ogni cosa che vi è rimasta. Vi ruberò i bambini, vi ruberò le madri. Vi ruberò i padri, » la stretta della mano sulla spalla si fece aggressiva  « Vi ruberò i fratelli. »
 
Madara Uchiha rise sguaiatamente dopo la sua ultima affermazione, allontanandosi da Hashirama. Arrivò a tenersi la pancia con le mani quando, sopraffatto dalle troppe risa, non riuscì quasi più a respirare. Poi pian piano si diede un contegno, lasciandosi scappare di bocca solo qualche risatina sommessa.
 
« E il primo, » riprese a parlare. Alzò un braccio in direzione di Hashirama per poi spostare l’indice sulla persona proprio al suo fianco. Tobirama sussultò.
 
« Il primo a morire sarà proprio il tuo. »
 
« Bastardo! » gridò Tobirama, i denti quasi digrignati come un cane inferocito. « Sei un pazzo, Madara! »
 
Il capo degli Uchiha riprese a ridere in modo incontrollato, non curandosi degli sguardi disgustati e spaventati dei suoi avversari né tantomeno di quelli leggermente increduli dei membri del suo stesso clan.
 
« Oh sì! » urlò, allargando le braccia e mostrando fieramente a tutti il petto dentro al quale scorreva veleno. « Sì, venite qui! Restituitemi le vostre speranze! Restituitemele! »
 
Madara sguainò la katana, eccitato dallo scatto in avanti che Tobirama, in preda alla rabbia, aveva fatto nella sua direzione.
 
Oh sì, ripeté dentro la sua testa, fuoco allo stato puro.
 
 

E una fretta di mani sorprese a toccare le mani,
che dev'esserci un modo di vivere senza dolore


 
Era calma piatta, quel giorno, nella terra del fuoco. Non un filo di vento a scostare i capelli dal collo per far riprendere aria alle pelle, non un filo di vento a scuotere le vesti lunghe in cui molti, quel giorno, si sentivano impacciati, più abituati ad abiti da combattimento che da cerimonia. Non un filo di vento a muovere i due grandi teli posti uno vicino all’altro che davano vita ad una nuova alleanza.
 
Ma Hashirama sapeva che quel giorno, nella terra del fuoco, non c’era bisogno di vento per rinfrescarsi, né per sentirsi meglio: bastavano quelle due mani intrecciate l’una all’altra per sospirare di sollievo e per sentirlo lo stesso, quel vento invisibile, sfiorare la pelle e trascinare via ogni rimasuglio di fatica e di sudore che si erano protratte per troppo tempo.
 
Solamente la vista di quella stretta salda e fiduciosa che non preannunciava tradimento, faceva sì che tutti gli animi di tutte le persone presenti si alleggerissero fino quasi a sollevarsi in cielo.
 
Hashirama sorrise raggiante a Madara che, davanti a lui, aveva portato una mano sul fianco, incastrando il pollice sulla cintura e lasciando penzolare le altre dita, tipico gesto da Uchiha.
 
« Allora è fatta. » gli disse, mentre il capo del clan Uchiha si guardava attorno, come per accertarsi che fosse tutto vero. E la sua grande famiglia era lì, difatti, vestita di abiti scuri ma con volti illuminati di luce, proprio a due passi dai Senju. Entrambe le famiglie schierate a semicerchio, le estremità dei quali si sfioravano e, nonostante quel passato sanguinario così difficile da dimenticare, non collassavano.
 
E i semicerchi col passare dei minuti sembrarono diventare un unico grande cerchio con in mezzo loro, i due che avevano reso possibile tutto quello.
 
« E’ fatta. » rispose Madara, tornando a guardare il suo nuovo alleato con occhi di un nero stravagante e inesperto, come non abituato a quelle viste mozzafiato di cooperazione e amicizia.
 
« Ce l’abbiamo fatta! » urlò Hashirama, sciogliendo la stretta di mano e circondando le spalle di Madara in un abbraccio improvviso e – lo sapevano entrambi – atteso per un’intera vita. Madara si guardò intorno con imbarazzo, le mani che, premute ripetutamente sull’addome del Senju, cercavano disperatamente di scrollarselo di dosso.
 
« Cosa diavolo fai Hashirama? Questa è una cerimonia ufficiale! » sussurrò, inarcando la schiena per allontanare il volto da quello troppo esuberante dell’amico. Si guardò intorno nel tentativo di cercare aiuto, ma incontrò solo una lunga serie di sguardi sconcertati che non facevano altro che chiedersi se quella fosse stata una scena organizzata apposta per ridicolizzare la loro alleanza e che lasciava intendere che tutto era una burla, che non c’era nessun trattato di pace, che non c’era nessun villaggio da costruire.
 
Madara, adocchiando lo sguardo estremamente curioso di uno dei suoi sottoposti, si limitò a fargli un cenno con la testa per salutarlo, sperando che l’altro intendesse quel suo gesto come la conferma della sua totale estraneità a quella scena a dir poco patetica.
 
Eppure Madara Uchiha sorrise ampliamente – e fu visibile a tutti – quando Hashirama Senju urlò a gran voce “Ma quale cerimonia ufficiale, Madara! Non senti tutto l’amore che si espande intorno a noi? Non lo senti?”
 
Riuscì comunque a scrollarselo di dosso, senza però scoraggiare troppo Hashirama. Il suo sorriso infatti continuava a contagiare tutti, lui compreso. Diede un’occhiata al vestiario tipico dei Senju, storcendo il naso.
 
« Continui a non avere un minimo di buon gusto, Hashirama. Questi pantaloni a righe ti fanno sembrare un albero. »
 
Hashirama dischiuse la bocca, stupito, per poi rannicchiarsi su se stesso, le ginocchia come sempre portate al petto e le braccia incrociate dentro cui rifugiarsi a piagnucolare.
 
« Perché devi dirmi questo, Madara? Credevo che fossimo amici...»
 
Madara sospirò. Quella farsa di cerimonia si era protratta troppo a lungo, e anche lui non vedeva l’ora di mettere fine a quell’estenuante protrarsi di formalità che gli aveva fatto venire il latte alle ginocchia. Si chinò un poco sull’altro, poggiandogli una mano sulla spalla. Hashirama alzò lo sguardo.
 
« Almeno hai avuto la decenza di farti crescere i capelli. » gli disse.
 
 

Una corsa degli occhi negli occhi a scoprire che invece
è soltanto un riposo del vento, un odiare a metà

 
« Giurerei che sei sorpreso. » disse divertito. Il volto di Hashirama, illuminato dalla fioca luce del sotterraneo della residenza Uchiha, lasciava in effetti intravedere barlumi di stupore.
 
« Non ti sforzare a leggerlo, » gli disse notando il capo dei Senju cercare di decifrare la pietra sulla quale erano incisi tutti i maggiori segreti del clan Uchiha « non  ci riusciresti. »
 
« Che cosa è? » gli chiese incuriosito Hashirama, il copricapo da Hokage a mascherargli ulteriormente il volto e a renderlo ancor più perplesso davanti a quell’ambiguità, e avrebbe potuto giurare di sentirsi a disagio in quel luogo, in quel sotterraneo tetro ma stranamente ben tenuto – la maniacale pulizia e accuratezza di ogni dettaglio lasciava credere che quel posto fosse quasi un luogo di culto, e quella pietra incisa una reliquia venerata .
 
« Quella pietra, » si avvicinò all’eredità del clan Uchiha e vi posò una mano sopra, godendo della frescura che attanagliò la sua mano. « è tutto ciò che sono. » concluse, lasciando ricadere la mano lungo il fianco e appendendo l’altra alla cintura, come sempre.
 
« E’ tutto ciò che sei? »
 
Madara mosse qualche passo fino ad affiancarsi all’altro, rimanendo con lo sguardo fisso sulla grande pietra.
 
« Tu sei molte cose, Madara. » continuò Hashirama senza permettere all’altro di chiarire le sue stesse parole, ambigue come quella situazione.
 
« Sei mio amico, ad esempio. »
 
Madara sorrise di gusto, ma non per compiacersi del complimento. Non per compiacersi dell’affetto incondizionato di quel fratello acquisito, ma per quell’ingenuità Senju che nonostante i segnali palesi di squilibrio, nonostante l’evidente tensione che quella stanza voleva trasmettere, Hashirama non riusciva ad abbandonare.
 
« Hmpf. » soffiò, portando anche l’altra mano alla vita incastrando anche questa nella cintura.
 
Guardò Hashirama dritto negli occhi, con aria di sfida.
 
Lo vedi, ora? Avrebbe voluto chiedergli. Non il villaggio, non la pace, non la prosperità. Ma il cambiamento. Lo vedi il cambiamento?
 
« Non lo vedi? » gli chiese.
 
« Cosa, Madara? Cosa devo vedere? Non capisco. »
 
L’Uchiha rise un poco, poggiando una mano sulla spalla dell’altro distraendolo dalla contemplazione della pietra e invitandolo a guardarlo negli occhi. Occhi che divennero di uno scuro intenso e di un buio infinito. Se fosse stato un pozzo, pensò Hashirama, ci si sarebbe potuto gettare dentro senza mai toccare il fondo. Poggiò una mano sulla spalla di Madara anche lui, per contraccambiare il gesto.
 
« Questa cosa non sta funzionando. »
La voce di Madara tremendamente glaciale lo incupì, e bastò uno sguardo veloce alle mura che lo circondavano per convincersi ancor di più che quel posto non faceva per lui.
 
« Quale cosa? Non starai parlando mica- »
 
Hashirama guardò attentamente gli occhi di Madara Uchiha. Erano neri, e in quegli anni si era convinto che finché i suoi occhi rimanevano neri, non c’era niente da temere. Che finché l’odio rosso degli Uchiha fosse rimasto sepolto sotto iridi scure niente sarebbe potuto andare storto, che il vero pericoloso cambiamento era quello di quegli occhi.
 
« Ma sono scuri...» disse Hashirama in un sussurro, non sapendosi spiegare la situazione. Madara sorrise fino a far sbiancare le labbra sentendo quella confusa ammissione.
 
« Sì, sono scuri. » rispose sarcastico, sapendo bene a cosa si stesse riferendo l’altro.
« Sono scuri, Hashirama, ma non lo saranno per molto. Questa cosa non sta funzionando, presto il mio clan si ritroverà di nuovo in guerra. Con voi. »
 
« Non li starai convincendo ad attaccare il villaggio?! » gli chiese allibito, anche se le mani di entrambi continuavano a rimanere saldamente sulla spalla dell’altro, in un gesto di amicizia.
 
« No, certo che no. Ma ho chiesto loro di abbandonarlo. » ammise.
 
« Nessuno di loro mi ha dato retta. Vedi, la tua...volontà del fuoco ha attecchito molto, tra i miei uomini. Sei stato molto convincente, devo dire. »
 
Hashirama scosse la testa.
 
« Ma presto anche loro si ritroveranno nella mia situazione. Anche loro capiranno cosa significa questa pietra, e riscopriranno loro stessi. Quando arriverà quel giorno, niente riuscirà ad impedire il disastro. »
 
L’Hokage barcollò, ma la mano di Madara lo tenne ben fermo, saldo. I piedi piantati per terra.
 
« Cosa scopriranno? »
 
Madara si allontanò di qualche passo, avviandosi ancor prima dell’ospite in casa Uchiha verso l’uscita. La luce, in quell’angolo di stanza, verso le scale, era ancora più fioca. Quando l’uomo si voltò però, i fuochi perennemente accesi al fianco della pietra tornarono ad illuminargli il volto, trasfigurato da un’insana gioia, stupefatto da una malata epifania e da una rivelazione che Hashirama si augurava essere sbagliata.
 
Gli occhi erano rossi, quella volta.
 
« La cooperazione non è altro che una tacita lotta. » sussurrò. Hashirama sembrava stazionario nel suo essere incredulo e sperduto.
 
« E tutto ciò che siamo...» tornò a dargli le spalle, avviandosi per le scale. Salì il primo gradino prima di voltarsi di nuovo. La luce sempre più debole da quella distanza riuscì a malapena ad illuminargli il volto, quella volta.
 
« E tutto ciò che sono...è Uchiha. »
 
Hashirama gli si avvicinò, sentendo poi a metà strada tra la pietra e il suo amico un qualcosa bloccarlo. Qualcosa di vagamente simile al panico e alla paura, simile alla voglia di correre via dagli occhi rossi di un amico appena divenuto rivale, di nuovo.
 
Capì che non ci sarebbero state più mani sulle spalle.
 
« E non posso essere altro. »
 
 

E alla parte che manca si dedica l'autorità


 
Prese una matita e cominciò a buttar giù qualche appunto.
Se durante tutti quegli anni i discorsi accorati erano stati il suo punto forte, da qualche mese a quella parte si erano rivelati essere più ostici che in passato, risultando tremendamente falsi e, delle volte, quasi scontati.
Mito, leggendoli prima di andare a dormire, continuava a dirgli che le sue erano solo paranoie, che quelle parole disordinate scritte a matita su pergamena sembravano essere state create solo per essere messe lì, in quel discorso, per essere pronunciate in quell’ordine preciso dalla sua voce squillante e consolatoria e che, come qualsiasi altro suo discorso, sarebbero state ispiratrici e pacificatrici, proprio come lo era lui.
 
Eppure Hashirama non riusciva a capire come sua moglie riuscisse a vedere tutta quella perfezione tra quelle righe, come riuscisse a sentirsi coinvolta da quei moniti dolci e da quegli incoraggiamenti instancabili.
 
Perché a lui, matita alla mano che rileggeva attentamente ogni sillaba, sembravano bugie.
 
Uno per far stare bene dovrebbe sentirsi bene, si disse, posando il lapis sulla scrivania del suo ufficio. Gettò la testa all’indietro per guardare il soffitto bianco. Lui non stava bene, era diviso.
 
Sentì bussare alla porta.
 
« Fratello? » chiese Tobirama senza nemmeno attendere risposta, entrando velocemente nell’ufficio e richiudendosi la porta alle spalle. Aveva in mano una pila non indifferente di fogli.
 
« Se avessi saputo di tutto questa burocrazia, avrei suggerito te come Hokage. » borbottò Hashirama facendo spazio sulla scrivania alla causa dell’ennesimo pomeriggio rinchiuso nel palazzo dell’Hokage.
 
La primavera non sembrava per lui, quell’anno.
 
« Inderogabili. » puntualizzò Tobirama, preoccupato dalla faccia spiccatamente annoiata e pronta alla deroga di suo fratello.
 
« Aaaah, non ne posso più! » brontolò, incrociando le braccia al petto,rifiutandosi di portare oltre quella tortura. Tobirama, di fronte a lui, poggiò le mani sulla scrivania, guardando il fratello con ovvietà.
 
« Rassegnati. » gli disse, porgendogli una penna e anche il primo fascicolo della giornata, a cui sarebbero seguiti tanti altri. Hashirama spostò di lato il foglio con appena accennato il discorso che avrebbe voluto tenere, ma gli occhi di Tobirama non si lasciarono sfuggire nulla.
 
« Stai scrivendo qualcosa? » chiese incuriosito, prendendo la pergamena prima che Hashirama potesse riporla nel cassetto. Diede un’occhiata veloce alle poche parole scritte rivolgendosi poi di nuovo al fratello.
 
« Sembra un discorso. Non sono previsti eventi importanti a breve, o sbaglio? » disse restituendo il foglio ad Hashirama che lo guardò sconsolato.
 
« Sì, lo so ma...è primavera e...pensavo ce ne fosse bisogno. »
 
Tobirama annuì silenzioso, senza replicare, evitando di far notare all’altro che non era mai stato necessario un discorso per ogni cambio stagione, e consapevole che l’unico a cui sarebbe servito un discorso incoraggiante era lo stesso Hashirama. 
 
« Fratello, stavo pensando che...» tentò Tobirama, andando alle spalle del fratello e chinandosi per controllare che il lavoro venisse svolto con efficienza.
 
« Sì? »
 
« Stavo pensando che potremmo istituire un...corpo di polizia. »
 
Hashirama si voltò a osservarlo, mentre Tobirama evitò il suo sguardo concentrandosi sul fascicolo che il fratello stava compilando, fingendo interesse. Fingendo che ciò che aveva detto fosse una semplice supposizione, un’ipotesi, un’idea lontanissima, e non un obiettivo che gli ronzava in testa sin dalla nascita del villaggio.
 
« Perché dovrei? » rispose Hashirama, sottolineando con una particolare intonazione la prima persona singolare del verbo che era andata a sostituire la prima plurale con cui si era espresso il fratello. Tobirama udì nel tono della voce quella decisione che non gli avrebbe consentito di rigirare la situazione a proprio favore, portando il fratello sulla sua stessa strada, facendogli prendere le sue decisioni.
 
Si schiarì la voce, allontanandosi con noncuranza e andandosi a sedere sull’unico spazio rimasto sgombro della scrivania. Cercò di affrontare l’argomento con leggerezza, cercando di non far capire all’altro quanto gli stesse a cuore quella decisione.
 
« Solo per maggiore sicurezza, non per altro. Del resto, non tutte le persone possono essere buone, no? » rispose ovvio, come se quella constatazione sarebbe dovuta essere chiara a tutti, vera per tutti.
 
Eppure gli occhi di Hashirama sembrarono incupirsi ancor di più. Sembrarono infiammarsi.
 
« E posso sapere a chi ti riferisci, in particolare? » chiese, posando la penna sul tavolo, concentrandosi solamente sulla conversazione.
 
« Non agli Uchiha, mi auguro. »
 
« Io intendevo-»
 
Entrambi si bloccarono, sentendo bussare alla porta. Anche il nuovo ospite non si fece troppi problemi nell’annunciare se stesso o nell’aspettare l’accordo dell’Hokage per entrare.
 
Mito infatti spalancò la porta, raggiante, senza saper affrontare però quell’atmosfera tesa che si ritrovò di fronte, e per lunghi secondi rimase sulla soglia, indecisa sul da farsi.
 
« Mito! » disse Hashirama, alzandosi dalla sedia e facendole cenno con la mano di raggiungerlo. La donna gli andò quindi incontro, facendosi avvolgere dalle braccia dell’uomo e facendosi baciare delicatamente in fronte.
 
«Tobirama, devo chiederti un favore. » disse l’Hokage, riaccomodandosi sulla propria sedia e facendo sedere Mito sulle proprie gambe.
 
« Dimmi pure, fratello. »
 
« Vorrei che comunicassi a tutti che il prossimo sabato si organizzerà una festa, per l’inizio della primavera. » Mito, sulle sue ginocchia, sorrise ampliamente, entusiasta.
 
Tobirama non parlò, limitandosi a guardare suo fratello.
 
« Questa, » marcò prepotentemente la parola appena pronunciata, « questa è la mia decisione. »
 
Fece un cenno di saluto con il capo sia ad Hashirama che a sua moglie, avviandosi verso la porta.
 
« Come vuoi tu, fratello. »
 

Che la disamistade si oppone alla nostra sventura,
questa corsa del tempo a sparigliare destini e fortuna



 
« Hokage-sama! Hokage-sama! » sentì urlare furiosamente poco lontano da lui. Si voltò per incontrare gli occhi fuori dalle orbite di una suo sottoposto che, accompagnando i movimenti con gesti convulsi delle braccia, correva nella sua direzione. Gli andò incontro risparmiandogli così qualche metro di strada.
 
« Hokage-sama, è successo...sta succedendo! » biascicò confusamente, senza riuscire nemmeno a dire con chiarezza cosa fosse effettivamente accaduto. Hashirama, con il volto perplesso ma con un sinistro presentimento in corpo, poggiò una mano sulla spalla dell’uomo che gli stava di fronte, piegato in due per la corsa e con il fiatone.
 
« Calma, ragazzo, riprendi fiato. Cos’è successo esattamente? »
 
Gli occhi dell’uomo si dilatarono a tal punto che Hashirama riuscì ad intravedere anche troppo chiaramente le sottili venature rosse che rompevano il bianco.
 
« Non c’è tempo, Hokage-sama! Non ce n'è più! Quell’uomo è un pazzo, un pazzo! È tornato, come temevano tutti Hokage-sama! E con lui c’è, con lui c’è...»
 
Hashirama seguì attentamente il farfuglio di parole sperando di arrivare presto ad una conclusione, ma quando si trattò di dire la parola più importante di tutte, il ragazzo cominciò a tremare di paura e cadde in ginocchio, in lacrime. Le mani si muovevano convulsamente.
 
« Cosa c’è con lui? » chiese frettoloso.
 
L’uomo davanti a lui si fece di nuovo forza sulle gambe e si alzò ritto in piedi, e fu il suo turno di poggiare le mani sulle spalle di Hashirama, come se credesse che la notizia che stava per rivelargli  avrebbe avuto in impatto così grande che avrebbe avuto bisogno di sostegno per non crollare a terra.
 
« C’è la Volpe, Hokage-sama! Quel pazzo di Madara ha con se il mostro della volpe a nove code! » gridò l’uomo, riaccasciandosi sulla strada, frastornato e terrorizzato dalle sue stesse parole.
 
Hashirama sentì i muscoli irrigidirsi, mentre anche le proprie mani iniziarono ad essere scosse da tic che, in un momento di lucidità, avrebbe semplicemente chiamato tremori.
 
E come non aver paura, davanti ad una minaccia del genere? Come non provare sconforto davanti a tanto male? Come non sentirsi sopraffatti dal ricordo nostalgico di un amico divenuto semplicemente un pazzo fanatico?
 
Corse verso il palazzo dell’Hokage per portare con se il necessario per combattere. Salì di corsa ogni scalino e spalancò ogni porta che si trovava sulla sua strada con noncuranza, facendole sbattere contro i muri e facendo cadere parti di intonaco e calcinacci. Abbandonò la divisa di Hokage e si ritrovò ad indossare l’ormai consunta protezione tipica del clan Senju, ritrovandosi a vagare in ricordi che sperava sarebbero rimasti tali, e che invece avevano deciso di ripresentarsi ancora più crudeli di prima, ancora più pericolosi. Prese il grande rotolo contenente tutte le sue tecniche e se lo mise in spalla.
 
Scese nuovamente di corsa tutte le scale e con un balzò saltò sui tetti delle case fino a raggiungere la porta d’entrata del villaggio. Gli uomini di guardia erano terrorizzati, ma alla sua vista sembrarono riacquisire un minimo di calma e raziocinio.
 
Non fu necessario chiedere loro informazioni su dove fosse Madara e su come raggiungerlo, né precise coordinate o luoghi d’avvistamento, perché nonostante la sua vista non degna di un Uchiha e la sua incapacità di percepire i chakra, anche lui riusciva a vederlo, riusciva a percepire il sangue maledetto di Madara ribollire come se stesse correndo per le proprie vene, e quei boati all’orizzonte, quel fumo che si alzava impetuoso non lasciavano dubbi.
 
« Fate rientrare donne e bambini, organizzate un sistema di difesa, richiamate dalle missioni meno importanti tutti gli shinobi che potete. Madara non sembra avere nessun esercito, deve aver agito da solo, ma in caso io fallisca...»
 
Gli uomini al suo fianco sussultarono. Tutti sapevano che se avesse fallito lui, nemmeno tutti gli shinobi della terra del fuoco sarebbero riusciti ad eguagliare anche la più insulsa delle sue azioni, e il contrattacco sarebbe fallito miseramente.
 
« In caso fallisca, dovrete essere pronti a combattere. »
 
« Come desidera, Hokage-sama. »
 
Hashirama non lo desiderava, in realtà. Da quando Madara se ne era andato, paralizzato da quel suo nuovo sogno di cui non aveva voluto metterlo al corrente, sapeva che si trattava di questione di tempo. Cosa si sarebbe potuto aspettare, del resto? Isolamento, una vita eremitica, la rinuncia all’orgoglio di un clan che sembrava non possedere altro, da parte di un uomo come Madara?
 
L’attacco era sempre stato in cima alla lista delle aspettative, ma quello. Quella volpe lasciava intendere che non si trattava di un fatto personale, di una rivincita da prendersi contro di lui né di un capriccio: Madara aveva in mente qualcosa che andava ben oltre la sua immaginazione.
 
« Se avessimo fatto scelte diverse, Madara. » disse, consapevole che i metri che li separavano erano talmente tanti che non sarebbe riuscito a raggiungere il suo vecchio amico con quella mezza riflessione.
 
« Se fossimo riusciti a mettere davvero da parte questa faida...» sussurrò.
 
Ma non c’era fine a quel vortice di odio, non c’era fine a quell’inimicizia. Il loro destino sembrava essere incontrovertibile, e sembrava essere stato segnato sin dal loro primo incontro, da quella che sembrava un’innocente rivalità nel tirare sassi che era degenerata in un attacco ad un villaggio quasi disarmato con la Volpe a nove code.
 
Hashirama si chiese se fosse davvero possibile cambiare le carte in tavola e modificare il destino, ma l’unico pensiero che attraversò la sua mente fu solo inimicizia, una cosa più grande di loro.
 

Che ci fanno queste anime davanti alla chiesa,
questa gente divisa, questa storia sospesa?

 
 
« Incredibile, non trovi? » chiese poggiando le mani sui fianchi e arrendendosi alla testardaggine del suo avversario che gli aveva sbarrato la strada. Scosse la testa, quasi divertito dallo sguardo che era sembrato tornare vivo di Madara.
 
« Pensavo che una volta morti, tutto questo sarebbe finito. Che l’inimicizia non ci avrebbe seguito anche nella tomba, e invece...»
 
« Non occorre nessuna parola, Hashirama. Non è una rimpatriata, questa. »
 
Hashirama annuì, approvando le parole dell’altro. Intorno a loro infatti vi erano esplosioni ovunque, e sempre più problemi: uno di quelli da non sottovalutare ad esempio era quel jinchuuriki appena venutosi a creare.
 
« No, non è una rimpatriata. Noi siamo divisi, del resto. » confermò.
 
Concentrò nello sguardo tutta la determinazione di cui era capace, e accettò quella scomoda verità che aveva cercato di fuggire per tutta la vita.
 
« Questa è inimicizia. »
  
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