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Autore: Alicegym    10/08/2013    0 recensioni
Stivi, Jack, Leo e Alice . Quattro amici che da soli non sono niente ma insieme fanno "Gli Smog", una band creata solo per divertirsi e magari intrattenere quei quattro gatti alla pizzeria di paese. Ma cosa succederebbe se un famoso produttore li scoprisse e li facesse partecipare a un concorso di musica internazionale? Semplice: il chitarrista conquistatore di ragazze, il timido e impacciato batterista, il suonatore di tromba e basso con l'amore dei fumetti e la bella ragazza capace solo di cantare, partono per una incredibile avventura a Londra, coinvolgendo cantati provenienti da tutta europa, colpi di scena e piccole storie d'amore
Genere: Commedia, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Delle cose MOLTO importanti:
1. uno mi dispiace che sia così corto ma devo finire di leggere le parti dopo (se no chissà quante errori di grammatica e inconguenze faccio nel racconto).
2. Vi avvertoI che tutta la storia è molto lunga. Su word mi è venuta 165 pagine e non l'ho ancora finita. "Uomo avvisato mezzo salvato". Andando avanti capirete perchè è così lunga.
3. Le frasi in
viola vuole dire che è in inglese! Ricordatevelo per il furuto, utilizzerò questo metodo in continuazione
4. Se riconoscete una delle canzoni (cosa che succederà sicuramente perchè molto famosa) che sono nel racconto ma i cantanti non sono giusti, ignoratelo e andate avanti. Face finta che sia come nel racconto. Ho dovuto fare questo perchè sono brava a scrivere storie ma non canzoni di sana pianta, per giuta in inglese... Se è presente nel pubblico qualche fan accanita di quell determinata band o cantante, scusate


«Voglio la colazione tipica» piagnucolò Jack mentre andavamo a prendere i nostri bagagli. Guardai il cielo coperto dalle nuvole.
«Quella è l’Irlanda, idiota» gli disse ridendo Leo.
«Siamo a Londra!» esclamai io, incantata, facendo una giravolta su me stessa mentre camminavamo, facendo roteare la borsa.
«Attenta a non colpirmi » mi disse Maurizio.
«Scusa Mau» mi scusai io con il ventitreenne fratello di Stivi, unico membro delle nostre famiglie a cui avevamo dato il permesso di accompagnarci. Un maggiorenne doveva venire con noi, perché eravamo tutti minorenni. Mau era molto diverso da suo fratello. Stivi era quel tipo di ragazzo che piace a tutte le ragazze, tiene molto al suo aspetto, è sempre solare e parla molto volentieri e senza problemi. Maurizio invece lo avevo sempre visto suoi libri e sempre timoroso su cosa dire. Non sembrava gli importasse particolarmente delle ragazze, e meno che mai di quello che la gente pensava di lui. Forse per questo si era tagliato i capelli rossi con un taglio piatto, fatti con una livella secondo me. Il giorno in cui lo conobbi, quando andai per la prima volta a casa Tempo, credevo che fosse un capo militare venuto a prendere Stivi in anticipo. Quando mi informarono che faceva parte della famiglia, ne fui felicemente sorpresa, contenta che non mi avessero portato via il mio migliore amico.
Quando riunimmo tutti i nostri genitori per dare la notizia dell’“ingaggio”, Mau si alzò in piedi dicendo convinto che ci sarebbe andato lui. Adoravo Mau e lo rispettavo molto. Ci avrebbe accompagnato fino agli studi, e poi sarebbe tornato in Italia.
Londra, per più di due mesi, solo con le tre persone che adoravo di più al mondo. Non credo che potesse succedermi cosa migliore.
Andammo al rullo dei bagagli dove prendemmo le quattro tonnellate di roba che ci eravamo portati. Ovviamente io, come brava ragazza, credo di essermi portata veramente tutto l’armadio, dopo aver fatto shopping per tutta l’estate, comprando vestito di ogni tipo e forma. Stivi, appena la vide, prese Giuliana da sopra il rullo. No, non immaginatevi una ragazza legata. Giuliana è solo lo strano nome che aveva dato alla propria chitarra preferita. Jack si era portato dietro tutte le trombe, l’armonica, che era ben custodita nella sua tasca, la chitarra e il suo basso di nome Lisa. In poche parole ognuno di noi, uscendo dall’aeroporto, portava un carrello pieno di roba.
Mi guardai intorno, mentre una leggerissima pioggia mi copriva la vista, alla ricerca dell’uomo che ci avrebbe accompagnato agli studi. Non sapevo nemmeno bene avremmo alloggiato, il sito del programma non era un gran che. Dopo un po’ che guardavo a destra e a sinistra, vidi un giovane ragazzo biondo, vestito in una strana divisa verde e un ombrello dello stesso colore, che mi guardava incessantemente. La cosa però che guardavo sbalordita era la bianca Limosine che era parcheggiata proprio dietro di lui. Possibile che Niall, o chiunque altro, ci avesse mandato una Limosine? Non poteva essere! Eppure il ragazzo non voleva togliermi gli occhi di dosso. Mi diressi verso la splendida auto. I ragazzi mi seguirono e sono in quel momento si accorsero della Limosine. Lo capì quando sentì “Madonna”, “Guardala” e “Cavolo”.
«Scusi. Ma questa è per noi?» chiesi timidamente in inglese, indicando la vettura. In quell’estate avevo studiato come non mai quella lingua, parlandola e capendola ormai perfettamente.
Il ragazzo però mi guardò incerto. Mi venne il dubbio se l’avessi detto giusto ma quando aprì la bocca per ripetere, sentì Stivi che mi chiamava. Io mi girai verso di lui che mi indicò un camioncino bianco sporco, con un grasso uomo accanto che teneva un cartello con scritto “SMOG”. Capendo che avevo appena fatto un figura di merda, mi coprì il volto con la mano, mentre sentivo piccole risate dai miei amici.
«Mi scusi. Mi scusi tanto» dissi velocemente io al ragazzo mentre gli altri andavano incontro al furgoncino.
«Non importa» si affrettò a rispondere lui con un solare sorriso. «Io sono Josh» mi disse porgendomi la mano. Io le la strinsi rispondendo con il mio nome. «Sei italiana?» mi chiese. Come aveva fatto? Si capiva così bene? Li ho detto anche il mio nome all’inglese e non all’italiana.
«Sì, come lo sai?»
«Si sente dall’accento».
«Ice, sbrigati» mi urlò Jack. Io annuì.
«Scusa devo andare» dissi al ragazzo iniziando a indietreggiare.
«Sì, d’accordo. Ma che te ne pare se una volta ci vediamo?» Rimasi un secondo ferma, incerta sul da farsi.
«Non credo sia il caso. Resterò qui per poco» mentì dolcemente, ripetendo a pappagallo le frasi che Stivi mi aveva fatto imparate a memoria, sulla spiaggia, quando era sdraiato sulle mie gambe e io ammiravo il lucente colore rosso dei suoi capelli bagnati. Avevamo fatto una scommessa: se non avessi avuto bisogno di usare quelle frasi, potevo mettermi quando volevo il suo caldissimo maglione giallo e nero, che adoravo con tutto il cuore. Mi accorsi di aver appena perso e che dovevo fingere di essere la sua ragazza alla sua riunione di famiglia, per prendere un po’ in giro i cugini che avevano una cotta per me.
«Scusa ma devo proprio andare» aggiunsi velocemente. Ma lui mi prese velocemente per il braccio. Non mi stava stringendo, assolutamente. Se lo avessi voluto, potevo tranquillamente liberarmi.
«Dammi il tuo numero di cellulare almeno». Un tenero sorriso arrivo sul suo viso. Notai che aveva gli occhi azzurri e una cosa era assolutamente vera: avevo un debole per gli occhi azzurri. Aprì la borsa e presi una penna. Cercai un biglietto ma non lo trovai.
«Hai qualcosa su cui scrivere?» gli chiesi. Con incredibile velocità, e forse stupore che avessi accettato, cercò nelle tasche. Sembrava avessi paura che ci ripensassi. Nel frattempo Jack mi chiamò di nuovo. Rinunciando al pezzo di carta Josh arrotolò la manica e mi porse il braccio. Stesi bene la pelle e scrissi quei 10 numeri. Dopo di che gli sorrisi e scappai via.
«Li ha dato il numero di cellulare?» mi chiese esterrefatto Stivi mentre salivo sul furgoncino.
«Si, ma del bar ad un isolato da casa mia» gli riposi io, sbucando dal finestrino e facendogli l’occhiolino.

«Fammi capire bene… siamo a Londra da nemmeno due ore e a te, una trentenne sexy ti ha dato il numero e tu ne hai scritto uno falso sul braccio del primo ragazzo che hai incontrato?» Leo si strabiliò della velocità mia e di Stivi, mentre le risate invadevano l’auto. Ormai Stivi ci aveva fatto l’abitudine ma io, anche se mi succedeva spesso, non mi ero mai abituata. Mi imbarazzava e mi faceva sentire in colpa.
«Come fare a essere entrambi single?» ci chiese Leo.
«Se mi lego ad una ragazza, poi nego questo splendore a tutte altre. Non sono così egoista» rispose Stivi ridendo. «E tu che scusa hai?» disse Leo rivolto a me.
«Non ho trovato l’anima gemella» risposi io guardando fuori dal finestrino. Era vero in tutta la mia vita non avevo mai trovato un ragazzo che mi piacesse sul serio. Avevo avuto solo un ragazzo, Simone, in seconda media. Era lo sfigato della classe ma a me non importava. Era il primo ragazzo a cui ero interessata un minimo. Mi ci misi insieme ma la nostra relazione non durò nemmeno tre settimane perché credeva che lo stessi tradendo con Jack. Che idiota. Con lui, anche per la nostra giovane età, avevo dato solo qualche bacetto, e niente di più. Perciò era come se non avessi mai dato un vero e completo bacio, e ovviamente non avessi mai avuto un vero ragazzo.
«L’anima gemella? Ma se potresti avere chiunque. Tutti si innamorano di te» disse Jack. Non ci credetti, anche se non era la prima volta che mi diceva quella frase.
«Non è vero tutti» ribattei io divertita.
«A no?» disse Jack con fare malizioso. Non era assolutamente vero ma diciamo che prendevo spesso attenzioni.
«Voi non vi siete innamorati di me» ribattei io.
I tre scoppiarono a ridere.
Jack: «Solo perché ti conosciamo fin troppo bene». Stivi: «È vero che tutti sono innamorano di te» io sbuffai «Sei insicura ma non ne capisco il perché. Fai girare la testa alle persone quando passi per porta » disse credendo che non mi accorsi della citazione.
«Don't need make up
To cover up
Being the way that you are is enough » gli risposi cantando.
A quel punto anche Jack si unì al canto. Io e Jack: «Everyone else in the room can see it Everyone else but you » Io e Jack eravamo due fan dalla famosa boy band le Note Primarie. The Primary Notes nella versione originale. Lo chiamavo sempre con il nome tradotto, mi piaceva di più. Erano una band nata grazie ad un concorso canoro. In meno di una settimana si erano presi, con la loro voce fatata, una canzone d’amore e i bei visi, l’amore delle adolescenti di tutto il mondo. Molti gli avrebbero definiti commerciali, e forse era vero, ma a me piacevano. Gli ascoltavo molto ma diciamo che non ne ero fissata completamente come alcune ragazzine. Jack invece era un vero e proprio patito. Avrebbe aspettato ore in fila, sotto la pioggia, anche solo per vederci dieci secondi dal vivo, anche se era un boy band e per questo Stivi lo prendeva tantissimo in giro. Lui li odiava. Non che non li piacesse la loro musica. “Ascoltabile” la definiva. Ma non li piacevano loro come persone. «Facile cantare canzoni senza doverle scrivere» diceva lui. In verità non aveva tutti i torti ma a me non importava. Mi facevano ridere nei video e le loro canzoni mi trasmettevano carica e felicità, anche se banali. Per me erano diventati quello noi avremmo sempre desiderato essere, senza però averne mai la possibilità. Erano diventati famosi vincendo un famoso concorso musicale, come volevamo esserlo noi. «A me non fanno ne caldo, ne freddo» rispondeva distaccato Leo quando chiedevamo il suo parere. Comunque, quanto fosse l’odio o il menefreghismo di questi due, conoscevano il ritornello del loro primo singolo a memoria e la finirono di cantare con noi. Era proprio un bel momento.

«Siamo arrivati?» chiedevo impaziente all’autista. L’uomo, scocciato per l’ennesima volta che facevo la stessa domanda, alzò semplicemente il volume della radio, facendo finta di non avermi sentito.
«Smettila di ossessionarlo» mi disse Maurizio che gli sedeva accanto.
«Sì, ma non mi risponde» dissi irritata in inglese per far in modo che mi capisse.
«Siamo arrivati» disse l’uomo indicando uno degli edifici più grandi che avessi mai visto. Li passammo davanti e potemmo esaminare per bene il luogo dove avremmo passato le 10 settimane seguenti e sperando di uscirne con il primo posto in mano. Il palazzo era verde scintillante, come appena dipinto, e proprio sopra la porta principale c’erano tre lettere (ETB) enormi, bianche circondate da tantissime stelline gialle. Eravamo tutti con i nasi attaccati al finestrino. Non sapevo cosa sarebbe successo li dentro, ma sapevamo che la nostra vita sarebbe cambiata.
 
  
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