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Autore: Mary Mary    11/08/2013    0 recensioni
Soan, venticinquenne, ha passato gli ultimi sette anni in carcere per aver ucciso il padre.
La sua psicologa pensa che sia solamente un assassino, ma non è così che la pensa sua figlia, Chrystal, diciassette anni.
Quando Soan comincierà a frequentare la casa della psicologa per le sue sedute conoscerà Chrystal, e, nonostante lui sia un assassino, il legame tra di loro si farà sempre più stretto. E pericoloso.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Dangerous Connection

Prologo

 
Odiavo quell’uomo con tutto me stesso.
La sua non l’ho mai considerata una buona figura paterna, nonostante fosse biologicamente mio padre.
Ma potrebbe mai un buon padre uccidere la propria moglie, in un insensato momento di gelosia, a causa di un SMS ricevuto da un collega maschio di lei? A quanto pare sì, perché è esattamente ciò che accadde un giorno in cui io, un ragazzino con l’acne all’epoca, mi trovavo a scuola.
Avevo solamente quattordici anni quando trovai mio padre in cucina intento a smacchiare la propria camicia piena di sangue nel lavello. Del suo sangue, di quello di mia madre, la quale, mentre lui strofinava la sua inutile camicia, giaceva sul freddo parquet nella camera affianco.
Un assassino, ecco cos’era e come mi apparì da quel giorno.
Ma, quattro anni dopo, lo divenni anche io. Il suo assassino. Feci bene a sparargli e ora, a distanza di sette anni, non mi sono ancora pentito.
Scontai per tutti questi lunghi anni una pena per omicidio colposo e il mio avvocato cercò addirittura di far credere che io fossi pazzo, che avessi qualche problema mentale, pur di diminuire un po’ il mio tempo in gabbia. Il punto è che riuscì a convincere i magistrati veramente, aiutandosi dal fatto che avessi un leggero tic al dito indice della mano destra, il quale, tra l’altro, ho sempre avuto sin dalla nascita. Ovviamente non sono pazzo, né ho qualche problema mentale, il tic è dovuto dalla mia iperattività e dal mio frequente stress. In fondo chi non sarebbe stressato dopo aver visto il cadavere della propria madre steso a terra, dilaniato?
E’ anche questo il motivo per cui, sei anni fa, la prigione in cui pernotto (mi piace pensarla così) mi rifilò una psicologa; per quanto io mi ostinassi a dire alle guardie e al mio compagno di cella che fosse una rottura di coglioni, mi aiutò molto, sia nell’eliminare quasi del tutto il tic, sia per la mia aggressività.
Si chiamava Jennifer. Era una donna di mezza età in carne, ma non troppo, dagli straordinari occhi azzurri e dai lunghi capelli ricci, riccissimi, biondi. La consideravo una seconda madre.
Ovviamente sapevo che per lei ero solamente uno dei suoi tantissimi e pericolosi pazienti, ed ero anche a conoscenza che lei aveva una famiglia come quelle delle pubblicità fuori dal penitenziario. Non c’era modo che lei mi considerasse un figlio o, almeno, una persona importante.
Una volta, non ricordo quanti anni fa, Jennifer mi fece vedere una foto raffigurante i suoi due figli: un biondo bambino intorno ai quattro anni, assomigliante alla madre, e una bambina di pochi anni più grande del fratellino, intorno ai dieci anni, ma che era l’esatto contrario di Jennifer.
La piccola in questione avevo dei capelli lisci molto corti, ma non fu questo a stupirmi. Mi sorpresi del loro colore: nero, come la pece più scura che si potrebbe trovare in mercato. Anche gli occhi sembravano scuri, molto scuri, forse anch’essi neri. Era l’unica in tutta la famiglia che possedesse capelli e occhi scuri.
Strano pensai, ma non ci diedi molto peso in quell’epoca.
Ma tralasciamo l’argomento “Jennifer e la sua amorevole famiglia felice”.
Tra esattamente un mese uscirò da questa merda, ancora non ci credo che siano veramente passati ben sette anni. Sette anni in cui mi erano concesse solo due ore alla settimana di aria, sette anni in cui mi hanno rotto addirittura per tre volte qualche ossa a causa delle frequenti risse tra noi detenuti. Sopravvivenza la chiamano qui dentro.
Sono felice, finalmente tra poco tempo metterò il naso fuori dalle sbarre, fuori dall’intera prigione.
Però sono ancora considerato una mina vagante per la città, e credo facciano anche bene ad avere paura. Ho ucciso un uomo, mio padre, a sangue freddo, e non ho ancora avuto nessun pentimento fino ad ora, e credo mai lo avrò.
A causa di questo c’è pure il lato brutto della faccenda: dovrò continuare le sedute per altri sei mesi con Jennifer. OK, non è Jennifer che rappresenta il lato negativo della situazione, è suo marito, la sua famiglia. Infatti, lei non possiede un vero e proprio studio; lavora in prigione dentro una stanza a lei assegnata, ammobiliata solamente da un paio di poltrone messe una di fronte all’altra, divise da un tavolino di legno rotondo, uno scaffale contenente libri sulla psicologia e sulla criminologia, e infine una scrivania sotto l’unica finestra presente nella camera (tra l’altro anch’essa sbarrata).  Insomma, non è per niente uno studio di uno psicologo. Perciò dovrò andare due volte alla settimana per sei mesi a casa sua,  e incontrare di sicuro suo marito e i suoi due bambini.
Ora che ci penso dovrebbero essere cresciuti, credo siano già degli adolescenti. Interessante come situazione, no? Conoscerò il marito, il figlio,la figlia.
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-Signorina, sta bene?- mi chiese un bidello con una lunga barba bianca e un pancione da far invidia a una donna incinta.
-Benone.-
-La vedo un po’ pallida, devo accompagnarla in infermeria?- continuò il bidello, che assomigliava troppo a Babbo Natale.
-Sto benissimo, è il mio fondotinta che è cinque toni più chiari della mia pelle.- replicai ironicamente, seccata dalla presenza di quell’uomo.
Maledizione, proprio in un momento simile dovevano sbucare bidelli dappertutto? Non potevano scegliere di pulire i corridoi scolastici in un altro orario? Ad esempio alle quattro di mattina, ora in cui non potevano infastidire a nessuno?
Mi voltai e proseguì verso l’uscita sulle scale anti incendio, avendo cura di non essere vista più da nessuno; dopodiché uscì e cominciai a correre, scendendo i gradini a due a due. Arrivai nel cortile interno, in cui i docenti parcheggiavano le loro auto. Mi nascosi dietro l’unico albero presente e scavalcai la cancellata.
Più che una scuola sembra una prigione.
Mi misi a pensare inevitabilmente a mia madre, che lavora come psicologa in un carcere federale.
Chissà con che assassino o stupratore sta parlando in questo momento pensai.
Sfilai una sigaretta dal mio pacchetto di Chesterfield rosse e la accesi con il mio accendino, l’unico che non avessi ancora perso o che mi fosse stato per ora rubato. Continuai a passeggiare verso casa mia con lo zaino in spalla, guardando le vetrine e scalciando i pochi sassi per terra.
Dopo una ventina di minuti arrivai a casa mia, vuota al momento. Entrai in casa e preparai la caffettiera, per poi salire le scale e giungere in camera mia. Mi buttai a capofitto sul mio letto e solo allora vidi un bigliettino attaccato con lo scotch ad una cassa del mio stereo.

Tornerò dopo cena, devo sbrigare alcune faccende per quel paziente di cui ti parlavo fin da piccola. Non aspettarmi, e mi raccomando fai la brava!!!   xoxo Mamma!

Potrò finalmente avere tutto il tempo per curiosare nel suo ufficio! pensai immediatamente.
Scesi per spegnere la caffettiera, presi la tazza contenente il caffè e mi diressi velocemente nell’ufficio di mia madre, situato nello stesso piano delle camere da letto. Volevo assolutamente sapere qualcosa di più su quel paziente che mia madre aveva in cura da molti anni. Sapevo solamente che si chiamava Soan, niente di più.
Vabbè, non credo abbia tanti pazienti con questo nome.
Aprì il suo cassetto e cominciai a cercare sotto la “S”; dopo cinque minuti trovai due documentazioni sotto il nome di “Soan”. Ne eliminai subito uno, un certo Soan in cura da mia madre da solo due mesi. Doveva per forza essere l’altro.
Aprì il documento e rimasi a bocca aperta per circa venti secondi davanti alla foto del paziente.
Da come ne avevo parlato mia madre pensavo fosse molto più vecchio, e invece la foto rappresentava un ragazzo giovane, molto giovane. E anche molto attraente.
Nonostante avesse molti tatuaggi, persino sul viso, non c’era nessuna esagerazione in essi, anzi, debbi addirittura ammettere che gli stavano bene. Aveva una scritta sulla parte alta della fronte, e forse aveva anche un disegno lungo il fianco della mandibola, ma non ne ero sicura, data la scarsa qualità della foto. Infine, dalla maglia a V della divisa penitenziaria si notavano anche altri tatuaggi, forse delle ali.
I capelli, lunghi fino alle spalle e lisci, avevano una tonalità tra il castano chiaro e il biondo scuro e gli occhi erano verdi. Forse aveva un dilatatore al lobo dell’orecchio, ma, anche lì, non si capiva bene.
Dovrebbe fare il modello sussurrai, per poi voltare la pagina con foto e caratteristiche fisiche. Nella pagina successiva c’era il motivo per cui era in carcere.
Omicidio colposo.
OK, sarà pure bello come un dio, ma è pur sempre un assassino…
Eppure quegli occhi dicevano tutto il contrario. Ci sarà stato un motivo molto grave per far sì che un ragazzo, poco più grande di lei, uccidesse il proprio padre, addirittura in maniera così violenta.
Finirò male per tutta questa curiosità, ma… voglio assolutamente sapere qualcosa di più su Soan.


Foto Soan:


Angolo autrice:
Ciao a tutti/e! Questo è solamente il prologo, sper vi sia piaciuto! Recensite pure, non vi mangio! c:
E..Se ho fatto qualche imperdonabile errore grammaticale mi scuso già in anticipo :)
Il prossimo capitolo sarà proprio l'inizio di tutto, non so quando lo aggiornerò ma cercherò di fare presto.
Un bacio,
Mary.
P.S. Soan l'ho immaginato come il ragazzo nella foto sopra...E sì,  per chi lo non lo conoscesse é Bradley Soileau, famoso modello e DJ (trovarne uno così dove abito io! Ahaha).
  
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