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Autore: Soe Mame    09/08/2013    3 recensioni
Si dice che, nella notte tra il 31 Ottobre e l'1 Novembre, la linea che divide il mondo dei vivi e quello degli spiriti si assottigli.
Si dice che, se metti davanti alla tua casa una zucca dall'aspetto mostruoso con dentro una candela, potrai scacciare gli spiriti maligni che vagano nell'oscurità.
Si dice che Jack O' Lantern regni nella notte di Halloween.
[99% strettamente ispirata a Sadistic Pumpkin, di Rin&Len]
Genere: Sentimentale, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kaito Shion, Len Kagamine, Rin Kagamine | Coppie: Len/Rin
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Tutti i personaggi appartengono ai rispettivi proprietari; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

. AON .



- Un'altra? -
Jack alzò lo sguardo dal boccale vuoto, rivolgendogli un'occhiata che sarebbe dovuta essere decisa ma che, ne era conscio, sembrava più quella di un pesce pescato da almeno quattro giorni.
- I soldi li ho, eh. - ribattè, facendo oscillare una moneta da sei pence tra l'indice e il medio.
- Non ne dubito. - sospirò l'oste, il boccale pulito ancora a mezz'aria: - Ma questa è già la quinta, stasera. E non voglio casini come tre giorni fa. -
- Ehi, era quell'imbecille di Fearghus a provocare! - sbottò Jack, sentendo una fitta sul lato destro della testa, la sua stessa voce che rimbombava nelle orecchie. Si portò una mano alla parte dolente, sperando di non dover vomitare l'anima dietro il primo albero disponibile.
- Quindi... - riprese il ragazzo, traendo un profondo respiro: - .. sì, voglio un'altra birra. Ne ho il diritto. -.
Per tutta risposta, l'oste alzò gli occhi al cielo, arrendendosi. Non che a Jack fosse sfuggito il fatto che non avesse mai staccato gli occhi da quei sei pence.
Quando il boccale pieno apparve sotto i suoi occhi, il ragazzo vi si gettò come se non bevesse da mesi, svuotandone metà in un sorso.
Dovette sbottonarsi la camicia, per poi tirare fuori dalla tasca dei pantaloni un laccio con cui legarsi i capelli: tra l'alcool e la ressa del locale, si sentiva bruciare sia dall'interno che dall'esterno.
Riportò lo sguardo sul boccale mezzo pieno, cercando di fare mente locale su quanto gli fosse rimasto: con i soldi nel borsellino poteva avere massimo altre tre birre; con i soldi totali nascosti nella sua dimora, avrebbe potuto mantenere uno stile di vita decente almeno fino al mese successivo.
Se poi qualcuno avesse improvvisamente avuto un impellente bisogno di un fabbro, aveva assicurate anche un po' di entrate.
E poi c'erano pure la collana della signora O' Quinn, l'anello della signora O' Malley e gli orecchini della signora O' Gallagher; era indeciso se modificarli un po' per spacciarli per un corredo unico e alzarne ulteriormente il prezzo - ma, del resto, già che doveva modificarli per renderli meno riconoscibili, tanto valeva approfittarne. Sperò che quei gingilli non tradissero le sue aspettative: era rimasto abbastanza deluso dal ricavo a dir poco misero ottenuto dalla rivendita dei tre cavalli dei Doherty.
Tra l'altro, erano già nove giorni che quei gioielli erano in suo possesso, doveva darsi una mossa a sistemarli e a sbarazzarsene - ancora piangeva quello smeraldo che aveva dovuto buttare nella palude non appena aveva intravisto le guardie avvicinarsi alla sua casa, smeraldo che aveva tenuto in casa per cinque giorni e che poi non era più riuscito a ritrovare.
"Oh, dannazione!" afferrò il manico del boccale e mandò giù un'altra sorsata, improvvisamente irritato: "C'era pure quel dannato tetto! Con tutto quello che costa ripararlo, mi ritrovo con..." sbattè il bicchiere sul bancone, imprecando per quella metà di prezioso alcool finito sul legno: "Molto meno di un mese! Già tra tre giorni ho finito tutto!". Digrignò i denti, passandosi una mano sugli occhi doloranti: "Allora, Jack, parliamone. O continui a stare qui e ti fai cadere il tetto di casa, o ripari il tetto e vivi da preticello in odore di santità." aprì due dita, riuscendo ad intravedere il muro di fronte a sé: "... a meno che non sia qualcun altro a ripagarti.".
Puntò il gomito contro il bancone, per poi voltarsi e abbracciare con lo sguardo l'intero locale; la sua attenzione fu catturata quasi subito da tre uomini in un angolo, in uno stato di semi-inconscienza non così raro da vedere, in quel posto.
"Mairtin è un idiota." rimuginò, le labbra che si curvavano appena in un sorriso: "Posso chiedergli se, gentilmente, può darmi un'occhiata al tetto, lui che è così alto e in forma, mentre io sono piccolino e malato." diede un paio di colpi di tosse, accertandosi del loro suono abbastanza credibile: "Se poi gli si rompe il tetto mentre lo controlla... oh, Mairtin, Mairtin, che cosa hai combinato al mio povero tetto!" ridacchiò, tornando a sorseggiare la birra: "Magari entro un paio di giorni, così ci sono più possibilità che non ci tiri le cuoia." ci pensò un istante. Scosse la testa: "Dovrò spolverare il vestito nero e cercare un giardino decente. I Lynch si sono messi quel fottuto cagnaccio... Oh, e prendere almeno un paio di cipolle dall'orto di Mochta. Faccio davvero schifo nel piangere a comando.".
Un brusìo concitato lo riportò nel locale, portandolo a girarsi di nuovo; gli sfuggì un altro sorriso nel notare come il tavolo da gioco si fosse animato.
"Andiamo a guadagnarci il pane onestamente.".
Si alzò, facendosi largo tra clienti troppo ubriachi per reggersi in piedi e procaci fanciulle talmente truccate da ottenere un involontario effetto comico. Nel passare, fece scivolare una mano su un tavolo, dove qualche poveraccio - o, forse, più di uno - aveva avuto l'incauta idea di posare aggeggi luccicanti.
Aprì il palmo, scrutandone il contenuto: gettò a terra un paio di pezzi di vetro e un chiodo che aveva tutta l'aria di essere arrugginito, mettendo nel secondo borsellino attaccato alla cintura un orecchino probabilmente perso da una delle gentili dame, un fazzoletto, un piccolo crocifisso e tre fiammiferi.
- Allora? - quasi urlò, tirando indietro una sedia del tavolo da gioco e lasciandovisi cadere sopra: - Oggi va? -
- Ah, mi sembrava strano non vederti. - ridacchiò Riordán, buttando giù tre dadi. Sette. Peccato.
- Io me ne vado. - Rumann si alzò, seguito da due fanciulle fino a quel momento trillanti al suo fianco.
- Non vuoi perdere di nuovo? - gli urlò dietro Jack, senza riuscire a trattenere un ghigno; sfortunatamente, Rumann sembrò non averlo sentito - o forse, non aveva voglia di rispondergli.
Il ragazzo roteò gli occhi, riportandoli su Riordán.
- Dai qua. - disse, porgendogli una mano; quando i tre dadi furono sul suo palmo, gli bastò una torsione del polso per farne scivolare uno nella fascetta di cuoio sotto il polsino della camicia, estraendone un altro perfettamente identico e con una faccia un po' più pesante delle altre.
Puntò due monete da tre pence e lanciò i dadi con assoluta tranquillità, godendosi i respiri mozzi del pubblico, in attesa del risultato.
Cinque, uno e tre. Nove.
- Oh. - fece, inarcando appena le sopracciglia, sfoggiando il tono più stupito e falso che poteva: - Direi che la fortuna mi sorride. - tirò fuori due monete da sei pence, rivolgendosi agli altri uomini attorno al tavolo con un sorriso serafico: - Alziamo un po' la posta? -.
Bastava sostituire soltanto un altro dado.
Cinque, tre. E un quattro.
Dodici.

- Ha vinto di nuovo! - tuonò Tassach, quasi rovesciando il tavolo da gioco, tanta era la foga con cui si era alzato: - Sei solo un lurido baro! -
- Baro? - Jack sorrise, gonfiando il borsellino con la vincita; dovette mettersi alcune monete nelle tasche, visto lo spazio nullo rimasto: - Dimostralo. -.
Senza quei due dadi un po' più pesanti, gli sarebbe risultato difficile. E lui, di certo, non li aveva lasciati sul tavolo.
- Tu! - il viso di Tassach era ormai il più rosso di tutti quelli presenti - nel suo caso, però, non si trattava della sola birra: - Vai all'Inferno, lurido- -
- Niente casini qui dentro! - la voce dell'oste, straordinariamente, riuscì a sovrastare quella di Tassach, portando l'attenzione su di sé: - Se volete fare a botte, fatelo fuori di qui. -
- Non ne ho alcuna intenzione. - disse Jack, pacato, alzando le spalle: - Anzi, faccio un altro giro. -.
Esattamente come si era aspettato, l'oste scosse la testa, ma gli fece apparire sul bancone esattamente ciò che voleva.
- Uh, potresti offrire, qualche volta! - piagnucolò una ragazza, con voce particolarmente acuta, prendendo in ostaggio un suo braccio.
- Uhm, sì. - rispose Jack, con un sorriso: - Potrei. - con uno strattone, liberò il braccio, sedendosi davanti al bancone: - Ma non lo farò. - buttò giù metà della birra.
Offri ad uno e subito vogliono tutti.
Già doveva dosare i pence per se stesso, figurarsi se poteva permettersi di regalare birre a chi frequentava il locale - neanche potesse ottenere qualcosa in cambio, neanche dovesse fare un regalo a qualcuno che trovava simpatico.
Per fortuna, l'assenza dell'ultimo particolare gli garantiva anche l'assenza di qualsiasi colpo di testa del genere.
Scostò la frangetta bionda dagli occhi, sentendo la pelle della fronte e delle mani ormai sudata; si rifece una piccola coda ai capelli, la precedente ormai piuttosto sfatta.
Una pressione su una spalla.
- Buona vincita, stanotte. -.
Jack fece scendere lo sguardo: una mano più grande della sua, le dita che gli artigliavano la spalla; sbattè più volte le palpebre, cercando di capire se il blu mare che vedeva su quelle unghie appuntite ci fosse davvero o se fossero i primi segnali circa il dover smettere di bere, per quella sera.
Si voltò di scatto, incontrando un volto che non aveva mai visto: un giovane, probabilmente di poco più di vent'anni, con occhi azzurri e corti capelli scuri.
Gli parve di notare uno strano riflesso bluastro tra quelle ciocche, forse dovuto al tremolio delle lanterne del locale.
- Tu chi sei? - fu l'unica cosa che riuscì a dire, confuso.
Sentiva una stretta dolorosa allo stomaco, che nulla aveva a che fare con l'alcool; inoltre, nonostante quel caldo quasi asfissiante, aveva sentito qualcosa di gelido percorrergli il corpo, seguendo il tragitto delle vene.
E lì, dove lui lo stava stringendo, si sentiva bruciare.
Il giovane sorrise.
- Sono qualcuno che è venuto a conoscenza delle tue prodezze. - la sua voce era bassa, di un timbro che non sarebbe stato in grado di definire. Ma la cosa che lo fece sobbalzare fu il fatto che l'aveva sentita risuonare nella sua mente come se quella frase gli fosse stata detta direttamente nell'orecchio.
- Scusa? - fece Jack, indeciso se alzarsi e andarsene o rimanere lì.
- Ehi, Jack! - una voce femminile lo costrinse a voltarsi, verso due ragazze che lo guardavano, divertite: - Con chi stai parlando? -.
- Con questo straniero. - rispose, inarcando un sopracciglio: certo, quel giovane non poteva non dirsi affascinante, ma non si sarebbe mai aspettato tale pudicizia da parte di ragazze di quel tipo.
- Ah, lasciatelo perdere! - rise Riordán, più in là: - E' completamente andato! -
- Sei birre sono troppe anche per Jack l'Ubriacone! - le due ragazze scoppiarono a ridere sguaiatamente.
Jack sentì un tuffo al cuore.
Tornò a guardare il giovane che, fino a quel momento, non aveva mai smesso di sorridere. Non gli piaceva quel sorriso. Aveva qualcosa di inquietante.
- Cosa diavolo sei? - sibilò, a denti stretti.
Le labbra dell'altro si schiusero in una leggera risata. Jack si ritrasse: i canini erano troppo lunghi.
- I vostri modi di dire sono adorabili. - il giovane si sedette al suo fianco, facendo frusciare il mantello blu scuro.
- Nostri...? - ripeté Jack, non capendo.
Tornò a guardare la spalla, dove l'altro l'aveva afferrato.
Guardò il giovane negli occhi.
Il respiro si mozzò.
Quella porzione di camicia era annerita, come bruciata.
In quegli occhi azzurri aveva visto un baluginio rosso. E non era stata la sua immaginazione, le lanterne o la birra.
Scattò in piedi, il sedile cadde a terra.
Fece un passo indietro, le mani tremavano.
- Tu... - deglutì: - ... tu sei... -
- Venuto a prenderti? Sì. - la creatura demoniaca lo guardò, divertita, tranquilla come se non avesse alcuna fretta: - Mi sono giunte voci sul tuo conto, Jack. Ti ho tenuto d'occhio per un po' e devo ammettere che, sì, è proprio vero ciò che si dice di te. - accavallò le gambe, lasciando andare la schiena contro il bancone: - E' davvero straordinaria l'esistenza di un umano come te. Completamente incurante di chi lo circonda, troppo preso da se stesso per considerare qualcun altro, dedito soltanto al denaro, al saziare i propri desideri. Rubare, ingannare, ferire senza alcun accenno di rimorso, vedendo tutto ciò come il giusto corso della propria natura. - inclinò appena la testa: - Non potevo non prepararti un posto d'onore nel mio regno. -.
"... cazzo.".
Scattò verso la porta, sbattendo contro chiunque; gettò a terra una ragazza e un cliente nella speranza di rallentare quella creatura infernale, nel caso l'avesse seguito, buttò a terra due tavoli, ignorò le grida di sorpresa, le imprecazioni.
La porta.
Vi si scagliò contro, si bloccò.
Era lì.
Davanti a lui.
Jack si voltò: non era più dove l'aveva lasciato. Tornò a guardarlo. Era lì, di fronte a lui. Era davvero lì.
- Hai così tanta fretta di andare? - la creatura sorrise. E quello era decisamente un ghigno.
Indietreggiò.
"Devo pensare a qualcosa." si disse, serrando le labbra: "Non può finire così. No, decisamente no. Ma cosa posso fare? Cos'ho, qui, a portata di mano? I vestiti, il denaro... non credo si farà corrompere dal denaro." un altro passo indietro: "Il pugnale? No, non avrebbe alcuna efficacia. E non credo che dargli fuoco serva a qualcosa, anzi. Ho un orecchino, un fazzoletto, un..." deglutì, il suo cuore fece un salto: "... un crocifisso. Posso farcela.".
Si gettò a terra, in ginocchio, quasi battendo la fronte contro il pavimento: - Ti prego! - gemette, cercando di far leva sul suo mal di testa per rendere credibile la sua lamentela: - Ti prego, non portarmi via! Migliorerò! Diventerò buono! -. Ignorò lo scoppio di risate alle sue spalle. Era soltanto una voce quella che, in quel momento, voleva udire.
- Jack... - era fin troppo vellutata. Rabbrividì: - ... pensi davvero che io creda ad una cazzata di simili dimensioni? -.
"Oh, certo che no."
- Abbiate pietà! - singhiozzò.
"Ma non si può arrivare subito al punto. Bisogna girarci un po' intorno, prima."
Dannate lacrime che non uscivano. Avrebbero reso la sua farsa decisamente migliore.
- Temo di non potere. - sospirò la creatura, paziente: - Non è, come dire, nella mia natura. -.
Jack si passò una mano sugli occhi, sperando fossero abbastanza arrossati: - Allora... - sussurrò, alzando la testa fino ad incontrare di nuovo quello sguardo azzurro: - ... posso... chiedere... un ultimo desiderio...? - mormorò, la voce spezzata.
- Ehi, Jack, ma che ti prende? -
- Stavolta è proprio andato... -
- Basta che non vomiti lì, che poi dobbiamo uscire! -
Il sorriso scomparve dal volto della creatura: - Se ne ricordano sempre. -. Con un cenno del capo, il giovane annuì.
- Oh, grazie! - esclamò Jack, saltando su: - Grazie! Grazie! - corse al bancone, sentendo decine e decine di sguardi divertiti e confusi su di sé. Li ignorò.
- Un'altra birra. - disse, di fronte agli occhi disorientati dell'oste.
Esattamente come tutte le volte precedenti, la scena si ripeté e la birra apparve sul bancone.
- Una birra come ultimo desiderio? -
Jack si impose di non rabbrividire: stavolta la voce del demone era troppo vicina. Non era più solo una sensazione sinistra. Poteva sentirlo dietro di sé. Esitò dal guardarsi le spalle: aveva come l'impressione che vi avrebbe trovato le sue mani.
- Sì. - sospirò, una pausa tra un sorso e un altro: - Una birra. -.
Assaporò la bevanda come se fosse la prima volta, incuriosito da un nuovo sapore, come se non avesse mai più potuto berla in vita sua, un addio.
Quando, alla fine, il boccale fu svuotato, sentì davvero la pressione delle mani del demone sulle sue spalle.
Era il momento.
- Devo pagare. - borbottò.
Mise mano al borsellino - il secondo - e frugò al suo interno. Assunse un'espressione sconvolta ed estrasse i tre fiammiferi, fissandoli come se non credesse ai propri occhi.
- Io... - mormorò, incredulo: - ... ho solo questi. -.
Incontrò lo sguardo allibito dell'oste.
- ... ma se hai appena vinto una fortuna! - protestò questi, la voce strozzata.
Jack aprì il borsellino e rovesciò il contenuto sul tavolo - il crocifisso stretto tra due dita attraverso la stoffa, in modo che non cadesse.
- Li ho... - sussurrò, piano: - ... persi. -.
Silenzio.
Una risata leggera. Alle sue spalle, troppo vicina.
- Che fine ingloriosa, Jack. - ridacchiò il demone.
- Tu... - mormorò, lo sguardo fisso di fronte a sé: - ... puoi darmi sei pence? Soli sei pence, solo per pagare. Dopodiché, ti seguirò. -.
- Sapevo che me l'avresti chiesto. - poteva sentire il respiro della creatura contro il suo collo: - Non armeggio con simili idiozie. Ma, come sicuramente saprai, posso mutare forma. Una moneta da sei pence. La avrai per un istante. L'oste la avrà per ancor meno tempo. -.
Una leggera folata di vento, un tintinnio.
Jack guardò verso il pavimento, alle sue spalle. Il demone era scomparso: al suo posto c'era una piccola moneta d'argento, di sei pence.
Si chinò e la raccolse, rigirandosela tra le dita.
E la schiaffò nel borsellino.
Un urlo disumano rimbombò nelle sue orecchie, facendolo scoppiare a ridere. Mise mano al borsellino dei soldi, dando all'oste spiazzato una moneta da sei pence.
- Tieni. - rise, agitando il borsellino con la falsa moneta e il crocifisso.
Con passo deciso, lo sguardo alto, Jack uscì dal locale, lasciando i brusii allibiti dietro la porta.
- Liberami! -
- Il crocifisso annulla i tuoi poteri, vero? - rise il ragazzo, avviandosi verso la strada di casa.
- Ti ordino di liberarmi! -
- E perché mai dovrei? - Jack non riusciva a trattenere le risate, né si sforzava di farlo. Non sapeva perché, ma si sentiva sollevato, come se nulla sarebbe mai potuto succedergli.
- Sappi che la pagherai per questo! - la voce del demone era molto meno vellutata, decisamente meno calma, immensamente più divertente da sentire: - Mi libererò e per te sarà la fine! -
- Sì, sì, lo sappiamo. - agitò il borsellino, sentendo in risposta un'imprecazione talmente colorita da metterlo, per un istante, a disagio: - Peccato tu non possa liberarti. In nessun modo. Soltanto io posso farlo. -.
Un ringhio basso, frustrato.
Jack rise di nuovo: "Ce l'ho in pugno. Letteralmente! Ah. Ah. Ah.".
Tuttavia, sapeva quanto poco saggio fosse proseguire troppo a lungo con quella cosa. Aveva imparato a dosare i tempi e quello era il momento giusto: - Senti un po'... - buttò lì, con noncuranza: - ... possiamo fare un patto. -.
Silenzio.
- ... tu proponi un patto a me? -
Sì, in effetti, doveva riconoscerne l'assurdità.
- Non hai altro modo per liberarti. - gli fece notare.
Un altro ringhio basso. Lo prese per un sì.
- Io ti libererò... - disse: - ... ma tu dovrai promettere di non prendere la mia anima per i prossimi dieci anni. -.
Dieci anni. Un nulla, per un demone.
Un patto che l'avrebbe tenuto al sicuro per un decennio.
- ... e sia. - la voce della creatura era bassa, un ringhio continuo, fuoco ardente sotto la cenere: - Prometto di non prendere la tua anima per i prossimi dieci anni. Liberami e questo patto sarà valido. -.
Le labbra di Jack si curvarono in un sorriso di trionfo, il cuore batteva forte, leggero, come non mai.
Aprì il borsellino e, piano, tirò fuori la moneta.
Non appena emerse dalla stoffa, essa scomparve; nello stesso istante, il giovane dagli occhi azzurri apparve d'innanzi a Jack, il volto contratto in una smorfia di pura ira.
- Ci rivedremo. Sappilo. - sibilò.
Jack, semplicemente, sorrise: - Lo so. -.

Scosse uno dei borsellini gonfi, beandosi di come le monete fossero troppo compresse per tintinnare.
Avrebbe dovuto ringraziare i duchi O' Reilly del gentile regalo. E, forse, avrebbe dovuto ringraziare anche quegli impiastri che, tutti esaltati, gli avevano offerto tutto quel ben di dio ad un decimo del prezzo effettivo.
Il fatto che non sapessero minimamente che quei gioielli valessero dieci volte di più era irrilevante.
Ecco perché adorava i ladruncoli giovani e inesperti.
"Meglio che mi muova." si disse Jack, rimettendo il borsellino nella pesante sacca che portava con sé: "Non ho intenzione di far finire tutta questa roba nelle mani di qualche imbecille.".
Il sole era vicino alla linea dell'orizzonte e il cielo iniziava a tingersi di colori caldi; se avesse mantenuto un passo costante, sarebbe arrivato a casa prima dello scendere effettivo della sera.
Riprese a camminare, giocherellando con il bastone da passeggio, l'impugnatura ricurva che girava attorno al suo polso.
"Direi che stasera è obbligatorio festeggiare!" esultò, già pregustando boccali e boccali di birra.
Si bloccò.
Aveva lasciato le vie più frequentate, era almeno un'ora che camminava in totale solitudine.
Non si aspettava di incontrare qualcun altro, men che meno qualcuno fermo in mezzo alla via, vestito con abiti dal taglio elegante che ben poco si addicevano a quel paese di campagna e a quella strada di alberi, terra e fango.
Gli sfuggì un sorriso.
"Che straordinaria puntualità.".
Dieci anni esatti. Lo stesso giorno, seppur qualche ora prima. Si sarebbe aspettato di incontrarlo a notte fonda, quando il 31 Ottobre e l'1 Novembre si incontravano, piuttosto che all'imbrunire.
- Sei tornato, dunque. - disse, forzando il suo tono a farsi più timoroso.
- Ti avevo annunciato che sarebbe successo. - fu la pacata risposta del demone. Lo vide avvicinarsi, fino a ridurre la loro distanza a meno di un braccio teso.
- Il nostro patto trova la sua realizzazione. - disse la creatura, piano: - Come promesso, ho rinunciato alla tua anima per dieci anni. Ora è giunto il momento che tu mi segua nel mio regno. -.
Jack abbassò lo sguardo, celando gli occhi dietro la frangetta chiara; curvò appena la schiena, si strinse nelle spalle.
Dieci anni.
Un nulla, per un demone, meno di un battito di ciglia.
- E sia. - sussurrò, posando a terra la sacca colma di borsellini pieni: - Ti seguirò. - trasse un profondo respiro: - Temo di non poter chiedere un'ultima birra, giusto? -
- Giusto. -
Riuscì a soffocare un sorriso: la voce del demone si era incrinata.
- Posso sempre avere diritto ad un ultimo desiderio, però, vero? - mormorò, lo sguardo ancora basso.
La risposta della creatura giunse con qualche secondo di ritardo: Jack aveva come l'impressione che si stesse spazientendo. E la cosa lo divertiva.
- E sia. - acconsentì il demone. Tono pacato, timbro incrinato. Esattamente come sospettava.
Jack alzò lo sguardo, il bastone da passeggio stretto al petto, il volto intimorito: - Io... vorrei... una mela. -.
Le sopracciglia della creatura infernale si inarcarono, l'espressione sinceramente stupita: - Tu... - ripeté, piano: - ... vuoi una mela? - le labbra si curvarono in un sorriso sinistro, scoprendo i canini troppo lunghi: - Curiosa scelta, devo dire. Prima di andare all'Inferno, vuoi che il tuo ultimo pasto terreno sia il frutto del peccato. Sei davvero una persona interessante, Jack. Degno del mio regno, senza dubbio. -.
L'altro inspirò a fondo, per poi guardare gli alberi che costeggiavano la strada: tra di essi, vi erano due alberi di mele.
Si avvicinò ad uno, tese il braccio e si sollevò sulle punte.
Le sue dita toccarono solo aria.
Provò con l'altro albero ma, ancora una volta, non riuscì a prendere niente.
- Sono... - sussurrò, debole: - ... troppo in alto. -.
Si voltò, incontrando quegli occhi azzurri, leggendovi impazienza e divertimento. Sperò di avere un'espressione abbastanza disperata: - Potresti prendermene una? Una soltanto! Dopodiché, ti seguirò. -.
Il demone inclinò la testa di lato, scrutandolo per qualche istante. Quando parlò, la sua voce era cauta, ben meno calma di prima: - Hai dei crocifissi o pagine sacre, con te? -.
Jack scosse la testa, costringendosi a non scoppiare a ridere al ricordo di dieci anni prima: - No. Non porto crocifissi, non porto pagine sacre. Nulla di questo è con me. -
- Falso, bugiardo Jack. - trasalì, le unghie del demone gli pungevano le guance, il tronco del melo gli premeva contro la schiena; gli occhi della creatura erano troppo vicini, poteva vederne chiaramente la sfumatura rosso sangue nell'iride di cielo. Deglutì, il pomo d'Adamo sfiorò le nocche del demone.
- Come puoi aspettarti che io creda al bugiardo e ingannatore Jack? - la sua voce era tornata vellutata, tranquilla.
Jack, invece, sentiva il proprio corpo tremare.
- Se anche ne avessi con me... - sussurrò, la voce spezzata dai tremiti: - ... non le userei. E' un giuramento. -.
Le labbra del demone si schiusero, un sorriso sorpreso e divertito: - Giuri di non usare simboli sacri per scacciare le creature dell'Inferno? Direi che non esiste nessuna anima più perduta della tua, Jack. -. Si scostò, liberandolo da quella presa.
Jack si allontanò appena dal tronco, scosso.
- Giuro di non usare crocifissi o pagine sacre in mio possesso per scacciarti. - ripeté, scandendo le parole. Deglutì di nuovo: - Ora... puoi esaudire il mio ultimo desiderio? - chiese, in un sussurro soffocato.
- D'accordo. - il demone acconsentì e, un istante dopo, era su uno dei rami dell'albero di mele.
Dieci anni.
Un nulla, per un demone.
Un tempo lunghissimo, per un umano.
Tanto lungo da poter pensare ad almeno un centinaio di modi per scampare al proprio destino.
Tolse la sicura al bastone da passeggio, tirando il manico ricurvo e rivelandolo come l'elsa del pugnale che aveva sempre tenuto con sé; conficcò la lama nel tronco e scavò una linea verticale, per poi estrarlo e tracciarvi sopra una linea orizzontale.
Una croce.
L'urlo del demone non tardò ad arrivare, così come la risata a pieni polmoni di Jack: non c'era più bisogno di fingersi spaventato, ora.
- Hai giurato di non usare simboli sacri! - ringhiò la creatura, costretta sul ramo su cui era giunta.
- Ho giurato di non usare crocifissi o pagine sacre in mio possesso per scacciarti. - gli ricordò, riprendendo fiato, asciugandosi le lacrime d'ilarità dagli occhi: - Come ti ho già detto, non ho crocifissi o pagine sacre, con me. Non ho mai detto che non avrei creato una qualche croce. -.
Gli occhi del demone - poteva vederli persino da terra - avevano perso il colore del mare: erano rossi, infuocati. I denti digrignati, il ringhio forte e continuo, sembrava una bestia pronta ad azzannarlo al collo e sbranarlo.
Probabilmente, non era solo un'impressione.
- Finché questa croce rimane qui, tu non puoi scendere o, comunque, andartene da quell'albero, vero? - ridacchiò Jack, accarezzando l'incisione sul tronco.
Sobbalzò quando il ramo più basso si piegò di colpo: il demone era sceso al ramo meno distante dal suolo, a meno di due metri dallo stesso Jack. Il ragazzo si sentì gelare: se non ci fosse stata quella croce, probabilmente, quella creatura sarebbe stata capace di dargli fuoco con lo sguardo. E sembrava non aspettare altro che udire le sue urla di dolore.
- Vero? - lo incalzò, cercando di non far tremare la propria voce.
Un ringhio. Somigliava ad un'affermazione.
- Bene. - disse, riuscendo a far apparire un sorriso soddisfatto: - Io posso togliere questa croce e liberarti. Ma voglio qualcosa in cambio. -.
- Non prendere la tua anima per i prossimi vent'anni? - sibilò il demone, la voce roca.
Jack scosse la testa: in dieci anni, aveva avuto modo di riflettere per bene.
- Io ti libererò. Ma, in cambio, tu non dovrai mai prendere la mia anima. -.
Silenzio.
La creatura sgranò gli occhi, visibilmente sorpresa: - Mai? - ripeté.
Jack annuì: - Mai. Non tornernai mai più per reclamare la mia anima. In cambio della tua libertà. -.
Ormai il sole era tramontato, ogni cosa si era tinta dei colori scuri della notte.
Persino gli occhi del demone, dopo qualche minuto, persero la loro scintilla rossa, tornando del colore del mare notturno.
- E sia. - accettò, la voce appena percettibile: - Rendimi la libertà. In cambio, non tornerò mai più a reclamare la tua anima. Lo prometto. -.
Con un sorriso talmente grande da fargli male alle guance, Jack intagliò la corteccia, fino a staccare il pezzo su cui aveva inciso la croce; non appena lo gettò a terra, il demone scese dall'albero, lo sguardo impassibile.
- I miei saluti, allora. - rise Jack, recuperando la sacca e rinfoderando la lama nel bastone da passeggio: - Buona caccia! - esclamò, avviandosi verso la propria strada, ridendo come mai aveva riso in vita sua, felice, ormai completamente al sicuro.

- Ah. -.
Gettò un'occhiata al gigantesco portone d'argento dietro la figura luminosa, esitante. Gli sembrava molto più grande di quando l'aveva visto per la prima volta, pochi minuti prima.
- Sicuri sicuri sicuri che io non possa entrare? - tentò di nuovo, ben meno convinto.
La creatura angelica scosse la testa: - Mi dispiace, Jack. Ma la tua vita terrena è stata troppo dissoluta, troppo attaccata ai beni materiali. La tua adorazione per il denaro, il cibo e i piaceri terreni ha offuscato la tua mente e il tuo cuore, allontanandoti dalla via della salvezza. Hai ingannato, rubato, mentito, ferito senza alcun ripensamento o timore, anzi, hai compiuto azioni dannose per il tuo prossimo con fierezza e compiacimento. Mai hai offerto una gentilezza o ti sei curato dei tuoi fratelli e delle tue sorelle, hai sfruttato e approfittato unicamente per il tuo piacere. Neppure in punto di morte sei stato capace di pentirti dei tuoi peccati, mai l'idea ti ha sfiorato la mente o toccato il cuore. Per questo motivo, non è il Regno dei Cieli il luogo a cui sei destinato. Mi duole dirtelo, Jack. -.
Per la prima volta nella sua esistenza, Jack provò paura.
Si sentiva completamente congelato, dalla pelle al sangue, una morsa di gelo che lo feriva nei muscoli, nelle ossa, negli occhi, nella gola, nel cuore. La cosa lo spaventava, anche considerando che, tecnicamente, non aveva più né pelle né sangue né muscoli né ossa né occhi né gola né cuore. Eppure, sentiva quelle sensazioni come se fosse vivo, come se avesse ancora un corpo.
Un corpo in grado di percepire le sensazioni, qualsiasi sensazione. Il piacere, la paura, il dolore.
Fece un passo indietro, sentendo la propria anima tremare, quelle che un tempo erano labbra schiudersi.
La creatura angelica alzò un braccio, indicando qualcosa alle sue spalle: - Discendi la scala, Jack. Sarà alla sua fine che troverai il luogo a cui sei destinato. -.
"Non può essere..." si disse, voltandosi meccanicamente e camminando tra sbuffi di leggero fumo candido, incapace di fermarsi, incapace di controllare quelle che dovevano essere le proprie gambe: "Non è così. Non è vero, non è assolutamente vero!".
Una scalinata.
Trasparente, brillante, sembrava fatta di vetro. I gradini erano troppi, si confondevano alla vista, si perdevano nell'abisso.
Erano gradini che portavano unicamente verso il basso.
Non riusciva a fermarsi. Non era lui a scendere ciascun gradino. Sentì una dolorosa fitta allo stomaco, o quel che era, nel rendersi conto di come fosse il suo corpo - la sua anima - a muoversi contro la propria volontà, non guidata dagli esseri celesti, ma attratta lei stessa da ciò che si trovava in fondo alla gradinata.
Ogni scalino che scendeva era come posare i piedi su dei chiodi.
Sempre più doloroso, sempre più doloroso. E non poteva fermarsi.
"E' finita davvero?" si chiese, stanco, quando vide l'alto portone nero alla fine della scalinata. Non appena scese dall'ultimo gradino, non appena vi fu davanti, si sentì prosciugato di ogni energia. Si sentiva pesante, troppo pesante, i pensieri scivolavano nella sua mente, senza fissarsi davvero, come un distratto brusìo in sottofondo.
Cercò di inspirare, ma non ci riuscì. Non stava esattamente soffocando: era come se respirare fosse superfluo, troppo difficile, troppo faticoso per farlo in quel momento. Poteva farne a meno, non ne aveva più bisogno.
Strisciò i piedi fino al grande portone, posandovi le dita. Ghiacciato e ardente. Non sapeva come fosse possibile, ma sentì i polpastrelli ustionarsi, attraversati da fitte ghiacciate. Ritirò lentamente la mano, fissandosi le dita ferite: erano rosse, di un rosso cupo.
"Ho... un corpo...?" alzò lo sguardo, il collo tirò, gli occhi gli fecero male. Un semplice gesto gli era costato uno sforzo enorme.
"Oh... giusto." si rese conto, lasciando ciondolare le braccia: "... devo averlo. Un corpo. O qualcosa di simile. Un'anima pesante. Che possa essere ferita.".
Schiuse le labbra, abbassò appena le palpebre: "E ora... dove devo andare...? Dove si... entra...?".
Mosse la testa a destra e a sinistra, più piano che poteva, per non sentire di nuovo troppo dolore.
Fumo scuro, come qualcosa di bruciato.
Ovunque guardasse, c'era solo quello.
E gli occhi gli facevano sempre più male.
- Che piacevole sorpresa. -.
Trasalì: conosceva quella voce. L'aveva sentita soltanto due volte in tutta la sua vita terrena, ma non sarebbe mai riuscito a dimenticarsene.
Tornò a guardare il portone chiuso, sentendo il collo e le spalle tirare dolorosamente: il demone che aveva cercato di prendere la sua anima era lì, con l'aspetto con cui l'aveva sempre visto, immutato.
- Cosa ci fai, qui? - domandò la creatura infernale, avvicinandoglisi.
"Come sarebbe a dire?" avrebbe voluto parlare, ma la voce faticava ad uscire. Deglutì, sentendo una fitta all'altezza della gola.
- Non posso... - la sua voce uscì roca, spezzata, affaticata. Ma non gli importava: - ... non posso entrare dall'altra parte. -.
Il demone ridacchiò, portando una mano sulla spalla, chinandosi alla sua altezza: - Jack, Jack... - rise, divertito: - ... è quello che già ti dissi tempo addietro. Per due volte. E dire che sono venuto io in persona a prenderti. - sorrise, un sorriso gentile che illuminava gli occhi, rossi come sangue vivo, spaventosi: - Tuttavia, Jack, ho promesso che non avrei mai più preso la tua anima. Sei stato tu stesso a propormi questo patto, Jack. - scoprì i denti affilati, un ghigno: - Scusami, Jack. Ma temo che il mio regno, ora, ti sia proibito per sempre. -.
Il ragazzo si liberò dalla presa, indietreggiò.
"Non può essere... non..."
- Non posso entrare... - mormorò, cominciando a capire.
- Hai rifiutato il Regno dei Cieli per tutta la tua vita terrena. - la voce del demone sibilava nella sua mente, dolorosa ad ogni sillaba: - Ti sei precluso il Regno degli Inferi con un patto. Non hai luogo in cui andare. -.
La sua anima tremava. Scossa come mai nella sua vita, bruciata e congelata al tempo stesso. Strinse i denti, il cuore che batteva troppo forte, quasi volesse ferirlo dall'interno ad ogni battito: - Dove posso andare? - gemette, perso.
- Non certo avanti. - disse il demone, divertito: - Non puoi che tornare indietro. -.
Jack sgranò gli occhi, incredulo: - Tornare in vita? - farfugliò, stringendo i pugni, sentendo delle fitte ai polsi.
A quelle parole, la creatura scosse la testa, le labbra serrate come se si stesse impedendo di scoppiare a ridergli in faccia: - No, Jack. La tua vita è finita. E, se non puoi andare avanti, mai ti sarà concesso averne un'altra. -
Il ragazzo fece di no con la testa, iniziando a capire.
- Torna tra coloro che vivono sulla Terra, Jack. Senza soffio vitale, senza corpo materiale, fantasma e spirito errante, perduto per sempre. -.
Cadde in ginocchio.
Non era spaventato.
Non era intimorito.
Non era incuriosito.
Non era felice.
Era vuoto.
Ogni emozione era scivolata via, insieme a qualsiasi sensazione. Non sentiva più alcun dolore, non percepiva più niente.
Si rialzò, piano.
"La fine." comprese: "Bloccato per sempre tra la vita e la morte. Un ciclo vitale interrotto. Deve essere questa, la vera morte.".
Guardò alla sua destra: non sapeva se ci fosse sempre stata o se fosse apparsa solo in quel momento, ma c'era una via. Una strada buia, come avvolta da una notte perenne. Vi si avvicinò, pose un piede sul terreno. Gli sembrava di essere tornato vivo, quando, nelle fredde e ventose notti d'inverno, percorreva le strade sterrate. Era solo un'illusione, lo sapeva. Ma era incredibilmente reale.
"Forse andrà bene lo stesso." si disse, facendo un passo avanti: "Se anche fosse un'illusione, potrò esistere nel mio mondo. Un'immortalità dannata.". Trasse un profondo respiro: stavolta c'era riuscito, non gli faceva male.
C'era soltanto un particolare che lo faceva esitare.
- Non vedo niente. - disse, titubante. Si voltò, verso il demone, che ora lo fissava con uno sguardo ben diverso dai precedenti: era attento, irritato.
- Stavolta non ti ingannerò. - lo rassicurò, intuendo i suoi pensieri: - Però... se solo potessi avere qualcosa, qualsiasi cosa, per vedere la strada... -
La creatura digrignò i denti.
Un leggero colpo, come qualcosa di piccolo che cadeva a terra.
Jack abbassò lo sguardo: tra i fumi scuri attorno ai suoi piedi, riuscì a vedere la luce di un tizzone ardente. Esitante, vi avvicinò le dita; quando lo toccò, non si stupì troppo di non provare dolore, nonostante le sue dita si fossero scurite.
Lanciò un rapido sguardo al demonio, ormai visibilmente irritato.
- C'è qualche problema? - chiese. Per una volta, si trattava di una domanda innocente.
Il demone, però, non sembrò della sua stessa opinione. Senza dire una parola, scomparve da sotto i suoi occhi, assieme al portone e ai fumi.
Quel che apparve fu una distesa di terra scura, costellata di una moltitudine di pietre grigie, lisce, lucenti alla luna.
Jack deglutì, riconoscendo quel luogo.
Vi era stato poche ore prima.
Per il suo stesso funerale.
"Il cimitero..." pensò, aggirandosi tra le tombe, in cerca dell'uscita. Non aveva voglia di vedere la propria lapide. Alcuna voglia.
Soprattutto, doveva trovare un riparo: c'era troppo vento, quella notte, e non voleva rischiare che il tizzone si spegnesse. Aveva come l'impressione che la luna non sarebbe stata in grado di illuminare davvero la sua strada.
Per il momento, c'era un luogo abbastanza sicuro in cui recarsi.
"Sempre che quegli scellerati non l'abbiano buttata giù." ringhiò, andando più veloce che poteva - sorprendendosi di quanti metri riuscisse a fare senza la benché minima fatica: "Vi ho visto, cosa credete? Quei pianti erano più falsi dei miei! Metà di loro non aspettava altro che mi togliessi dalle palle, l'altra metà starà mettendo sottosopra la mia casa in cerca del mio denaro." un motivo in più per recarsi a casa propria.
Passò davanti al locale in cui aveva trascorso praticamente tutte le sere della propria vita: dall'interno, proveniva un vociare intenso, gioioso, esattamente come tutte le notti. Non che si aspettasse una sera di lutto, per la sua morte.
Ciò che lo attirò, però, fu la catasta di rifiuti gettata nel vicolo adiacente: pochissimi residui, tantissimi frutti e ortaggi ancora in perfetto stato.
Strinse i denti: c'era solo una spiegazione a tutto quell'incurante spreco di cibo.
"Hanno già razziato la mia casa. Stanno facendo festa grande con il mio denaro!".
Trasse un profondo respiro, ritrovò la calma: "Piano, Jack. Ora hai tutta un'eternità per divertirti con loro.". Gettò un'occhiata al locale: "Vi farò scontare ogni singolo pence. Pregherete in ginocchio di poter tornare indietro e lasciare intatta la mia casa!".
In quel momento, però, aveva cose più urgenti da fare: doveva mettere al sicuro il tizzone. Vagando con lo sguardo tra i rifiuti, i suoi occhi furono catturati da una rapa in perfetto stato, bianchissima, come appena estratta dalla terra.
La prese, rigirandosela tra le dita, studiandola: effettivamente, aveva ancora del terreno. Forse era davvero appena stata estratta.
"Appena colta e già data alle bestie." scosse la testa, con disappunto: "Tu potresti fare al caso mio." pensò, rimuginando su come tagliarla.
"Se solo avessi ancora il mio bastone..." quella lama sarebbe stata perfetta.
Un leggero tonfo.
Abbassò lo sguardo: il suo bastone da passeggio era lì, ai suoi piedi.
- Ma cosa...? - farfugliò, chinandosi per raccoglierlo. Posò la rapa sul terreno, per poi prendere il bastone: "Sì, è proprio lui..." lo riconobbe, incredulo: "Ma cosa ci fa qui? Era stato seppellito insieme al mio corpo...". Ci pensò un'istante. "Forse..." capì: "... è qui proprio perché era stato seppellito insieme al mio corpo?". Schiuse le labbra, sorpreso: "Dunque i defunti possono portare con sé i beni che sono stati sepolti con loro?".
Scosse la testa, rimandando le domande a dopo: doveva mettere al sicuro il tizzone.
Sguainò la lama e intagliò la rapa, svuotandola e inserendo il pezzo di carbone al suo interno. La guardò: ora era al sicuro ma, chiuso lì dentro, illuminava solo le pareti dell'ortaggio. Fece schioccare la lingua e intagliò la rapa, aprendo due buchi circolari. Piegò appena la testa, decise di fare un altro buco, stavolta orizzontale, sottile, sotto i due fori. Ora la luce usciva, illuminando abbastanza decentemente.
"Sembra una faccia." notò, divertito.
Rinfoderò il pugnale e legò la rapa alla base del bastone, usando i suoi lunghi ciuffi verdi.
"Perfetto!" si disse, rimirando la sua opera: "Direi che così può andare!".
- Ti vedo già a tuo agio. -.
Trasalì, colto alla sprovvista.
Alzò lo sguardo, stupendosi di ritrovarsi d'innanzi il demone che si era lasciato alle spalle.
Scattò in piedi, confuso: - Cosa ci fai qui? - domandò.
La creatura demoniaca sorrideva, pacata. Non era un buon segno.
- Sai, Jack... - disse, serafico: - ... tu sei l'unico essere umano capace di truffare me, fino alla fine. -.
La creatura demoniaca sorrideva, pacata, dicendo cose simili. Pessimo segno.
Jack fece un passo indietro, d'istinto.
- Tuttavia, a me non piace perdere. - il suo sorriso scoprì i canini: - A te, invece, piacciono i patti. Potremmo metterci d'accordo. -.
Il ragazzo rimase spiazzato: non si sarebbe mai aspettato che il demone tornasse.
... o meglio, in realtà, l'aveva sospettato. Non si sarebbe mai aspettato che lo facesse davvero.
- L'ultimo patto che abbiamo fatto ti impedisce di reclamare la mia anima. - gli ricordò, cauto: - Tu stesso mi hai scacciato dalle porte del tuo regno. -. Le labbra di Jack si curvarono in un sorriso divertito, mentre intuiva la verità: - Tuttavia... tu vuoi assolutamente che io cada, vero? Se io finissi nel tuo regno, sarebbe la dimostrazione che nessuno, in nessun modo, è in grado di sfuggirti. Saresti il vincitore assoluto, tanto da cancellare le mie vittorie, le tue vergogne. -
Gli occhi del demone persero la loro tonalità azzurra, sfumando nel rosso. Aveva stretto i denti.
Aveva azzeccato con una precisione millimetrica.
- Quando me ne sono andato, ti sei reso conto che anche la mia dannazione come anima errante, per te, è un'enorme sconfitta. Ti sono sfuggito di nuovo. Ma c'è il nostro precedente patto a fermarti. Per questo sei riapparso, vero? Vuoi spingermi a cadere per vincere definitivamente. -.
Rumore del vento tra le fronde degli alberi.
Lo sguardo rosso del demone era freddo, impassibile.
Un istante dopo, però, fece una cosa che Jack non si era aspettato: scoppiò a ridere.
Una risata divertita che gli risuonava nella testa, facendolo tremare. Non gli piaceva, quella risata. Non gli piaceva affatto.
- Temo, Jack... - rise il demone, inspirando a fondo per riprendere il controllo: - ... che tu stia perdendo il contatto con la realtà. Tu sei un'anima condannata, rifiutata dal Cielo e dagli Inferi, destinata a vagare come pallida ombra tra i vivi. L'anima di un povero fabbro che ha odiato, che è stato odiato e che continua ad odiare ed essere odiato anche dopo la morte. Una memoria infangata, un'esistenza rosa dalla sofferenza, un'anima che non rinascerà mai, un cuore perduto. -
Jack deglutì. Sentì la bocca farsi amara, il cuore più pesante. Lui era stato benissimo, in vita. Non rimpiangeva niente. E non gli importava niente di essere ricordato.
Ma sentiva mancargli qualcosa.
- Io posso liberarti, Jack. -
Trasalì.
Liberarti.
No, quelle parole non gli piacevano.
Però... c'era qualcosa, in fondo al cuore, che lo spaventava. Come un timore nascosto, silenzioso, ma presente.
Dannato.
Per sempre.
Condannato a vagare senza meta.
Per l'eternità.
Nessuna salvezza.
Nessuna dannazione.
Il nulla.
Inghiottito nel nulla, consumato dalla morte della morte, allontanato dalla rinascita.
La fine.
- ... dimmi. - mormorò, piano.
Il demone sorrise. La sua voce era pacata.
- Ti propongo un patto. - disse, sfiorando con le dita la rapa intagliata: - Tre condizioni. - catturò il suo sguardo: - Come saprai, le creature che non appartengono al mondo terreno possono mutare la propria forma. Inoltre, nella notte di Samhain, la soglia che divide il mondo terreno con quello ultraterreno si assottiglia, e gli spiriti erranti o defunti possono tornare nel mondo dei vivi. Capita, dunque, che gli spiriti assumano effettive sembianze umane, lasciandosi vedere come semplici esseri umani. La prima condizione... - alzò un dito: - ... è che tu non venga mai riconosciuto quando deciderai di assumere un altro aspetto. Soprattutto durante la notte di Samhain. - sorrise, un ghigno: - Se qualcuno ti smaschererà durante la notte di Samhain, Jack O' Lantern, tu cadrai. Il nostro precedente patto sarà automaticamente infranto e la tua anima precipiterà tra le fiamme degli Inferi. -.
Jack tremò.
Aveva sentito della notte di Samhain, di come gli spiriti potessero mutare forma. Non aveva pensato al fatto che, ora, potesse farlo anche lui.
Serrò le labbra: "Si tratta solo della notte di Samhain, no? Se starò attento, non la vedo come una condizione troppo dura. A parte per la conseguenza.". Una minuscola parte del suo cuore, però, sembrava quasi dirgli che, piuttosto che il nulla, avrebbe preferito le fiamme infernali. La ignorò e annuì, piano: - Accetto. -.
Il demone sorrise, soddisfatto.
- Dato che sono misericordioso... - il tono era talmente ironico da sembrare quasi velenoso: - ... e dato che so che, prima o poi, avresti pensato a qualcosa del genere... - ah, ecco: - ... ti informo che, sì, sarai anche in grado di offrire il tuo aiuto, se lo vorrai. -.
Jack aggrottò la fronte: - ... eh? -
- Potrebbe capitare. Non si può sapere con certezza. - la sua voce era tornata vellutata: - Potrai compiere buone azioni, Jack. Così, forse, quelli del Cielo potrebbero, forse, cambiare idea su di te. Forse. Aiutando il prossimo, forse ti sarebbe offerta la possibilità di accedere al Regno dei Cieli. Forse sarebbe vista come volontà di riscatto, come pentimento per i peccati commessi in vita. Forse. E, forse, la tua anima non sarebbe più condannata. Forse. -
Jack sgranò gli occhi: "Non avevo pensato a questa possibilità...". Aveva dato ormai per certa la sua totale condanna. Non aveva riflettuto sul fatto di poter avere anche solo una piccola possibilità di entrare nel Regno dei Cieli.
"... anche se... non è che questa condizione mi faccia impazzire." ci pensò: "Forse, per salvarmi, potrei anche prestare un briciolo di attenzione a qualche povero mentecatto..."
- Tuttavia... - la voce del demone lo riportò alla realtà: - ... c'è un piccolo particolare da tenere in considerazione, Jack. - la creatura alzò le spalle: - L'aiuto deve essere disinteressato. Aiutare gli altri per autocompiacimento o per impietosire quelli del Cielo ha la stessa utilità di guardare il fiume che scorre. Potrai aiutare, sì, ma senza alcun secondo fine. Se lo farai, forse, potresti, forse, accedere al Regno dei Cieli. Forse. O forse no. - sorrise, serafico.
"... lo sapevo che era una totale perdita di tempo."
- E' questa la condizione? - domandò, contrariato: - Che razza di condizione è? -
- Una condizione di cui volevo comunque informarti. - rispose il demone: - Dunque? -
- Accetto. - disse Jack, la voce atona: - Per quel che vale... -
"Se le cose stanno così, non credo proprio che ne avrò bisogno.".
Sì, decisamente, il Regno dei Cieli non lo voleva affatto.
- La terza ed ultima condizione... - riprese il demone, stavolta accarezzando la rapa illuminata: - ... è il più grande peccato che possa essere commesso. Qualcosa che neppure tu, in vita, hai mai compiuto. Se lo commetterai, anche in questo caso, il nostro precedente patto sarà spezzato e tu verrai divorato dalle fiamme degli Inferi. -.
Jack sbattè le palpebre: - Il più grande peccato...? - ripeté.
- Uccidere. -.
Ogni cosa parve fermarsi.
Deglutì, piano.
Quella parola gli risuonava in testa, sinistra, sempre più forte.
"E' vero..." ricordò: "... io non ho mai ucciso.".
- Qualora tu strappassi la vita ad un essere umano... - pronunciò il demone: - ... attraverso altre mani o attraverso le tue stesse mani, cadrai all'Inferno. Fosse anche l'umano più malvagio che sia mai esistito, la sua morte per tua mano ti condannerà. - sorrise: - Accetti anche questa condizione, Jack O' Lantern? -.
Jack esitò.
"Perché mi ha imposto una condizione simile?" si chiese. Ci riflettè: "Sa che non sono un assassino. Che motivo avrei di uccidere qualcuno, soprattutto ora?".
Guardò verso il locale da cui ancora uscivano rumori di festa, confuso: "... no, non ho intenzione di ucciderli. Li odio, ma non ho mai avuto intenzione di vendicarmi uccidendoli. Non ci sarebbe alcun gusto. Vederli terrorizzati è molto più appagante.".
Scosse la testa e tornò a guardare il demone: - Accetto. -.
- Il patto è stretto, dunque. - annunciò la creatura, soddisfatta: - Sii scoperto durante la notte di Samhain, strappa una vita, e cadrai all'Inferno. Dona il tuo aiuto senza secondi fini, e forse impietosirai quelli dei Cieli. - ridacchiò: - Vaga nelle tenebre, Jack O' Lantern, illumina la tua strada senza fine con una debole luce. Consuma il tuo cuore corrotto e perduto per sempre. -.
Con un ultimo sguardo al demone e al locale, Jack O' Lantern se ne andò, nelle ombre della notte, la via illuminata soltanto dal debole bagliore di una fiamma in una piccola rapa intagliata.

*

- Róisín! -
La bambina sobbalzò, gli occhi spalancati di colpo.
La porta della camera si aprì all'improvviso, facendo apparire l'alta e massiccia figura della signorina Abaigeal, il volto contratto in una smorfia stizzita.
- S-sì? - balbettò Róisín, abbassando piano la tazzina, fino a sentire il leggero rumore della porcellana sul piattino.
- Sei stata tu a ridurre in quello stato la camera di Alistriona, non è così? - tuonò la donna, avvicinandosi al tavolo in sole tre falcate, le braccia conserte come per impedirsi di piazzarle con forza sul suo povero faccino.
- La camera di Alistriona? - ripeté Róisín, esitante: - Non capisco di cosa stiate parlando, signorina Abaigeal... -
L'istitutrice inspirò a fondo, le narici dilatate, gli occhi ridotti a fessure: - L'armadio aperto. Tutti i suoi vestiti e le sue scarpe sparse per la camera. Lo specchio della toeletta imbrattato. Il cuscino sopra l'armadio. Le lenzuola appallottolate sotto il letto. Il materasso sul pavimento. Non ne sai proprio niente, Róisín? - sibilò.
La bambina scosse la testa con forza: - No, signorina Abaigeal! Ve l'assicuro, non è colpa mia! - si difese, giungendo le mani.
Lanciò dei rapidi sguardi a Michaelle e Liosibhe, ricevendo soltanto un'espressione spiazzata e una fronte aggrottata.
- Non è colpa tua, eh, Róisín? - la signorina Abaigeal sciolse le braccia, mostrando ciò che stringeva in un pugno: un nastro bianco.
- Questo non appartiene ad Alistriona. - disse la donna, facendolo oscillare davanti ai suoi occhi: - E, devo dire, somiglia molto al nastro con cui sei solita legarti i capelli, Róisín. Sbaglio o, casualmente, il nastro che indossi ora è uno di quelli di Michaelle? -
"... dannazione." Róisín deglutì: "Ecco dove l'avevo perso. Lo sapevo. Speravo di recuperarlo prima che lo scoprissero...".
Con la coda dell'occhio, si accorse che Michaelle era sbiancata, lo sguardo atterrito sulla signorina Abaigeal, che la guardava con una punta di sospetto.
"Oh, no..."
- Michaelle non c'entra niente! - saltò su, preoccupata: - E' vero, sono stata io a ridurre in quel modo la camera di Alistriona. Ma Michaelle è innocente! Lei mi ha soltanto prestato uno dei suoi nastri, non sapeva che io l'avessi perso! - quasi urlò, sentendo le guance farsi sempre più calde.
L'istitutrice fece schioccare le labbra, irritata: - Per stavolta ti crederò, Róisín. Del resto, era abbastanza ovvio che la colpevole fossi tu. Nessun'altra fanciulla è così insolente e selvaggia. -.
Róisín guardò la donna negli occhi, sentendo qualcosa bruciare all'altezza dello stomaco: non era la prima volta che le venivano rivolte parole simili, ma non era mai bello sentirle.
- Osi guardarmi? - la voce dell'istitutrice la fece sobbalzare di nuovo, la consapevolezza di averla fissata con sguardo di sfida la colpì come una pallonata in pieno viso. Deglutì di nuovo, serrò i pugni, preparandosi a ciò che sarebbe sicuramente successo.
- Mostra i palmi, Róisín. -
Con un profondo respiro, la bambina portò avanti le braccia, schiudendo piano le mani, stringendo i denti.
La cane nell'altra mano della signorina Abaigeal fendette l'aria, colpendole i palmi con uno schiocco deciso.
Róisín premette la lingua contro il palato, sforzandosi di non gemere: "Posso sopportarlo. Non fa così male. Non fa così male. Non fa così male.".
Un altro colpo.
Un altro.
Un altro ancora.
Il quinto colpo le fece chiudere gli occhi di scatto, per impedire alle lacrime di uscire; nel farlo, però, udì un gemito sfuggirle dai denti serrati.
- Insolente e selvaggia. - la cane fendette di nuovo l'aria, stavolta per allontanarsi: - Se continuerai così, dovrò passare a metodi di correzione più severi. -.
Róisín riaprì lentamente gli occhi, riportando, piano piano, le mani al petto. Sentiva i palmi pulsarle dolorosamente, faticava a chiudere le dita, sentiva tirare la pelle delle estremità inferiori. Non era una sensazione nuova. Ma faceva sempre male.
- Michaelle. Liosibhe. -
L'istitutrice guardò le due ragazze ai suoi lati, la voce improvvisamente ferma, il portamento dritto ed elegante, come se tutto quello non fosse mai successo: - Vi sconsiglio di continuare a frequentare Róisín. Almeno fino a quando non imparerà l'educazione o, semplicemente, il normale vivere tra la gente civile. Voi siete fanciulle colte e raffinate, allontanatevi da quel piccolo demonio. - alzò il naso, rivolgendo alla bambina un'occhiata di puro disprezzo: - Quanto a te, Róisín, mi auguro davvero che tu possa crescere e questa tua irriverenza sia solo frutto della tua giovane età, come si ostina a dire la signora Madre. Entro stasera, esigo che la camera di Alistriona sia sistemata. E' tutto. -.
Lasciato cadere il nastro bianco di Róisín sul tavolino, la signorina Abaigeal voltò loro le spalle e se ne andò, richiudendo la porta.
Nella stanza scese il silenzio.
Liosibhe sospirò, infrangendo quell'improvviso velo di tensione: - Perché non ti sei scusata? - domandò, pacata, riprendendo a sorseggiare il suo the.
Róisín la guardò, altrettanto tranquilla: - Perché Alistriona è una sciocca damina vanitosa. Non fa altro che vantarsi di quanto sia bella, di quanto siano morbidi i suoi capelli, di quanto siano brillanti i suoi occhi, di quanto siano raffinati i suoi abiti, di quanto sia brava, di quanto sia bella, di quanto sia educata, di quanto era così ovvio che i ricchissimi signori O' Leary avrebbero scelto lei! Perché lei è la più bella, la più brava, la più educata! - riprese il suo nastro abbandonato sul tavolo, con un movimento secco: - Quindi noi tutte dobbiamo venerarla e baciare la terra su cui cammina. Perché lei diverrà la bellissima, bravissima, educatissima, ricchissima Alistriona O' Leary, meravigliosa rampolla del casato O' Leary! - fece schioccare la lingua: - Talmente bravissima da non saper neppure riordinare la camera da sola. Sono sempre quelle tre poverette che continuano ad andarle dietro a fare tutta la fatica. Ma la signorina Abaigeal non vede niente, no, perché lei sarà la bellissima, bravissima, educatissima, ricchissima Alistriona O' Leary, quindi può sputarci in faccia e noi non abbiamo alcun diritto di opporci. -
- Róisín, calmati. -
Sentì la mano affusolata di Liosibhe sulla propria spalla, la rabbia andò scemando; non appena si rese conto di aver alzato la voce, sentì le guance andare a fuoco, il suo sguardo venne calamitato dal pavimento.
- Hai ragione. - le disse la ragazza, senza scomporsi: - Ma, proprio per questo, non devi cedere alle sue provocazioni. Comportati come una brava fanciulla educata e andrà tutto bene. -.
Róisín trasse un profondo respiro: - Fosse solo Alistriona... - mormorò, un filo di voce.
Alistriona era solo una delle tante. La più in vista, in quel momento, perché sarebbe andata in adozione alla ricca famiglia O' Leary. Ma tutte le altre fanciulle dell'orfanotrofio erano, chi più chi meno, come lei.
Ogni volta sentiva i loro sguardi imprimersi a fuoco sulla sua pelle, quasi cercassero di bruciarla, di scacciarla.
Non aveva mai capito perché, quando tutto fosse iniziato. Poteva andare indietro con la memoria quanto volesse, ma era sempre stato così. Ricordava vagamente i primi dispetti - quando non aveva più trovato le scarpe, o la biancheria, o il cuscino -, ricordava quando aveva iniziato a reagire con altrettanti dispetti. Soltanto che loro, dopo un po', avevano smesso: Róisín aveva continuato.
Era per questo che la signorina Abaigeal la vedeva come una mocciosa irrequieta: Róisín non era capace di sostenere una di quelle conversazioni, quelle in cui tutte, sorridenti e beneducate, lanciavano terribili frecciatine alle altre - a lei, soprattutto -, insinuazioni crudeli, insulti coperti di miele; lei non riusciva a rispondere a tono, taceva e faceva finta di niente, le ignorava, le lasciava parlare, sanguinava silenziosa ad ogni colpo inferto; poi si vendicava sui loro abiti, sui loro letti, sulle loro camere.
Róisín era una bambina maleducata, incivile, senz'altro frutto marcio di una volgare prostituta e di un rozzo ubriacone ignorante, sicuramente aveva ereditato le qualità dei suoi genitori: la povera signorina Abaigeal cercava disperatamente di ricondurla sulla retta via, ma il sangue sembrava essere più forte della civilizzazione.
Tutte le altre fanciulle erano damine eleganti e raffinate, giovani donne che, un giorno, sarebbero state splendide dame, mogli e madri, meravigliosi frutti maturi che le famiglie desiderose di un'erede avrebbero potuto cogliere.
Michaelle e Liosibhe erano le vittime di Róisín. Entrambe erano da poco entrate nel mondo delle donne, ma la sua vicinanza rischiava di corromperle.
Non era la prima volta che la signorina Abaigeal consigliava loro di allontanarsi dalla piccola vergogna dell'istituto.
- Tu non hai fatto nulla di male! - la voce di Michaelle la fece voltare verso di lei, trovandola con le guance arrossate, gli occhi lucidi: - ... o meglio, sì, hai fatto qualcosa di male. - si corresse, mordendo appena un labbro. Il suo sguardo si fece deciso: - Ma Alistriona se lo meritava! La signorina Abaigeal è troppo cattiva, con te! -
- Non urlare. - la interruppe Liosibhe, impassibile: - Se la signorina Abaigeal ti sentisse, anche le tue mani si ritroveranno arrossate. -.
Róisín abbassò lo sguardo: "... non voglio che Michaelle e Liosibhe vengano trattate come me.". Si sentiva in colpa. Non per ciò che aveva fatto - l'avrebbe rifatto altre mille volte -, ma per ciò che sarebbe potuto succedere a loro due, in futuro.
Sapeva che, quando i gentiluomini e le gentildame venivano a far loro visita, la signorina Abaigeal li indirizzava verso le fanciulle più onorevoli e li allontanava dalle meno raffinate.
"Se rimangono con me, rischiano di non essere adottate." deglutì, con un tremito: "E rimarrebbero qui per sempre, come istitutrici, solo per colpa mia. Loro non hanno fatto niente.".
Loro sapevano rispondere come delle vere gentildonne. Erano belle, educate. Era felice di averle come amiche, di trovare sempre il loro calore quando aveva freddo.
Ma, proprio perché loro erano così buone con lei, non poteva costringerle a sacrificarsi per lei.
- Forse... - sentì gli sguardi delle due ragazze su di sé: - ... -
"La signorina Abaigeal potrebbe avere ragione. Dovreste allontanarvi da me. Sarebbe meglio per tutte, credetemi. No, non vi preoccupate, starò bene. So badare a me stessa! Sono una piccola selvaggia, dopotutto, no?"
Era facile.
Doveva solo far arrivare i suoi pensieri alle labbra.
Era facile.
- ... dovremmo riportare le tazzine nelle cucine. - le labbra si curvarono in un sorriso: - Magari riusciamo a prendere anche qualche zolletta di zucchero! -.
Un sorriso apparve sul volto di Liosibhe, Michaelle scattò in piedi: - Sì! Andiamo! -.
Sentì la mano offesa avvolta dal calore delle dita di Michaelle, la sua risata.
"... non ce la faccio. Voglio avervi con me. Perdonatemi.".

- Sei bellissima, Lio! -
- D-dici? -
Liosibhe avvampò, cercando di nascondersi dietro il ventaglio bianco, lo sguardo che si ostinava ad evitare i loro.
Michaelle rise: - Certo! I duchi Magee non potevano scegliere fanciulla migliore! - le fece fare una piroetta, Róisín applaudì.
Liosibhe le guardò, gli occhi chiari erano lucidi, quasi cercasse di trattenere le lacrime: - Tornerò a farvi visita. - disse, con un filo di voce spezzata.
Róisín sorrise, inclinando la testa di lato: - Ti aspettiamo, allora. -.
Dopo un attimo di silenzio, la ragazza le mise una mano sulla spalla, rivolgendole un sorriso a metà tra l'esasperato e il divertito: - Cerca di non fare troppi dispetti. Va bene, Róisín? -
Lei si sentì arrossire, un labbro finì, nervoso, tra i suoi denti: - ... sì, Liosibhe. Vedrò cosa posso fare. - ridacchiò, la mente che volava alla sfuriata di quella stessa mattina, quando la signorina Abaigeal era andata su tutte le furie per via delle lenzuola piene di zucchero della sua vicina di stanza.
- Róisín. - il suo sguardo fu catturato dagli occhi azzurri di Liosibhe, preoccupati: - Qualsiasi cosa possano dirti, ricordati che non sei inferiore a nessuna. - l'ombra di un sorriso attraversò le sue labbra: - Non aver paura. Mai. -.
Qualcosa colpì il cuore di Róisín. Talmente forte da farla tremare per il contraccolpo, da bloccarle la gola, da mozzarle il respiro. Faceva male. Troppo. Sentì gli occhi bruciare, inumidirsi.
Afferrò le braccia di Liosibhe, la fronte contro il suo petto, sforzandosi di non rovinarle il prezioso abito bianco con le sue lacrime.
"Sta andando via."
Era stata quella consapevolezza a farle male. Erano stati giorni di preparativi ma solo in quel momento, solo dopo aver sentito quelle che sembravano troppo parole d'addio, aveva capito davvero.
"Non voglio che se ne vada!" tremò: "Non voglio! Io... io non posso..." singhiozzò.
La mano guantata di Liosibhe sulla sua spalla.
Alzò lo sguardo.
Lei sorrideva: - Non sarà per sempre, Róisín. E ricorda quello che ti ho detto. - le accarezzò una guancia: - Non sei inferiore a nessuna. Possono chiamarti "selvaggia", "insolente", "maleducata", "demonio". Ma chi sono, loro, per dire questo? -.
Sentì caldo. Le braccia della ragazza erano strette attorno alla sua schiena, i capelli le solleticavano il viso.
Con un tremito, ricambiò l'abbraccio.
- Non sei inferiore. Non avere paura. -.

Avrebbe compiuto quattordici anni tra cinque mesi.
Il suo primo compleanno da sola.
Michaelle aveva seguito Liosibhe: sei mesi dopo l'adozione di quest'ultima, un'altra famiglia nobile aveva visitato l'istituto, posando gli occhi sulla ragazza dai lunghissimi codini.
Quando l'aveva salutata, Róisín aveva sentito qualcosa, dentro di sé, spezzarsi, forse in modo irreparabile.
Michaelle era dolce, ingenua, la sua mente era ancora semplice e infantile: con lei poteva giocare, ridacchiare dei dispetti che faceva alle altre fanciulle; potevano dormire nello stesso letto, chiacchierare fino all'alba, sottovoce, zittendosi di colpo quando sentivano i passi della signorina Abaigeal nel corridoio; poteva piangere sulla sua spalla, quando veniva chiamata "demonio", "mostro", quando il rossore sui suoi palmi e dietro le cosce faceva troppo male.
- Tornerò a trovarti. - aveva detto, con un sorriso malinconico, mentre scendeva elegantemente le scale dell'orfanotrofio, verso la carrozza che l'avrebbe portata nella sua nuova casa.
Liosibhe non era più tornata a far loro visita.
Erano mesi che non sapeva più nulla di Michaelle.
Erano mesi che si lasciava trafiggere in silenzio, che fingeva di non sentire cosa dicevano di lei.
Ora che non c'era più lo sguardo fermo e deciso di Liosibhe ad intimorirle, ora che non c'era più l'abbraccio gentile di Michaelle a consolarla, sembravano in qualche modo più libere.
- Vedete, la luce da sola è meravigliosa. - disse Dáirine, pacata: - Tuttavia, quando c'è una zona d'ombra, essa risalta molto, molto di più. Non trovate? -.
Le altre ragazze annuirono.
- Ovviamente, deve trattarsi di una luce purissima. - aggiunse Eilise: - Altrimenti, rischia di essere insozzata. -
- Soprattutto se l'ombra è particolarmente sudicia. - le diede ragione Dáirine: - Ma, poverina, forse non è colpa sua. E' l'assenza di ogni cosa, non si può aspettare che abbia delle qualità. -
Le altre annuirono di nuovo.
- Vero, vero. - concordò Eilise: - E' che ha anche il sangue sporco. Se il suo corpo si tiene in vita solo grazie a sudicia acqua di fogna, non si può pretendere che il risultato sia ottimale. -
Róisín strinse i pugni: "Stai calma." si disse, inspirando a fondo: "Stai calma, Róisín. Stai calma. Stai calma.".
- Devo dunque dedurre... - riprese Dáirine: - ... che il calore che emana è dovuto all'acqua di fogna? - aprì il ventaglio, sventolandosi: - Oh, Cielo, non sapevo che i nostri sotterranei ribollissero! Spero davvero di non bruciarmi le piante dei piedi! -
Le altre fanciulle risero, composte, le labbra pudicamente nascoste dietro i loro ventagli.
Róisín aprì il proprio, sventolandosi per recuperare un po' d'aria: si sentiva soffocare. Sentiva un calore terribile invaderle il corpo. Lo sentiva premere contro la testa, contro lo stomaco, contro la gola. Trasse un profondo respiro, trovando una briciola di sollievo, per pochi istanti.
- Non so se trovarla una cosa positiva o negativa. - Dáirine scosse la testa: - Voglio dire, le malattie dei topi potrebbero essere trasmesse persino a noi. Insomma, guardate cos'è successo a quelle due poveracce! -
Róisín fermò il ventaglio.
- Liosibhe era perfetta, un angelo. Però è stata corrotta da quel piccolo demone malato. Stessa cosa per Michaelle: graziosa ninfa di poca ragione, certo, ma anche lei corrosa dagli artigli di quello scarto di Madre Natura. E' davvero una fortuna che siano state tratte in salvo, prima che la situazione degenerass- -
Dáirine cadde sul tappeto, tra le urla scandalizzate delle altre.
Róisín strinse il pugno ancora di più, le nocche pulsavano. Sul volto di Dáirine spiccava, rosso, un segno circolare.
- Continua ad infierire su di me! - esclamò Róisín, la voce usciva rotta, troppo acuta, il polso le tremava: - Continua a gettare fango su di me, mascherandolo da parole da gentildonna! Ma non osare infangare Liosibhe e Michaelle! -
- Aiuto! Aiuto! - strillò Eilise, correndo alla porta: - Róisín sta facendo del male a Dáirine! Aiuto! Aiuto! -
Róisín si voltò, sentì delle fitte agli occhi, tanto li aveva sgranati, il cuore che batteva con tanta, troppa forza.
- Cosa sta succedendo? -
La grande figura della signorina Abaigeal apparve nella stanza, lo sguardo si posò immediatamente su di lei. Non appena si accorse di Dáirine, cacciò un urlo che le fece gelare il sangue nelle vene.
- Mostro! Demonio! -
Uno schiocco.
Una guancia le bruciò, una lacrima cadde.
Un altro schiocco.
L'altra guancia bruciò, un'altra lacrima cadde.
- Signorina Abaigeal! -
La voce forte di una donna bloccò ogni cosa. Róisín aprì lentamente gli occhi - neppure si era resa conto di averli chiusi: nella stanza erano apparse altre due persone.
Una donna anziana, la signora Madre, avvolta nel suo abito monastico.
Un uomo alto, che Róisín non aveva mai visto. Ma, non appena incontrò i suoi occhi scuri, uno dei quali nascosto da un monocolo, sentì un brivido ghiacciato scivolarle lungo la schiena.
- Signora Madre! - l'istitutrice sembrò quasi sorpresa di vederla lì: - ... signor... Ben? - boccheggiò, incredula.
Quel nome attraversò la stanza in un coro di brusii.
Róisín deglutì: "Il nostro benefattore...?".
- Non aspettavamo una vostra visita, signore... - la voce della signorina Abaigeal era improvvisamente divenuta mielosa, disgustosa.
- Sono arrivato in un brutto momento. - non era una domanda, quella del signor Ben. Sembrava stupito, in qualche modo.
- Mi rincresce immensamente, signor Ben. - la signorina Abaigeal quasi si inchinò: - Vi parlai tempo addietro della grave macchia che sporca questo luogo così raffinato -raffinato grazie a voi, signor Ben- e, purtroppo, l'ho colta in un momento di pura e ingiustificata crudeltà verso una delle nostre più virtuose ospiti. -
"Ingiustificata? Virtuosa?"
- Il Fato ha purtroppo voluto che questo demonio mostrasse la sua più brutale natura proprio in concomitanza della vostra inaspettata visita. - stavolta, la signorina Abaigeal s'inchinò davvero: - Vi preghiamo umilmente di perdonare questo increscioso incidente. Questo sbaglio della Natura sarà punito severamente all'istante. Non curatevi di lei, signore. -
- Stava offendendo Liosibhe e Michaelle! - protestò Róisín, i pugni serrati, le unghie conficcate nella carne: - Stava- -
- Dáirine? Offendere? - l'istitutrice la afferrò per un braccio, una morsa dolorosa: - Sei arrivata al punto di accusare persone innocenti? La cosa è più grave di quanto credessi! -
- Non tollero modi così brutali, signorina Abaigeal. - la signora Madre si fece avanti, lo sguardo fermo. L'istitutrice sembrò come paralizzarsi.
- Concordo con la signora Madre. - annuì il signor Ben: - Non credo che una fanciulla alzi le mani senza motivo. Futile o grave che sia, deve esserci stata una provocazione. E poi, signorina Abaigeal... - in un istante, la sua mano guantata si serrò attorno al polso della donna, staccandola da Róisín: - "Demonio"? "Sbaglio della Natura"? Una donna dal linguaggio così brutale dovrebbe educare delle gentildonne? -
Róisín fece qualche passo indietro: percepiva ancora quel brivido sinistro, ma sentiva la più pura beatitudine nei suoi occhi.
Il volto impallidito della signorina Abaigeal, gli occhi sgranati, la bocca schiusa in un'espressione di puro timore, le altre ragazze indietreggiate, silenziose, incapaci di intervenire.
Il signor Ben lasciò l'istitutrice, la signora Madre lo raggiunse.
- Con il massimo rispetto... - disse la signorina Abaigeal, la voce soffocata: - ... temo vi stiate facendo incantare da questo faccino angelico. Non lasciatevi traviare dalle sue sembianze di angelo! Il demonio si nasconde anche dietro un paio di occhi azzurri e una cascata di capelli di grano! -
- Ora ascolteremo le versioni dei fatti di ciascuna di loro. - la interruppe la signora Madre: - In seguito, decideremo la punizione da infliggere a Róisín. Giusta o meno che sia la sua reazione, ha comunque colpito una fanciulla indifesa. Qualora si scoprisse che Dáirine ha effettivamente ferito verbalmente qualcuno, allora sarà anche lei ad essere punita. -
- Appoggio la signora Madre. - disse il signor Ben, serio.
Róisín sentì il suo cuore farsi più leggero, gonfiarsi, battere più forte. Un sorriso spontaneo fiorì sulle sue labbra.
"Forse..." si portò un pugno al petto, lo sguardo sull'anziana donna e sul loro finanziatore: "... forse...".
Sorrise.

- Puoi uscire, Róisín. - la signora Madre aprì la porta, permettendole, finalmente, di andarsene da quel buco.
Il vassoio colmo di cibo sembrò un miraggio, un qualcosa a cui non era possibile credere, una sorta di leggenda.
Róisín vi si avventò, azzannando senza alcun riguardo una sostanziosa fetta di formaggio, poi del pane. Il suo stomaco gioì, sentì le forze tornarle, assaporò ogni pietanza, per quanto masticasse talmente veloce da mischiarle, riuscendo a non soffocarsi per puro miracolo.
La signora Madre si sedette sulla sedia accanto alla sua, attendendo pazientemente che finisse.
Róisín rallentò la masticazione.
Il suo cuore si era fatto pesante, di colpo.
La signora Madre non aveva potuto fare niente per impedire alla cane di abbattersi sui suoi palmi, dietro le sue cosce, per impedire alla signorina Abaigeal di rinchiuderla in una stanza piccola e buia, a tutti gli effetti una cella, dando ordine alle cuoche di offrirle soltanto una disgustosa zuppa dagli ingredienti ignoti e una brocca d'acqua.
Tutte le ragazze avevano testimonato.
Róisín si era avventata contro Dáirine senza alcun motivo, colpendola con violenza e urlandole contro parole terribili e volgarissime, che non avevano avuto la pudicizia di riportare. Dáirine stessa aveva confermato tutto, nascondendo il volto in lacrime in un fazzoletto.
Durante la sua permanenza nella stanzetta, Róisín aveva ricevuto due volte la visita della signora Madre.
- Non credo tu abbia attaccato Dáirine senza motivo, come affermano le altre. Cos'è successo davvero, Róisín? -
- Dáirine stava offendendo Liosibhe e Michaelle. -
- Cosa stava dicendo? -

Róisín ripeteva sempre le stesse parole. Non aveva mai cambiato versione, le frasi che riportava erano sempre le stesse.
- Stava offendendo anche te, dunque. -
- Sì. Ma quello lo fanno sempre. Tuttavia, non avevano mai infangato Liosibhe e Michaelle. Non voglio che inizino a farlo. -

La signora Madre non era l'unica ad essere giunta.
Anche le altre le avevano fatto visita, pur rimanendo dietro la porta.
- Che squallore, Róisín. Dico davvero. Tu sapevi che sarebbe arrivato il signor Ben, vero? Per questo hai inscenato tutto quello. Speravi di portarlo dalla tua parte, non è vero? Sei davvero un orribile demonio. -
- Puoi ingannare una povera anima pia come quella della signora Madre, puoi ingannare il povero signor Ben con il tuo aspetto da angelo, ma lo sappiamo tutti che sei una creatura infernale emersa dalle fogne. -
- Perfida, ingannatrice. Sei disgustosa, Róisín. -
- Cosa pensi di fare, Róisín? Vuoi ucciderci? Ora che non ci sono più le tue bambole contaminate, vuoi liberarti di noi? Solo perché non cadiamo sotto i tuoi sortilegi? -
- Sapevo che eri una strega! Un demonio! -
- Questo luogo ti si addice, Róisín. Dovresti sentirti a casa. -
- Sarebbe molto meglio se tu sparissi. -

Abbassò il bicchiere.
Guardò il muro d'innanzi a sé - bianco, freddo -, incapace di incontrare lo sguardo dell'anziana.
- Io... - sussurrò: - ... sono... una persona malvagia. -.
Silenzio.
- Perché dici questo, Róisín? - la voce della signora Madre era ferma, come sempre. Non un accenno di tremore. Non una nota d'accusa.
- ... me lo dicono tutti. - gli occhi le facevano male. Troppo male. Li chiuse, piano. Aveva recuperato un po' di forze, ma si sentiva comunque stanca. C'era qualcosa di troppo pesante che le schiacciava il cuore, che la soffocava.
Forse era quella consapevolezza.
Aveva riflettuto, mentre era prigioniera.
Non potevano esserci altre spiegazioni.
- Io non sono una brava fanciulla. - mormorò, stringendo la stoffa della gonna: - Non ho un eloquio raffinato, non ho un portamento elegante, non so sostenere un discorso con le altre. Faccio tante cose cattive. Rovino le loro cose, le loro camere. So che sono cose cattive, ma non mi sono mai pentita. Mai. Lo rifarei altre mille volte. Io sono felice di fare tutto questo. Anche Dáirine... - riaprì gli occhi, improvvisamente bisognosa di guardare l'anziana negli occhi, come per sostenersi, per appoggiarsi: - ... io non sono pentita di ciò che ho fatto. Lo rifarei. -.
Strinse i denti, sentì le proprie mani tremare.
- Io... - si strinse nelle spalle, gli occhi le bruciavano: - ... sono davvero un demonio come dicono. Lo dicono tutti, tutti. Forse ho davvero, senza volerlo, incantato Liosibhe e Michaelle? - qualcosa di caldo le scivolò lungo le guance, facendola trasalire: - Io non... io non voglio fare del male a Liosibhe e Michaelle... forse... è un bene che siano andate via? Forse- -
- Forse stai dicendo un mucchio di sciocchezze, Róisín. -.
Ogni pensiero si interruppe.
- ... cosa...? - sussurrò la ragazza, incapace di distogliere lo sguardo dalla donna che aveva accanto, dalla sua espressione seria e decisa.
- Le altre fanciulle sono forse Dio, Róisín? -
A quelle parole, lei si ritrasse, la schiena premuta contro lo schienale della sedia: "Parole simili da una suora?" pensò, spiazzata.
- N-no. - rispose, disorientata.
- La signorina Abaigeal è forse Dio, Róisín? -
Schiuse le labbra, incapace di credere a ciò che udiva: - No! - rispose, forse con un po' troppa foga.
- Ecco. - le sue piccole mani furono prese da quelle grandi dell'anziana, un leggero sorriso apparve sul volto della signora Madre: - Nessun essere umano detiene la verità assoluta. Non le altre, non la signorina Abaigeal. E neppure io, così come neppure tu. -.
Delle carezze sul dorso di una mano. Róisín sentì il peso farsi sempre meno pressante, la confusione che aveva in testa andava via via stabilizzandosi. Ma niente di tutto ciò era scomparso completamente.
- Ma- -
- Se l'intero mondo puntasse il dito contro di te e ti chiamasse "demonio"... - la interruppe la donna: - ... allora saresti un "demonio", Róisín? -.
Schiuse le labbra, ma non uscì alcun suono. Non sapeva cosa rispondere. Dentro di sé sentiva solo confusione, una confusione troppo grande per poter azzardare qualsiasi passo.
- E poi, per quale motivo saresti una persona malvagia, Róisín? - l'anziana sospirò: - Perché fai i dispetti alle altre? -
- Ho colpito Dáirine! - quelle parole uscirono dalla sua bocca prima che potesse rendersi conto di averle pensate. Non se ne curò, andò avanti, sentendo un improvviso timore: - L'ho fatto volontariamente! E lo rifarei! Non sono pentita! -
- Sì. - la signora Madre alzò una mano, per poi posarla sulla sua spalla, leggera: - Ma perché hai fatto una cosa simile? Sia ben chiaro: è un atto negativo. E di questo ne sei ben conscia. Tuttavia... - le strinse la spalla: - ... l'hai fatto per Liosibhe e Michaelle. Non per te. Per loro. - scosse la testa: - Quale persona malvagia abbasserebbe lo sguardo di fronte ad attacchi contro se stessa? Quale persona malvagia raccoglierebbe il proprio coraggio per difendere le persone a cui vuole bene? Quale persona malvagia sarebbe in grado di voler bene? -.
Un tremito.
Schiuse le labbra, sgranò gli occhi.
"Però... però... io..."
Abbassò lo sguardo: - Ho comunque fatto delle cose cattive. -
- Il perdono. -
Róisín rialzò gli occhi, perplessa. La signora Madre, stavolta, sorrise davvero: - Non esiste nessuno che non può essere perdonato. Se il suo cuore è pentito, il perdono giungerà. -
- Ma io non sono pentita! -
- Non sarà Dáirine a placare la tua inquietudine. -
Róisín sbattè le palpebre, non capendo.
La signora Madre trasse un profondo respiro: - Se Liosibhe e Michaelle venissero a sapere ciò che hai fatto e se si arrabbiassero, allora saresti pentita. Se Liosibhe e Michaelle ti lodassero, tu avresti la certezza di aver fatto una cosa giusta. Di averle difese. - tolse la mano dalla sua spalla, indicandola: - Sei spaventata. Ma perché hai paura di aver sbagliato. Di non aver fatto la cosa giusta per loro. Nessuna persona malvagia avrebbe simili pensieri. Una persona crudele sarebbe qualcuno che attacca una persona indifesa, più debole, che non le ha fatto assolutamente niente, senza alcun rimpianto, solo per proprio divertimento. -.
Róisín trasalì, nel rendersi pienamente conto di ciò che volevano dire quelle parole. Sentì le guance più calde, si portò una mano alla bocca, soffocando un singhiozzo.
- Tu hai un cuore buono, Róisín. - sentì la mano della donna sulla testa, dolce e materna, come mai l'aveva sentita. Chiuse gli occhi, non sapeva se per timore o per altro. Dentro di sé, però, di quell'emozione negativa, pressante, caotica, non c'era più traccia.
- Non è da dispetti infantili o da comportamenti poco raffinati che si vede una persona malvagia. Anzi. Poche persone sarebbero capaci di sopportare in silenzio frecce velenose, non per debolezza, ma per forza. -
- Forza? - Róisín riaprì gli occhi, due lacrime scivolarono lungo le guance accaldate.
- Se sei stata in grado di reagire, non hai ignorato le crudeltà a te rivolte per debolezza. Tu sei forte, Róisín. O, forse, solo terribilmente sciocca. -
Stavolta, Róisín si sentì arrossire per tutt'altro motivo.
- So che è difficile. - mormorò la donna, rivolgendole un altro sorriso caldo: - Ma non è chi inferisce sugli innocenti ad essere il migliore. Sii forte, Róisín. Tu ne sei capace. So che saresti in grado di toccare le fiamme infernali senza riportare alcuna ferita. -.
Non ce la fece più.
Lasciò andare i singhiozzi, liberò le lacrime, nascose il volto tra le mani.
Non si curò di tenere la voce bassa. Non le importava niente.
L'unica cosa che sentiva e che le importava, in quel momento, era quella voce che le diceva di essere forte.
Quella voce che non la accusava, che aveva fiducia in lei.
"Io... io...".








Salve! ^^
E dunque, contro ogni mia aspettativa, sono finita con lo scrivere una LenxRin del tutto inaspettata. XD
Perché, sì, la LenxRin è una delle mie coppie Vocaloid preferite, ma... non avevo mai pensato a niente riguardante esplicitamente loro due, in ambito fanficcaro. °A°
Questa fanfiction è letteralmente nata per caso: conoscevo già Sadistic Pumpkin, ma non mi aveva mai colpita eccessivamente. Circa due settimane fa, la sentii di nuovo e mi piacque. Mi piacque molto. E mi sfuggì un: - Sarebbe bello farne una fanfiction... -.
Il risultato è questo.
Una oneshot.
Che oneshot non è stata più.
Dopo averla scritta, mi sono resa conto che forse era un pelino troppo lunga per un capitolo solo.
*Viene guardata malissimo*
E dunque, sì, quel "Song-fic" ha un suo senso di esistere. Non in questo primo capitolo, però. U.U""""

Parlando di questo primo capitolo...
Forse avete individuato, tra i chili di comparse varie, i personaggi-Vocaloid presenti; nel caso, ve lo rivelo direttamente: Jack e Róisín sono, ovviamente, Len e Rin; Michaelle e Liosibhe sono rispettivamente Miku e Luka; infine, il demone è il caro Kaito. *Ed è la seconda volta che fa un ruolo simile in una mia fanfiction.*
La storia è interamente *sta usando più avverbi del solito.* ambientata in Irlanda - per questo i personaggi hanno nomi&cognomi irlandesi *Ma no!* -, sia la parte di Jack che quella di Róisín - che, spero si sia intuito, avvengono in epoche diverse.
I titoli stessi - sia quello generale che quelli dei singoli capitoli - dovrebbero essere in irlandese: i capitoli sono semplicemente i numeri, il titolo dovrebbe significare "Fiori di zucca". Dovrebbe.

Riguardo la parte di Jack.
Essa non è altro che la leggenda di Jack O' Lantern [qualche informazione qui, qui e qui]; di mio ho praticamente solo aggiunto il contorno e il patto-a-tre-condizioni. U___U
Il gioco d'azzardo che fa Jack nel locale si chiama passadieci: semplicemente, si lanciano tre dadi insieme e il vincitore è colui che supera il numero dieci.

Riguardo la parte di Róisín.
Non credo proprio esistessero orfanotrofi in cui i nobili - addirittura i duchi - si recavano per adottare gentilfanciulle (?) cresciute appositamente.
L'ambientazione non ha alcuna pretesa storica, è una cosa che ho deciso di inserire io nonostante appaia piuttosto bizzarra. U.U"
La cane, invece, è una cosa realmente esistente: si tratta di un bastone di canna usato tempo addietro (e, in alcuni posti, anche oggi) per le punizioni corporali negli istituti. Solitamente ci si limita a colpire i palmi delle mani, oppure dietro le cosce, sul o sopra il sedere; molto più di rado sulle spalle o sulla schiena.

Come già detto, la storia è al 99% ispirata/tratta d/alla misconosciuta canzone Sadistic Pumpkin (quindi, sì, se vi vedete il video e leggete la traduzione, vi spoilerate il 99% della trama.).
Che non parla di cose carine&coccolose.
Ho scelto il rating Arancione, ma ho ancora svariati dubbi sull'eventualità di alzarlo. .-.

Suddetta storia è dedicata a Tayr Soranance Eyes, che tempo fa mi fece conoscere questa canzone, che me la fece risentire qualche giorno fa e che, a prescindere da cosa io le proponga, riveste sempre il ruolo di beta/sostegno morale. *O* *patpat*

Quindi, sì, questo è, a conti fatti, solo il "Prologo". *Chiunque passi di qui ha un brivido, non necessariamente positivo.*
Tuttavia, la storia è già interamente scritta. U.U"
Probabilmente è melensa. Probabilmente c'è filosofia (...) spicciola. Probabilmente Róisín sembra uscita da un Classico dell'Ottocento con Povera Protagonista Piccola Fiammiferaia (...?). Probabilmente ho delirato parecchio.
Prendetela per una bizzarra favola. Credo ci somigli un pochino. Vagamente. Forse. *si allontana piano piano*
In ogni caso, se ci sono critiche da muovermi o consigli da darmi, dite pure. ^^
  
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