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Autore: Yssel    11/08/2013    6 recensioni
-Shhh.-
Iniziò a ridere. Non di quella felicità che amavo, non dell’ allegria che gli portava la mia presenza, ma della pazzia che lo comandava. Rideva piano, sghignazzava, poi forte, e si copriva la bocca come se la sua preoccupazione di essere sentito accrescesse col tirare dei suoi muscoli facciali.
-Shhh.-
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Matthew Shadows, Synyster Gates, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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“La pazzia è come il paradiso.
Quando arrivi al punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire,
sei vicino al cielo.”
-Jimi Hendrix

 









 
 
 
 
 
Brian era impazzito.
Non sapevamo né come né quando, ma aveva perso il senno. Forse erano stati il fumo, le sbronze, lo stress, una botta alla testa, ma era impazzito. Non quelle pazzie da romanzi, quelle per le quali una persona arriva a fare tutto per un’ altra e ancora no, non quelle che riguardavano gli innamorati. Qualcosa, nel cervello di Brian, non andava. Non ero stato l’ unico ad accorgermene. Zacky lo aveva visto piegato su se stesso in studio di registrazione, una volta, e non è riuscito a tirarlo via dall’ angolo in cui si era cacciato. Diceva di averlo visto dondolarsi e tenere gli occhi serrati, diceva di averlo sentito mormorare qualcosa, che aveva paura, che non voleva essere preso anche lui.
Johnny lo vide spegnersi delle sigarette su un braccio ed urlare come un forsennato. Nonostante le urla e il male che si faceva, continuava, e il bassista aveva detto che non c’ era stato modo di distrarlo o farlo smettere, aveva dovuto chiamare suo padre.
Arin, non ne parliamo. Aveva timore a rimanere da solo con Brian, perché mi aveva detto di averlo visto mentre si scorticava letteralmente le dita fino a che non arrivava a staccarsi la pelle dalle mani. Mi aveva detto di averlo visto mentre si mangiava la pelle delle ginocchia, di averlo visto mentre si tagliava le nocche dei pugni ed i legamenti con un vetro rotto che aveva trovato a terra.
Michelle aveva detto che si era chiuso in camera sua, che non usciva più.
Con me aveva smesso di parlare.
La cosa andò avanti per mesi, noi tentammo in tutti i modi di andare a fargli visita, capire cosa gli fosse preso, ma non apriva mai la porta. Fino a quando io non la scardinai.
Pezzi di chitarra sul pavimento, il letto distrutto, sangue sulle pareti, strane lettere messe in fila che riportavano testi di nostre canzoni, Brian attaccato ad un muro, disteso su un fianco, una scia di macchie rosse che portavano a lui; trovammo questo. Fui l’ unico ad avvicinarmi- tutti gli altri rimasero sulla soglia della camera, Michelle scoppiò a piangere.
Provai a chiamare il chitarrista, ma non rispondeva. Feci un passo per volta, chiedendomi cosa diavolo avesse combinato, ma giuro, non avrei mai creduto di desiderare di essere rimato fermo a guardarlo da lontano. Lo voltai, piano, per scoprire che aveva le mani completamente martoriate ed intrise di sangue. C’ erano morsi, tagli, schegge di legno e chiodi che sfiguravano i tatuaggi, che cambiavano la forma di quelli che erano stati i migliori palmi di sempre. Aveva distrutto lui il letto, aveva usato lui i chiodi dello scheletro di legno, e ringraziai il cielo che fosse finita lì.
All’ improvviso, un tremendo fetore mi colpì dritto in viso. Brian non era uscito da quella camera per settimane intere, non sapevo dove ripiegarmi, non sapevo che nome dare a quell’ odore misto di sangue, lacrime e sudore, non sapevo con quale coraggio guardargli il viso.
Lo feci lo stesso. Aveva gli occhi spalancati e rossi, le guance umide e consumate, gli mancavano alcune ciocche di capelli e si intravedevano chiazze bianche nella cute, i denti erano macchiati di rosso e la bocca distrutta. Non diceva niente, respirava a fatica. Un conato di vomito cercò di allontanarmi, ma ero grande e grosso, dovevo fare qualcosa. Dissi agli altri di scendere al piano di sotto, così che potessi prendere Brian e trascinarlo in bagno. Per medicarlo, per lavarlo, per parlare con lui.
Arin filò via, Johnny e Zacky portarono via Michelle.
 
Non aveva opposto resistenza.
Brian se ne stava seduto nella vasca, ancora con gli occhi spalancati e il fiato corto, le mani fuori dall’ acqua come in segno di resa, i capelli appiccicati al viso. Io ero inginocchiato davanti a lui, volevo piangere. Matthew Sanders voleva piangere.
Tremai al pensiero che potesse essersi tagliato la lingua, ma l’ avevo vista fra le due arcate dentali mentre cercava di mormorare qualcosa, la avevo vista e non avrei voluto. Non lo riconoscevo più, aveva perso troppo peso e tutto insieme, doveva avere una qualche malattia alimentare, la febbre, e doveva avere gli intestini del tutto rotti. Sua moglie mi aveva detto chiaramente che non era mai uscito dalla sua camera, mi aveva chiaramente detto che non era andato in bagno, che non era andato in cucina, quindi non sapevo come Brian potesse anche solo aprire gli occhi. C’ era sicuramente qualcosa che non andava, non poteva essere così tranquillo.
Non potevo sopportare una tale visione, ma dovevo. Dovevo parlare con lui, con il mio amico, fargli delle domande alle quali non sapevo avrebbe risposto. In quel momento, però, non sapevo neanche se fosse capace di parlare. Guardandolo, sembrava un bambino spaventato. Il peggio era che non sapevamo, nessuno di noi, quando aveva iniziato a comportarsi così.
Gli passai la spugna sulla schiena, lavando via il sudore e il sangue, tirai un’ occhiata ai vestiti puzzolenti ed intrisi di rosso scuro che si erano ridotti ad accartocciarsi su loro stessi, a piegarsi e, man mano che il sangue si era solidificato, ad irrigidirsi. Come aveva potuto, il chitarrista, sopravvivere in quelle condizioni? Ma poi, avrebbe potuto avere una qualche infezione, si sarebbe estesa a tutto il corpo e probabilmente era già successo. Era stato dietro quella porta con le ferite aperte per troppo tempo, e chissà cosa altro aveva fatto.
Ricordando le scritte sulle pareti, adesso rabbrividivo. Brian aveva trasformato le canzoni che adoravo, che avevo scritto io, in tormento, in disgrazia, nel suo canto lugubre. Non era per quello che mi piacevano, non era per quello che le scrivevo. Non era così che volevo finisse.
Lo chiamai di nuovo, a voce bassa, lui allentò la tensione sulle palpebre e ricambiò il mio sguardo, senza alcuna espressione in volto. Un ciuffo nero gli tagliava in due la fronte, il resto dei capelli sembrava avvolgergli il collo morbosamente. Chiuse per un attimo gli occhi, io gettai la spugna nell’ acqua e, di conseguenza al mio movimento brusco nel farlo, dovetti sporgermi ad afferrarlo e fermarlo, perché iniziò a muoversi convulsamente, a scuotersi, a battere in modo troppo violento braccia e gambe sulla superficie dura della vasca.
Qualcosa, nel suo cervello, non funzionava più.
Lo strinsi al mio petto, non disse nulla. Si calmò dopo qualche minuto, sentendomi piangere. Ero io quello spaventato. Ero io quello che aveva perso il suo amico, ero io che lo stavo lavando come se lui non sapesse farlo da solo. Ero io quello preoccupato che, tra i singhiozzi, scrostava il sangue dal suo corpo rinsecchito, io che gli insaponavo i capelli, io che lo asciugavo mai distanziandolo da me e guardandogli le gambe tremare, io che gli curavo le mani, io che gli estirpavo i chiodi e le schegge dalla pelle. Ero io che sapevo come sarebbe andata a finire ed ancora, ero io quello che Brian fissava, curioso, come se non si fosse procurato da solo quel male. Si era torturato, e sembrava non sentire più il dolore.
 
 
 
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Lo portammo in una clinica psichiatrica per sapere cosa avesse, cosa gli fosse accaduto in testa. Lui non parlò mai. Non parlò per intere settimane, gli chiedevo di farlo ma non mi ascoltava. Toccò a me portarlo in macchina in quello che a mio parere era un manicomio, perché nessuno si offrì di farlo al mio posto, nemmeno suo padre.
Era pazzo. Non avrei potuto lasciare che suonasse su un palco in quelle condizioni e soprattutto, non poteva più. Non riusciva a muovere le mani, aveva spaccato ogni singola chitarra che possedeva, si era messo fuori uso da solo. Forse lo aveva fatto per quello, si era distrutto per farsi portare in quel manicomio. Aveva sempre puntato a braccia e mani, forse non voleva suonare più. Se fosse stato bene, però, lo avrebbe semplicemente detto.
Guidai per qualche ora, Brian era disteso sui sedili posteriori della macchina. Non dormiva. Non dormiva mai. Provavo a rimanere sveglio, e la minoranza delle volte che ci riuscivo avevo visto Brian stare a fissare il soffitto per tutta la notte. Giunsi alla conclusione che erano mesi che non dormiva. Lo stesso per il cibo, non mangiava più. Non beveva più, nemmeno l’ acqua. Non andava in bagno, nulla- e se non fosse stato pazzo, sarebbe morto. C’ era qualcosa di assurdo nel suo vivere. Era una presenza morta che mi ero occupato di curare, ma che non dava miglioramenti. Ciò che più mi faceva male, era che lui non faceva resistenza a niente.
Anche quando lo lasciai ai dottori e gli chiusero la porta della stanza davanti agli occhi. Anche quando me ne andai.
 
 
 
Erano passati sei mesi.
In sei mesi, l’ unico che due volte a settimana andava a trovare Brian ero io. Michelle ci aveva rinunciato, non si riconoscevano più l’ un l’ altro, e lo stesso era per Zacky, Arin e Johnny. Brian soffriva di amnesia, si rifiutava di collaborare per provare a rievocare il passato. Non sapeva più chi fosse Synyster Gates, non sapeva più chi era suo padre, non sapeva più che un tempo suonava.
La cosa strana era che si ricordava solo di me. E di Jimmy. Eravamo le uniche due ancore alle quali rimaneva attaccato, non voleva che la malattia si prendesse anche noi.
Aveva ricominciato a parlare. Pian piano, io e gli infermieri lo avevamo fatto reagire, dapprima con cenni della testa, poi con mugolii, poi con sillabe e infine con parole. Non aveva difficoltà, ma sembrava che la parte della testa che monitorava il linguaggio si fosse spenta per un periodo. I dottori mi dissero che aveva un aneurisma, ma anche che si era infilato qualcosa, sotto la sua pelle, che lo stava spegnendo. Dicevano che non ne sapevano l’ origine, dicevano che non sapevano cosa fosse, ma che si stava ingrandendo, che stava attaccando tutto il suo corpo. Non mi dissero che sarebbe morto, ma lo sapevo. Io ero l’ unico che riusciva a tenere acceso Brian. Ero l’ unico che, bene o male, poteva allungare l’ arrivo al patibolo, ma un giorno ci sarebbe arrivato comunque, e secondo me persino lui lo sapeva. Persino lui lo accettava.
 
Quel giorno era un giorno come tutti gli altri. Mi ero svegliato presto per poter andare a fare una visita al mio amico, in modo da tornare a casa per pranzo. Valary mi raccomandò di fare attenzione per strada, ma ciò che intendeva era di fare attenzione con Brian. Ormai tutti ne avevano paura, perché non sapevano cosa gli circolava nei pensieri, non sapevano cosa avrebbe potuto fare da un momento all’ altro. Credevano potesse avventarsi su di me, ed un minimo lo credevo anche io. Era diventato imprevedibile. Diceva cose strane,rideva, passava dall’ essere allegro al battere la testa al muro crollando in un pianto disperato nel tempo di un battito di ciglia.
Quando arrivai alla casa di cure ed entrai, tutti i ragazzi all’ entrata mi salutarono. Ero diventato quello che si usava definire “cliente abituale”, mi conoscevano anche i topi nelle tubature dell’ acqua. Fortunatamente, le persone che si occupavano di Brian non erano dei pezzi di merda, bensì gli davano quello di cui aveva bisogno. Gli medicavano le ferite ancora aperte, lo aiutavano a passeggiare in cortile e lo calmavano quando gli prendevano gli attacchi di risa isteriche. Nel complesso, Brian era tornato quello di un tempo, ma a volte le parole che uscivano dalla sua bocca mi inquietavano. Le sue risate, quelle mi davano motivo di realizzare che era pazzo sul serio. Solo ultimamente biascicava cose insensate e si atteggiava come uno dei peggiori malati mentali della storia, ma solo quando dovevo andarmene. Ero sicuro che sarebbe migliorato, che avrebbe smesso di comportarsi anche in quel modo prima o poi, ma ero altrettanto sicuro che, se mai fosse successo, sarebbe stato troppo tardi.
Salii le scale che portavano alla sua camera e mi sistemai i capelli che avevo fatto crescere sempre di più, al contrario dei suoi che ormai contavano un centimetro dalla cute, socchiusi la porta lentamente, per non spaventarlo, infine entrai. Mi vide subito, rizzò la schiena e si aprì in un sorriso sornione, uno di quelli che aveva ricominciato a fare da poco.
Si era messo esattamente a livello degli occhi, sulla parete davanti, un orologio che segnava il giorno e l’ ora, in modo che potesse prevedere il mio arrivo. L’ avevo trovata una cosa carina, gli infermieri mi avevano detto che pretendeva una doccia e dei vestiti puliti, altrimenti non sarebbe andato alle riunioni di gruppo che si svolgevano lì dentro.
Brian era furbo. Sarà anche stato pazzo, ma più furbi di lui non ne conoscevo. Alcuni mi dicevano che una conseguenza della pazzia era la genialità, che la mente del mio amico era sì ridotta a quella di un bambino, ma uno di quei bambini che riuscivano a risolvere un cubo di Rubic grazie alla loro ingenuità e nella semplicità che strutturava i loro pensieri. E Brian, per me, era questo: il mio piccolo bambino, quello al quale portavo sempre, di nascosto, una tavoletta di cioccolata fondente.
Presi subito una sedia, la mia sedia, e la trascinai fino al letto che il corvino aveva coperto con lenzuola nere, per poi sedermici su ed estrarre da una tasca del cappotto il cioccolato.
Ebbene sì, lo facevo davvero.
Le mani di Brian erano ancora graffiate e piene di cicatrici, delle volte gli scappava un morso a sangue e perciò c’ erano dei cerotti ad ornare le dita. Così come le parole, aveva riacquistato anche il tatto. Riusciva a tenere stretto qualcosa ma non per troppo tempo, in quanto i dottori avevano provato a ripristinare ogni legamento o muscolo che si era spaccato, ma non avevano potuto fare meglio.
La stanza in cui era chiuso sembrava quella che aveva da piccolo: gli avevo raccontato della musica che ascoltavamo, avevo tappezzato le pareti dei miei poster e lui era contento. Alcune volte lo vedevo che rimaneva ad adorarne qualcuno, lo vedevo che parlava alle figure di carta ed animava conversazioni da solo, a volte lo vedevo tornare lui. Avevo smesso di piangere, non avrebbe guarito Brian né avrebbe risolto tutti i problemi che aveva, ma le morse attorno al mio cuore erano difficili da far cessare. Perché ogni volta che sorrideva, ogni volta che faceva una battuta squallida, ogni volta che cantava con me, ogni volta che mi raccontava dei ricordi che aveva di Jimmy, ogni volta che piangeva in preda alla paura di nessuno sapeva cosa, il mio cuore soffriva. Ogni volta che gesticolava ed io gli guardavo i palmi fasciati o con nuove ferite aperte, ripensavo a quando lo avevo trovato in camera sua con quei chiodi conficcati nella carne.
Aveva ricominciato a dormire, a mangiare, bere, andare in bagno, e il fisico sembrava essersi stabilizzato. Aveva ripreso peso, il viso era più colorito, si vedeva che era cambiato. Gli altri erano contenti quando dicevo loro queste cose, ma non appena proponevo loro di venire con me, a vedere tutte quelle cose dal vivo, loro tacevano.
 
La presa lieve di Brian riuscì a sollevare la tavoletta di cioccolato e a scartarne lento uno dei lati. Guardandolo sorridere e mordere appena la cioccolata, mi allungai a stampargli un bacio sulla fronte, per poi tornare a sedermi.
 
-Come va oggi?-, gli domandai, sfiorandogli la testa con i polpastrelli. Mi mancavano i suoi tagli sconclusionati, i suoi capelli lunghi, ma aveva iniziato a perderli e, vederli mentre cadevano, aveva iniziato a fargli male, così mi aveva pregato di tagliarglieli.
 
I suoi occhi nocciola mi colpirono all’ istante, masticò il cioccolato e le pupille nere divennero un tutt’ uno con le iridi; segno che aveva gradito la sorpresa:- Bene,- , biascicò. – a te? Val sta bene?-
 
Annuii. Gli avevo detto di avere una moglie, lui al principio si era dimenticato anche di lei e, per tenerne vivo il ricordo, mi chiedeva ogni volta come stesse. Il problema della memoria sembrava non recargli più fastidio. Era curioso, più che infastidito, infatti rimaneva delle ore ad ascoltarmi, io gli raccontavo dei nostri amici, della band, dei concerti e di quando lo ritrovavamo ubriaco, e lui diceva che non era possibile, che non ci credeva, che non poteva aver fatto cose del genere per davvero. Era come se, attraverso lui, io riuscissi a studiarmi meglio. Ripercorrendo gli errori ed i passi che avevo ed avevamo fatto, mi rendevo conto del bene che possedevo. Per questo, quando tornavo a casa, mi occupavo di dare un bacio a Val, di darne uno a mio figlio e di abbracciare chiunque mi capitasse a tiro. Era diventato un rito.
 
-Stiamo tutti bene.-, conclusi, adagiandomi sullo schienale della sedia.
 
Brian diede un altro morso alla tavoletta, poi la avvolse con la carta e finì di ingoiare il cioccolato mentre la posava sul comodino accanto al letto. Si fregò le mani insieme, liberandosi di briciole immaginarie, poi sbadigliò ed incrociò le gambe sul letto, stiracchiandosi. Portava una delle sue camicie preferite, una delle tante che io reputavo orribili per quegli strani disegni da drogato che c’ erano stampati, un paio di pantaloni strappati sulle ginocchia che lasciavano intravedere la pelle pallida e dei calzini neri con le ossa dei piedi che si illuminavano al buio, un regalo di Zacky.
 
-Sono contento. Grazie per essere venuto anche oggi.-, mi ringraziava sempre, tutte le volte che andavo a trovarlo. Separarmi da lui per il week end era una cazzo di ingiustizia, ma non potevo fargli visite ed avevo una famiglia da mandare avanti, da non trascurare. Poi c’ era la band. Avevamo trovato un altro chitarrista e, mi dispiaceva dirlo, ma non si avvicinava neanche minimamente al nostro Syn. Pazzo o no, lui era ancora il nostro Syn. Non mi ero mai azzardato a disdire un appuntamento con lui, mai avevo fatto tardi per andarlo a trovare e mai, mai, lo avrei fatto. Per prima cosa, sia lui che io ci tenevamo troppo e lui mi mancava, per seconda cosa, non volevo neanche immaginare quello che avrebbe potuto combinare Brian, dato che la sua cura dei dettagli per farmi trovare tutto in ordine e pulito era diventata maniacale.
 
-Lo sai che non mi devi…-
 
Aveva alzato lo sguardo al cielo, senza preavviso, perdendo la luce che aveva nelle pupille. C’ eravamo di nuovo. Quando faceva così, voleva dire che la parte di lui che sapeva affiorava in superficie e poi tornava giù, a raschiare il fondo del barile in cui era rimasta annegata durante la mia assenza. Io ero convinto che Brian sapesse qualcosa, qualcosa di importante, un segreto, e quando gli appariva davanti agli occhi gli partiva la testa per l’ ansia, perché avrei potuto vederlo anche io.
 
-Shhh.-
 
Iniziò a ridere. Non di quella felicità che amavo, non dell’ allegria che gli portava la mia presenza, ma della pazzia che lo comandava. Rideva piano, sghignazzava, poi forte, e si copriva la bocca come se la sua preoccupazione di essere sentito accrescesse col tirare dei suoi muscoli facciali.
 
-Shhh.-
 
E rideva ancora.
Io lo lasciavo ridere, era lui che lentamente riprendeva coscienza di sé e si rendeva conto di quello che faceva. Stava a lui il compito di riprendere il controllo, non a me. Le risa divennero sempre più rumorose, fin quando gli angoli della sua bocca non si piegarono e prese a piangere. Non una lacrima per volta, ma tutte insieme. Un unico fascio d’ acqua salata che gli scavava le guance tutte le fottute volte.
 
-Matt, se torna ed io sono qui dentro, come faccio? Voglio uscire per vederlo tornare.-, riuscì a dire, tra gli spasmi del pianto. Parlava di Jimmy.
I dottori avevano detto che era stata la sua morte ad innescare il tutto, che era stato quello il motivo per il quale il cervello di Brian si era ammalato ed era andato peggiorando giorno dopo giorno, fino a far uscire fuori la sua malattia, fino a farla vedere a noi.
 
-Non torna.-, dissi a bassa voce, cercando di prevedere le sue mosse.
 
-Tutti tornano.-
 
Riprese a ridere, macabro, troppo macabro. Le parole scemavano in quello che era uno squittio, un verso muto e da pazzo. Poi pianse ancora.
 
-Tornerai anche tu, vero?-, allungò le braccia verso di me, intrecciai le dita nelle sue e mossi i polsi, avanti e indietro, coinvolgendolo in un gioco infantile, un tira e molla.
 
-Io non me ne vado.-
 
-Sono pazzo, ma non stupido.-, e bloccò il mio gioco, divenendo subito serio ed asciugandosi le lacrime che gli erano cadute dagli occhi lucidi. –E’ l’ ultima volta che ci vediamo.-, lo sussurrò. Ma lo sussurrò come se volesse gridarmelo.
Non sapevo che dire. Non sapevo a cosa stesse alludendo, i dottori mi avevano detto che aveva ancora dei mesi da vivere, io non avevo intenzione di smettere di andare da lui. Prima che potessi dirglielo, lui si mise un dito sulla bocca e, di nuovo, soffiò.
 
-Shhh.-, era come scosso da un’ ansia crescente, sempre più teso. –Chi ha bisogno di scuse qui non sono io, ma Dio.-
 
Non volevo sapere il significato di quello che stava dicendo. Non volevo.
 
-Ti voglio bene, Brian.-, mi limitai a dirgli, e lui sembrò sollevato. Lasciò andare il collo all’ indietro, chiuse gli occhi e deglutì, attaccando subito a ridere. Ero lì da poco, era vero, ma non era il caso di rimanere se si comportava in quel modo. Era malato e tutto quanto, ma sentirlo ridere così mi metteva addosso un disagio orribile, uno di quelli che mai e poi mai avrei desiderato sperimentare. Mi alzai dalla sedia, lui sibilò qualcosa e grattò i lenzuoli neri con le unghie assenti.
 
-Anche io.-, ribadì. –Ma non leccarti le ferite negli angoli come facevo io, Amore. Dio ti vede. Punirà anche te e tutti gli altri, se non scappate. Potete farlo, ne avete l’ occasione, fatelo prima che potete. Io sono stato preso, non mi resta molto. Tra una settimana raggiungerò Jimmy, Amore, ma tu hai ancora una vita davanti.-
 
Mi spaventai. Lo guardai dall’ alto, lui mi evitava e si rigirava i polsi fra le mani, fino a farli diventare rossi per la forza che ci metteva. Il pianto e le risa divennero alterne, prima una e poi l’ altra mi sferzavano le orecchie e mi mettevano ancora più paura. Non sapevo il significato delle parole del corvino, ma sentivo che aveva ragione, che se non sarei scappato avrebbero preso anche me. Non sapevo bene se quell’ “Amore” fosse rivolto a me, a Michelle o a Jimmy, forse a nessuno o forse a tutti e tre, ma non fece altro che trasmettermi la sua ansia.
Avevo paura che potessero prendermi, avevo paura che sarei potuto morire o impazzire anche io, avevo paura che ciò che usciva dalla bocca di Brian fosse stato il segreto che si ostinava a non dirmi. Non me ne andai, non prima di avergli sfiorato le mani delicatamente, non prima di avergli augurato buonanotte.
 
 
 
 
 
 
 
Una settimana dopo, Brian morì.
 
  
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