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Autore: charliesstrawberry    08/08/2013    15 recensioni
«Quali sono le tue certezze, Lena?».
Stringo i denti e socchiudo di poco le labbra, mentre una leggera brezza notturna mi sferza il viso e mi fa rabbrividire nella mia felpa gigantesca. Lo guardo più del solito, con i suoi occhi curiosi che brillano, con le sue mani intrecciate sul suo addome come se stesse per addormentarsi sulle mie gambe, con il suo respiro pesante che sa di alcool e di marijuana. Quali sono le tue certezze?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore all'inizio non capisco neanche cos'è. Ci vuole tempo.
- C. Bukowski


«Quindi è successo ancora?».
Lo sguardo del dottor Wilson è irritante. Mi fissa con aria di sufficienza dietro i suoi occhialetti da vista e fa ondeggiare la biro sul taccuino che ha di fronte, come a soppesare le parole da scrivere. I suoi occhi viaggiano dal foglio bianco a me, e vice versa: sta attendendo una risposta.
Non mi è mai piaciuto, Wilson: è il tipico psicologo freddo e distaccato che non fa troppo caso ai pazienti che ha di fronte, che, con le sue rapide e ripetute occhiate verso l'orologio a pendolo in ciliegio dall'altra parte della camera, ha tutta l'aria di star aspettando con impazienza l'ora di cena. Non credo che gli importi
davvero di me. La cosa tuttavia non mi ferisce, perché in fin dei conti so che è così che deve essere.
Quella di farmi psicoanalizzare da uno sconosciuto freddo e antipatico, però, non è stata una mia idea: mamma mi ha costretto a venire qui, perché dicono tutti che sia il migliore nel suo campo. Io non sono dello stesso avviso. Wilson è scorbutico, scontroso e per niente gentile, per non parlare del fatto che non possiede mai neanche una piccola parola d'incoraggiamento per i suoi pazienti; nessun dubbio, quindi, se sono sei mesi che passo il venerdì pomeriggio su questa poltrona fin troppo comoda a parlare e a vuoto per ore, ma non cambia nulla.
Sospiro, torturandomi l'orlo della camicetta. «Sì» rispondo semplicemente, il viso basso sulle mie ginocchia. È successo ancora. Sento lo sguardo di rimprovero del mio psicologo che mi penetra da parte a parte, e mi vergogno. Mi vergogno perché so cosa seguirà a questa confessione; mi vergogno perché non sono stata forte abbastanza neanche questa volta, perché ho fatto sì che ricapitasse di nuovo. Mi vergogno perché sono una debole.
«Quando?» domanda accarezzandosi la barba scura con la sua solita aria professionale. Mi chiedo perché non la smetta di fare il dottore gentile e disponibile e non passi direttamente alla parte in cui mi insulta e mi commisera perché sono senza speranza; e ancora una volta mi dirà che non ha senso che perda tempo con me, che non cambierò mai, che sono solo una ragazzina capricciosa. E io gli crederò.
«Ieri, con Kim» sbuffo incrociando le braccia al petto, come a volermi proteggere. Detesto parlare di quest'argomento con lui; lui lo sa e mi guarda divertito, beandosi del mio imbarazzo. Wilson è anche estremamente inopportuno.
Sembra annuire, comprensivo. In realtà sta analizzando le mie parole una ad una, come a cercare la chiave per capire il casino dentro la mia testa. A volte mi diverto a vederlo analizzare i miei pensieri tratto per tratto, come se stesse cercando di sciogliere un grosso groviglio di fili di lana colorati: prova con una strada, poi inciampa, torna indietro ed imbocca un'altra possibilità. È divertente fino a quando non trova il metodo giusto e mi scopre: a quel punto mi sento nuda e impotente. Smascherata.
«E come ti sei sentita?».
«Confusa» ammetto sinceramente. Il suo sguardo però mi intima a continuare, anche se a dir la verità non saprei cosa dirgli: non è che ci sia qualcosa di nuovo, al contrario, è sempre la stessa solfa. «Mi fischiavano le orecchie, e mi sentivo come da un'altra parte. Kim fortunatamente ha capito e mi ha fatta sedere, anche se continuavo a sbraitarle contro e a dirle di andare via».
Wilson apre leggermente la bocca e sospira, visibilmente deluso. Lo vedo lanciare un'altra occhiata verso l'orologio a pendolo e capisco di aver perso la sua attenzione. «Niente di nuovo» mormora poi annoiato mentre scribacchia qualcosa sul suo prendiappunti.
«Lei mi fa sempre le stesse domande, io rispondo allo stesso modo» dico seccata. Detesto quando fa così: quando mi psicoanalizza per un po' e poi mi tratta come un topino da cavia, scrivendo qualche appunto disordinato su di me con quell'aria di disappunto. «Cos'altro si aspetta?».
«Un miglioramento, forse?» replica lui con tono ovvio e scorbutico.
«Forse, se smettesse di trattarmi come una macchina e si decidesse a dirmi cosa diavolo devo fare, allora magari vedrebbe il miglioramento a cui tanto aspira».
L'uomo di fronte a me inarca un sopracciglio, improvvisamente interessato alla nostra conversazione. Posa il taccuino e la penna sul tavolino accanto alla sua poltrona e incrocia le dita, lanciandomi uno sguardo incuriosito: non sembra toccato dalle mie parole, piuttosto è... sorpreso, come se stesse guardando un film noioso e si fosse ritrovato di fronte ad un improvviso colpo di scena. «Ma io ti ho detto più volte ciò che devi fare, carissima. E avremmo già risolto il tuo problema se mi avessi ascoltato, questo lo sappiamo entrambi. Ma sei sempre la solita ragazzina caparbia e strafottente e sto rapidamente sviluppando l'idea che tu non voglia migliorare».
«La smetta!» sento la mia voce replicare immediatamente, in un tono che è ben lontano dal suo, sempre calmo e pacato. Ho i denti serrati e sento gli occhi pizzicare per quello che ha detto, ma so bene che non scoppierò in lacrime proprio davanti a lui... mi sento già troppo debole così. «È lei lo psicologo o sbaglio? Non riversi la colpa su di me! Vengo qui da mesi ormai e la situazione è sempre la stessa. Sempre. La. Stessa. Fottuta. Situazione» scandisco chiaramente, le unghia conficcate nel palmo delle mie mani, che al momento sono serrate in due pugni. «Dovrebbe essere lei a muoversi, lei dovrebbe aiutarmi, guarirmi... faccia qualcosa, cazzo! Sono stufa di vederla starsene seduto lì ad accarezzarsi la barba come se nulla fosse. E faccia almeno finta che le interessi di me. So di essere senza speranza, ma fino a prova contraria sono anche una sua paziente, e quindi la colpa è tutta sua».
Wilson a questo punto resta a fissarmi per un po', mentre ansimo: ho quasi gridato. Immagino di avergli appena detto cose davvero poco carine da sentire, eppure lui non sembra infastidito: al contrario, sorride e mi guarda rilassato.
«Ti senti meglio, adesso?» domanda e studia i miei atteggiamenti appoggiando un gomito alla sua poltrona di pelle rossa, mentre io nella mia mi faccio sempre più piccola, domandandomi dove diavolo ho preso il coraggio per urlargli in faccia quelle cose. Forse ho sognato tutto.
«Credo di sì» borbotto a stento, evitando il suo sguardo. No, è decisamente tutto vero.
Mi chiamo Helena Hawkins – Lena, per gli amici ed il dottor Wilson – e soffro di un disturbo della memoria chiamato amnesia lacunare. Da un anno a questa parte, tendo a dimenticare fatti o eventi per qualche minuto o addirittura ore; talvolta, nei momenti di forte stress, mi capita anche di dimenticare le persone. È cominciato tutto l'anno scorso, durante il nostro viaggio in Irlanda. Da quel momento la mia vita ha imboccato strade inesplorate, trascinandomi in luoghi spaventosi e sconosciuti. Da quel momento sono stata risucchiata nell'oblio più totale, e francamente credo che questa sia la metafora perfetta per descrivere la mia condizione.
Ieri ho dimenticato la mia migliore amica. Stavamo discutendo tranquillamente del più e del meno, quando ad un tratto l'ho guardata con sguardo vitreo e perso, e le ho detto qualcosa come: «Chi diavolo sei tu?». Vorrei poter dire che no, non c'è nulla di cui preoccuparsi perché non è una cosa che capita spesso e che tutto è sotto controllo, ma non è così. Va sempre peggio.
E, sebbene dimenticare non sia un atto volontario, Wilson si ostina a credere che in tutta questa faccenda io metta del mio: come se potessi dimenticare di proposito, insomma. E per quanto questo suo ragionamento non segua alcuna logica, lui ne è fermamente convinto: ecco il perché dei suoi continui rimproveri e dei “sei senza speranza” che mi rivolge con tono amareggiato; perché per lui è tutto un fatto di forza di volontà: come se per me dimenticare fosse un'invitante tentazione alla quale non so resistere.
Io credo che, fondamentalmente, Wilson sia pazzo. E credo che tratti i suoi pazienti più come delle sfide personali che come persone vere e proprie: lo capisco dal modo in cui mi guarda, quando parla con me è un po' come se tentasse di risolvere un cruciverba. E se capisce qualcosa in più, anche un piccolo dettaglio per me inutile o insignificante, lui è contento perché è una soddisfazione personale.
Devo essere proprio una bella gatta da pelare. Non solo ho un gran casino in testa, ma sono pure lunatica. Per un momento provo pena per il pover signor Wilson, che deve vedersela con me tutti i santi venerdì pomeriggio.
Eppure lui accenna ad una risata serena, proprio come se io fossi una di quelle barzellette divertenti che si raccontano davanti ad un caffè, magari da seduti in poltrone belle e comode come queste. Forse lo sono, in realtà. Forse la mia vita non è altro che una semplice barzelletta da quattro soldi, una di quelle per cui la gente deve sforzarsi di ridere perché fa troppa pena.
«Forse per oggi può bastare, Lena» annuncia. Stringo le labbra nell'ombra di un sorriso. Non vedo l'ora di tornare a casa; le sedute con Wilson sono sempre stressanti e, chissà perché, la gran parte delle volte, dopo aver parlato con lui mi ritrovo con le idee più confuse di prima – eppure da qualche parte ho letto che lo scopo degli psicologi è un altro.
Gli rivolgo un breve sorriso e mi alzo, recupero la mia borsa azzurra e finalmente mi dirigo verso la porta.
«Oh, Lena».
Mi blocco sull'uscio e mi volto, per vedere Wilson ancora comodamente seduto nella sua poltrona in pelle rossa.
«Sì?» domando impaziente. In questo momento bramo il mio letto più di qualsiasi altra cosa, più di quanto Wilson possa bramare l'ora di cena durante le numerose sedute che condivide con i suoi noiosissimi pazienti – o forse si annoia solo con me?
«Avrei una proposta da farti». Lo vedo esitare, mentre attendo che vada avanti. «Ho alcuni pazienti come te. Sai... ragazzi della tua età. E personalmente credo che la terapia di gruppo in questi casi sia efficentissima; e poi, chissà, potresti farti dei nuovi amici, che ti capiscono tra l'altro». L'uomo attende qualche istante prima di continuare. «Cominciamo martedì. Ovviamente sei invitata».
Stringo le labbra in una smorfia. Altri ragazzi come me? A fare terapia... insieme? Questa cosa fa tanto psicopatici incalliti; sollevo un angolo delle labbra a questo pensiero, quasi divertita.
Neanche tra un milione di anni.
«Ci penserò» dico invece.


La scuola è inutile.
Varco il corridoio della St. George Comprehensive School e questo è il primo pensiero che mi attraversa la mente. E non sono una di quelle deficienti che passano la propria esistenza a farsi le unghie durante le lezioni mentre chiacchierano, e vanno declamando quanto la scuola sia stupida, perché “tutto quello che si è fa è noioso”. Anzi, ero addirittura una secchiona fino all'anno scorso, prima dell'Irlanda. Adesso mi è un po' impossibile mantenere i voti di prima, considerato che ai test per me è già una gatta da pelare rispondere alla voce “Nome” senza dover effettuare sforzi considerevoli – okay, forse sto esagerando. Di certo conosco il mio nome, ma le difficoltà che incontro nel cercare di ricordare nozioni scolastiche varie in condizioni di stress sono davvero esorbitanti. Ciò nonostante Wilson si ostina a dire che non ho alcun bisogno di un insegnante di sostegno – vallo a capire.
Comunque, quello che voglio dire è: la scuola è inutile. Che si intenda la scuola come struttura di apprendimento, ovviamente. L'apprendimento, di per sé, è importante. Importantissimo. Ma non si potrebbe semplicemente imparare le cose a casa e poi fare un esame, così, senza essere per forza obbligati a frequentare giorno per giorno quest'orribile tortura?
È che mi sembra tutto un grande bluff. Tutto: i compiti di algebra, il polpettone di plastica che servono alla mensa, la divisa scolastica con quelle gonne a quadrettoni blu scozzesi, la campanella del corridoio del secondo piano che è rotta e suona ad intermittenza e che nessuno vuole riparare. La gente che ti squadra da capo a piedi con quell'occhiata di sufficienza, come se fossi l'ultimo scarto umano al mondo. Quelli popolari, che il venerdì sera si ubriacano in qualche squallido pub di periferia e fanno ritorno a casa alle quattro del mattino, dopo aver passato tutta la notte a vomitare in autostrada. Neanche gli sfigati hanno senso, quelli che invece il venerdì sera lo passano a studiare come matti perché lunedì c'è una verifica importantissima di letteratura inglese; quelli che sono abituati all'oscurità ed escono di casa solo per buttare la spazzatura o fare la spesa, ovviamente tutto ciò se non hanno compiti da fare.
Varco il corridoio della St. George Comprehensive School, e penso che tutto questo è aberrante. Penso che la scuola non abbia senso, che i professori siano tutti pazzi e che noi non siamo altro che un indistinto agglomerato di società che cresce e si autodistrugge.
Odio la scuola. Odio i compiti, i miei compagni, i professori.
E alla fine, se devo essere sincera, trovo che sia triste ricevere occhiatacce ambigue, sentire la gente che sussurra il tuo nome con tono chiaramente sarcastico alle tue spalle quando cammini, ritrovarti attaccati all'armadietto amichevoli bigliettini con su scritto “psicopatica”.
Non ho mai pensato di essere psicopatica. A volte dimentico le cose, ma per il resto posso giurare di essere a posto con la testa: nessun ritardo o disfunzione, né ho mai avuto qualche disturbo di apprendimento grave. Solo problemi a ricordare le cose. Ma chi non li ha?
La St. George Comprehensive School oggi mi sembra più affollata del solito. Cammino per i corridoi con fare insicuro, perché è questa la reazione che suscita in me questo luogo: mentre tutti gli studenti mi sfrecciano attorno, sbattono, spingono da ogni parte, sento di farmi sempre più piccola e insignificante.
La confusione crea caos anche nella mia testa. Ad un tratto mi sento strattonare per un braccio, e per poco non salto in aria. «Kim!» quasi grido, sospirando di sollievo nel vedere la mia migliore amica che mi sorride benevola.
A rigor di termini, Kim è l'unica amica che ho.
Fa passare un braccio oltre le mie spalle, e camminiamo verso l'aula di francese.
«Lena, come stai oggi?» domanda, e riesco a distinguere una nota d'apprensione nella sua voce.
Kim è anche l'unica persona, a parte i miei genitori, che si preoccupa della mia salute. Il dottor Wilson è un caso a parte, perché so che a lui non importa davvero di me – e me l'ha fatto anche notare più volte: curarmi è il suo lavoro, lo fa per soldi e per soddisfazione personale, e per questo non ce l'ho con lui. Immagino che, da parte sua, sia una cosa più che lecita.
Però è bello sapere che a qualcuno importa di te. Qualcuno al di fuori della tua famiglia: perché i tuoi parenti sono i tuoi parenti, e in un certo senso sono “obbligati” a prestarti attenzione. C'è sempre quella sorta di senso del dovere che li costringe a prendersi cura di te, oltre che a quel sentimento di profondo affetto che vi lega. Non ne dubito, è rassicurante vedere mia madre preoccuparsi per me, sentire mio padre una volta alla settimana farmi gli interrogatori al telefono «Stai bene? Le amnesie? Ne hai ancora? Quanto durano? Mangi?». Eppure diciamoci la verità: la famiglia non la scegliamo noi, gli amici sì. Quindi credo che sia un fenomeno meraviglioso quello per cui una persona estranea riesce a superare tutti i tuoi difetti e le tue debolezze, arrivando a toccarti il profondo dell'animo, e si affeziona a te: e di te le importa, ma le importa sul serio.
Kim è un'amica vera. E lo riconosco perché gli amici veri sono pochi, ma si intravedono immediatamente.
«Sto bene» scrollo le spalle, accennando un lieve sorriso alla ragazza. «Mi dispiace per ieri, sono completamente impazzita» mormoro a bassa voce, con una punta d'imbarazzo. Come ci si comporta quando ci si dimentica all'improvviso dell'esistenza di una persona?
«Ma figurati! L'importante è che adesso tu stia bene» mi sorride.
Kim l'ho conosciuta circa sei mesi fa. Lo so, si tratta di un tempo decisamente troppo breve e irrisorio per arrivare a considerare una persona “migliore amica”, ma bisogna sempre tenere in considerazione che, a parte lei, mia madre ed il dottor Wilson, io non ho altri rapporti con il mondo esterno. Chi socializzerebbe mai con una psicopatica?
Quindi, magari io non sarò una migliore amica per lei, ma ciò non toglie che lei lo è stata e lo è per me; indipendentemente dal tempo che abbiamo passato insieme.
«È che... ho avuto il test di fisica e poi quello di spagnolo. Ero molto stressata» spiego. Mi sento terribilmente a disagio di fronte a lei, adesso. Cerco di memorizzare per bene in testa i suoi capelli nero corvino, la sua pelle olivastra, i suoi denti bianchissimi, perché non voglio più dimenticarla. Forse è davvero un fatto di forza di volontà come dice Wilson. Vorrei prendere a calci il mio cervello per tutte le figure di merda che mi fa fare quotidianamente.
Kim mi sorride dolcemente. «Non devi giustificarti, Len. È tutto a posto, veramente. Adesso ti ricordi chi sono, no?». Abbozzo ad un sorriso, poi piego la testa ed annuisco, un po' in imbarazzo. «Questo è l'importante» replica lei tranquilla.
Sospiro leggermente: me ne vergogno molto, perché detesto perdere la memoria con lei più che con tutti gli altri; perché ho paura che prima o poi si stancherà di questa situazione, di me, della mia pazzia, e mi manderà a quel paese.
Deve essere stressante essere amica mia. Non so perché abbia deciso di diventarlo, in fin dei conti. È stata una scelta sua: l'anno scorso, dopo l'Irlanda, ho troncato i rapporti con tutti i miei ex “amici”; o meglio, sono stati loro ad aver troncato con me. In seguito ai primi episodi di amnesia hanno smesso di parlarmi, cominciando a dire in giro che ero diventata troppo strana per stare con loro.
Non è stato molto piacevole. Ma alla fine sono giunta alla conclusione che, di base, la verità è che alle persone non piaci mai veramente. E se poi hanno un motivo in più per denigrarti, allora quella è proprio la fine.


Note.
Credo che non riuscirò mai a smettere di inquinare questa sezione con le mie stronzate. E so che, pubblicando questa storia, risulterò ancora meno credibile di quanto non sono già in quanto a puntualità nel postare, ma non posso proprio farne a meno. Sono sommersa dalle mie fesserie.
Detto questo, il banner che sta sopra è stato fatto dalla bravissima
Harryhugsme che ringrazio tanto! Lo trovo meraviglioso (:
Spero che questo primo capitolo vi piaccia e, lo prometto già da subito, in questa fanfiction non ci saranno morti tragiche, ahaha
Un bacio xx

   
 
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