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Autore: Dreaming_Archer    12/08/2013    0 recensioni
Giorgia è una quattordicenne innamorata. Il suo "lui" è così perfetto, etereo, stupendo, irraggiungibile.
Un giorno, Giorgia trova nella biblioteca della scuola una lettera, la più bella lettera d'amore mai scritta.
"Ma sarebbe stato troppo facile, anche se io ho sempre voluto che fosse tutto facile. Avrei voluto che noi non fossimo così diversi, che tu capissi da uno sguardo, che non ci fosse bisogno di parole …
Perché io non le so le parole giuste, non le ho mai sapute.
Sei tu quello giusto. L’altezza giusta, i capelli perfetti, la camminata da divo. Quella faccia tanto bella da volerla picchiare e urlare: “ma perché?!”"
Quella lettera sembra cucita addosso a lei, sulle sue emozioni, sui suoi sentimenti. E allora per evitare che il triste destino scritto in quella lettera si ripeta, Giorgia deve prendere il coraggio a due mani e scoprire chi l'ha scritta. Per difendere il suo primo vero amore dal destino.
(Storia partecipante al concorso del Forum EFP "E sei i proverbi avessero ragione?")
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Il primo amore non si scorda mai.

Capitolo 1 – La lettera
 
< «E' vietato stare al bar durante la lezione.»
Alzo lo sguardo e gli occhialetti bicolori del vicepreside fanno capolino nel mio campo visivo.
«Ma non c’è il professore.» Obietto.
«Allora puoi andare a casa se sei maggiorenne, è l’ultima ora.»
«Non sono maggiorenne.» Rispondo, delusa. «Non ho la macchina e l’autobus passa all’una.» Aggiungo, tornando a grattarmi lo smalto dalle unghie.
«Gli studenti non possono stare al bar durante la lezione.» Ripete il vicepreside.
Vorrei ripetergli ancora una volta che io non ho lezione, ma mi sembra inutile. Non capisco perché non posso starmene lì, tanto poco più di mezz’ora e suonerà la campanella. Non do fastidio a nessuno, mi faccio i fatti miei e aspetto. Che problema ha quel tizio? Non posso starmene tranquilla e sentirmi perfettamente adulta, seduta ad oziare al tavolino del bar?
Ovviamente no, devono sempre rovinarmi i piani.
Vengo al liceo da alcuni mesi, li vedo gli studenti più grandi che stanno al bar molto più del dovuto, e poi perché mettere un bar all’interno della scuola se poi non ci puoi stare?
«Ma la vedo la gente che ci sta lo stesso.» Obbietto.
«Infatti i professori gli mettono le note di ritardo.» Risponde, anche se lo vedo che non ci crede nemmeno lui.
Probabilmente, dato che sono una primina, crede di potermi comandare. Però mi mette un po’ di soggezione. Forse è meglio non farsi notare nei primi mesi di scuola, meglio non alzare la cresta, alla fine ho solo quattordici anni, e non sono per niente un tipo ribelle.
Io volevo solo sentirmi adulta per una mezz’ora, e magari sperare di incontrare qualcuno che come me non ha lezione. Magari proprio quel qualcuno a cui sto pensando adesso.
«Forza, vai.» Mi incita il vicepreside.
«E dove dovrei andare?» Domando, guardandomi intorno. Magari lui entrerà proprio adesso, mi vedrà discutere con il vicepreside, e allora sì che riuscirei ad attirare la sua attenzione. È tutto l’anno che aspetto e spero in un momento propizio come questo. Potrebbe intromettersi, dato che lui è già in quinta, ed è abituato a quelle cose. Direbbe al vicepreside di lasciarmi stare, e lui accetterebbe. Poi mi offrirebbe qualcosa al bar, e…
«In biblioteca c’è l’area studio per i ragazzi.» Il vicepreside interrompe i miei sogni ad occhi aperti.
Biblioteca? Area studio? Precipito nel mondo dei mortali. In questa scuola?
«Dove?»
«In fondo al corridoio a sinistra, poi ancora infondo e sempre a sinistra.» Mi spiega sbrigativo lui, spingendomi lungo il corridoio.
Sbuffo e mi avvio. Ancora una volta quello che volevo non si è avverato.
Mentre cammino per il corridoio passo davanti a una decina di porte tutte uguali. Tutte, tranne una. Deve essere stata una delle prime porte che ho memorizzato appena cominciata la scuola. Sopra lo stipite un cartello un po’ storto recitava: “5B”.
Camminandoci davanti rallento un po’ il passo. Lui potrebbe uscire proprio in quel momento, venirmi addosso, io potrei far cadere lo zaino e … passo davanti alla porta, e non succede nulla. La voce del professore proviene da dentro: «… Schopenhauer, volontà … Kant …» C’è un brusio di sottofondo tra gli studenti. Tra quelle voci c’è sicuramente anche la sua … Solare e allegrocom’è, è sicuramente l’ispiratore di ogni battuta.
È una strana sensazione saperlo così vicino. La porta è così sottile, potrei spingere la maniglia ed essere lì al suo fianco, senza avere più nessun problema di come fermarlo, dicome iniziare, niente.
Mi fermo appena dopo la svolta a sinistra e mi appoggio al muro. Ma che cosa potrebbe pensare di me? Che sono una pazza, o nel migliore dei casi che ho sbagliato classe. In ogni caso il professore mi sbatterebbe fuori ancora prima di riordinare i pensieri.
Se volevo farmi avanti con lui doveva essere in un altro momento, anche se speravo sempre che il caso mi evitasse di prendere delle decisioni.
Intanto avevo raggiunto la biblioteca. Devo dedurre di essere stata un po’ distratta mentre a settembre ci facevano girare per la scuola, perché non sapevo assolutamente nulla della sua esistenza.
La porta a vetri è socchiusa, e così entro.
«Buongiorno.» Mi saluta la bibliotecaria, seduta al computer vicino alla finestra.
Io non dico niente, mi guardo intorno. L’ingresso è una stanzetta piccola, con alcuni computer a sinistra, su cui stanno lavorando silenziosamente dei professori, e la parete a destra coperta da dizionari. Le altre pareti sono tappezzate di manifesti di mostre e cartelli di avvisi.
La bibliotecaria doveva essere abituata agli studenti che non rispondono ai saluti, perché sorridendo ha continuato: «Ora buca?»
«Sì.» Questa volta rispondo.
«Prego.» Mi indica una porta aperta a destra. «Ci sono le poltroncine e i tavoli per studiare.»
Seguo la sua mano, ed entro nella seconda stanza. Vari scaffali dividono lo spazio in diversi quadrati, dove al centro sono posizionati alcuni tavoli e delle sedie. I cartelli dicono “arte”, “letteratura italiana”, “letteratura straniera”, verso il fondo scorgo “psicologia”, “scienze della terra”.
Pochi tavoli sono occupati, ma non mi va di intromettermi da nessuna parte, così prendo posto sulle poltroncine di cui mi parlava la bibliotecaria.
Piuttosto basse in effetti, mi sembra di stare seduta per terra, ma se allungo i piedi sotto al tavolino di plastica davanti a me, che ospita qualche quotidiano, sto quasi comoda.
Evito subito il quotidiano, perché in quel silenzio farei un fracasso assordante, e non voglio essere notata, e perché sinceramente non me ne interessa molto. Prenderei il telefono, se solo non si fosse completamente scaricato a giocare a “Rabbids” durante l’ora di francese.
Riprendo a guardarmi intorno. Fa piuttosto freddo, così poggio una mano sul termosifone alla mia destra, ed è praticamente congelato. Infilo le mani dietro le ginocchia e vi poggio il mento sopra.
L’angolo con le poltroncine è circondato da alcuni scaffali che portano i cartelli “storia antica”, “storia italiana”, “storia moderna”, e altri tipi di storia. Alle mie spalle, scorgo il più allettante: “fotografia”.
Getto uno sguardo alla bibliotecaria dall’altra parte della porta, che mi guarda incoraggiante. Io indico i libri e lei annuisce, poi torna al suo computer.
Allungandomi dalla poltrona riesco a prendere un libro piuttosto sgualcito. Ne sfoglio alcune pagine, ma sono unte e le foto in bianco e nero un po’ sbiadito non sono per niente allettanti. Lo rimetto a posto e ne prendo un altro.
Faccio così per un altro paio di volte, poi mentre sto per rimetterli in ordine, da uno dei libri scivola fuori un foglio di carta verde, che si infila sotto la poltrona.
«Ops.» Borbotto, mentre rimetto il libro sullo scaffale e mi piego a raccogliere il foglio.
È stato strappato da uno di quei blocchi che si usavano alcuni anni fa per riempire i raccoglitori. Quanto erano masochisti certi studenti! A fine anno raccoglitori del genere potevano pesare più dei libri stessi.
Lancio uno sguardo all’ingresso, non si sa mai che lui entri adesso, magari a prendere un dizionario, o un libro …
Niente, e la porta a vetri mi restituisce la mia immagine.
Così apro il foglio e comincio a leggere.

10 Aprile 2009

Strana giornata oggi. Non mi sono mai sentita così grande e così piccola insieme. Forse più piccola che grande. Minuscola, insignificante, sì, è così che mi sento.
È così che mi fai sentire.
Quegli occhi nei miei, sulla mia faccia, sui miei vestiti … che cosa guardavi di preciso? Solo il bene o solo il male? Non so cosa credere.
Sento ancora le farfalle nella pancia a ricordarti, le mani mi tremano e la faccia mi brucia.
Accidenti a te.
Anzi no, accidenti a me. Ho sbagliato tutto dall’inizio, questo è vero, ma almeno alla fine sarebbe potuta andarmi meglio. E invece no.
Ma sarebbe stato troppo facile, anche se io ho sempre voluto che fosse tutto facile. Avrei voluto che noi non fossimo così diversi, che tu capissi da uno sguardo, che non ci fosse bisogno di parole …
Perché io non le so le parole giuste, non le ho mai sapute.
Sei tu quello giusto. L’altezza giusta, i capelli perfetti, la camminata da divo. Quella faccia tanto bella da volerla picchiare e urlare: “ma perché?!”
Perché proprio io mi dovevo innamorare di te?
E poi perché proprio di te, che con quel sorrisetto potresti dominare il mondo?
È triste rendersene conto adesso, che non può funzionare, non funzionerà mai tra di noi.
Forse gli opposti si attraggono, ma devono almeno appartenere alla stessa galassia. Noi viaggiamo su due orbite totalmente diverse.
Rimarrai soltanto il mio primo amore, e il primo amore non si scorda mai.
Tu  potrai anche dimenticarti di me, e io non te ne vorrò male, ma ricordati soltanto che oltre quegli occhi dorati (che sono stati di tanti colori, verdi, grigi, marroni, ma per me saranno sempre dorati) c’è qualcuno da vedere e da ascoltare.
Tu per ora sei capace solo di far soffrire le persone, ma non sempre ti verrà tutto facile, anche se te lo auguro, e qualche volta quella bella testolina bionda la dovrai pur abbassare.

Monica

E finisce così, con una firma.

  
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