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Autore: Gwen Chan    14/08/2013    3 recensioni
Feliciano era stato il primo a lasciare a passi incerti il nido, contravvenendo ai saggi consigli di Giovanni, con la sua cartella dei disegni e il largo sorriso stampato sul volto. Non che poi fosse andato troppo lontano, pochi chilometri in fondo, verso il primo agglomerato di case che poteva fregiarsi del titolo di città. Qualche volta il treno lo portava su a Milano, da un parente, ma già la sensazione era di aver attraversato l'oceano.
Feliciano è un ragazzo semplice, che ama disegnare e ammirare il mondo con i suoi limpidi occhi d'ambra. Finché non arriva la guerra. E l'italiano dovrà un rimediare a un tragico errore.
[AU][Legata a "Dice che era un bell'uomo e veniva dal mare"]
[Da revisionare]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Nyotalia
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di una famiglia '
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Come una ferita

Feliciano era stato il primo a lasciare a passi incerti il nido, contravvenendo ai saggi consigli di Giovanni, con la sua cartella dei disegni e il largo sorriso stampato sul volto. Non che poi fosse andato troppo lontano, pochi chilometri in fondo, verso il primo agglomerato di case che poteva fregiarsi del titolo di città. Qualche volta il treno lo portava su a Milano, da un parente, ma già la sensazione era di aver attraversato l'oceano. Quando era nato, il ragazzo aveva strillato disperatamente come tutti gli altri bambini che sono gettati senza un motivo nella vita e, anche ora che era cresciuto, non mancava a tratti di trasformare la propria allegria in una smorfia di pianto. Tuttavia il più delle volte esibiva l'aria spensierata di chi ha trovato il tanto agognato segreto per la felicità. Neonato, tra le braccia della sorella Chiara, aveva socchiuso contento gli occhi limpidi e da allora non li aveva mai spalancati del tutto. Forse preferiva osservare il mondo dalla prospettiva chiusa fra due lembi scuri, un panorama appena sfocato, interrotto dall'ostacolo gentile delle ciglia. Se si fermava di fronte allo specchio capitavano momenti in cui per gioco sbarrava gli occhi, per un secondo o due, studiandone per bene le iridi e le loro venature. Poi li richiudeva.
Erano troppo cristallini, qualcuno una volta gli aveva rivelato; troppo innocentemente inquisitori perché certe persone non si sentissero minacciate o offese. Allora era preferibile nasconderli. Sembrava che la sua stella protettrice si fosse un pochino distratta, ubriaca di cielo là dove invece avrebbe dovuto vegliare. Il giovane era nato goffo in un'epoca che esigeva la prestanza fisica; la Natura l'aveva reso semplice quando la sopravvivenza nasceva dall'inganno.
Feliciano aveva occhi color dell'ambra, di quella arancione scuro che si poteva ammirare al collo grassoccio di ricche signore quando arrivavano al paese per la villeggiatura, della stessa tonalità di Alice. Era la sfumatura dei sognatori, ben diversa di quel verde brillante che invece caratterizzava Lovino e Chiara. Tutti però avevano ereditato il ciuffo di capelli ribelli che di generazione in generazione aveva marchiato i Vargas.  
Feliciano non eccelleva a scuola, non nelle materie in cui almeno avrebbe dovuto farlo: i suoi lavori di educazione tecnica mancavano di precisione e i calcoli matematici sfuggivano alla sua comprensione; faticava a correre, a saltare e la sua coordinazione era pessima. Però amava i corsi delle bambine, come Economia Domestica o Disegno. Era sicuro che se glielo avessero permesso avrebbe potuto dimostrare di essere capace di cucinare come e anche meglio della signorina che insegnava alle ragazze dell'avviamento. Oppure avrebbe preferito riempire tele dei suoi disegni, invece di accontentarsi delle miniature che preciso tracciava sul quaderno, sporcarsi di tempere invece di colorare con i pastelli più economici della cartoleria.
 
Invece contro ogni prognostico era riuscito a conquistare la licenza elementare, superando Chiara che si era fermata alla terza e consolando i genitori dalle tribolazioni che il comportamento avventato di Lovino dava loro, soprattutto dopo che le sue azioni antifasciste gli erano valse l'espulsione. Infine, all'epoca, la piccola Alice ancora sedeva sui banchi con il suo grembiulino nero, il fiocco rosa di seconda mano e i quaderni pieni di riassunti e racconti,  in una classe semivuota dove l'analfabetismo ancora imperversava.  
A Feliciano Milano piaceva,sopportava volentieri il viaggio che prendeva quasi l'intera giornata e, dopo aver schioccato un affettuoso, per quanto veloce, bacio sulla guancia dello zio, correva a ricopiare sull'album da disegno la facciata del duomo. Non era proprio suo zio, quanto piuttosto un cugino sul terzo grado da parte di madre, ma il giovane italiano era lungi dal preoccuparsi di tali sottigliezze.  
Amava passeggiare lungo i viali del centro, con una tela spesso stretta sottobraccio e i carboncini che saltavano nelle tasche al ritmo della sua andatura; non mancava di fermarsi presso il castello oppure nelle vicinanze di Brera, sognando i dipinti che vi erano conservati e facendosi cullare nella loro sacra dolcezza, così diversa dai palazzi squadrati cari al regime.   
Aveva diciannove anni quando l'armistizio era stato firmato, prima che gli aerei iniziassero a vomitare bombe sulla città lombarda, ma già da tempo aveva deciso di tornare alla casa paterna, dove Lovino aveva preso le redini della situazione. Lovino, il passionale, Lovino che nel cuore covava la rabbia, raro al sorriso, ma veloce all'imprecazione. Lovino che presto sarebbe fuggito nei boschi, trascinandolo con sé.  
A casa aveva scoperto che Alice, alle porte dell'adolescenza, si era infatuata di un giovanotto tedesco che ogni tanto passava da quelle parti; a Feliciano era parso un tipo a posto, un po' troppo serio e ingessato, ma sapeva leggere nell'animo della gente e Ludwig (così si chiamava) era una brava persona. Di questo ne era certo, quasi tanto quanto lo era Alice. Perciò, se la sua cara sorellina ogni tanto spariva per qualche ora, lui non se ne preoccupava.  
Era per questa sensazione quasi di empatia che a tratti decideva di presentarsi, scatenata da un gesto o dalla piega di un sorriso, che a Feliciano non piaceva uccidere, sebbene fosse stato costretto a imparare. Aveva imparato in fretta, tenendo l'arma fra le dita tremanti, ma usarla davvero era tutt'altra faccenda. La morte che per un istante brillava nelle iridi di quegli uomini e cancellava i colori della loro divisa, questo spaventava il giovane italiano, che nella Resistenza non sentiva di essere a casa. Sentiva da qualche parte nel proprio intimo che un giorno avrebbe ammazzato la persona sbagliata, presagiva che la sua mano sarebbe stata guidata dalla paura e non dalla ragione. Purtroppo la sua predizione non tardò ad avverarsi.  
Splendeva il sole quella mattina, anche se sarebbe stato più poetico affermare che una tempesta stava squarciando il cielo o che la neve da ore cadeva fitta. In fondo sarebbe almeno servito a giustificarlo; ma non pioveva né nevicava. C'era invece un bel sole che colorava di giallo i tratti di ghiaccio che ancora resistevano all'arrivo della primavera. Strano mese marzo, a metà tra la brutta e la bella stagione, troppo severo per essere accolto da quest'ultima, ma già non abbastanza gelido per entrare nelle grazie del re dei ghiacci.  
Era il mese pazzo in cui Feliciano era nato. Tuttavia quell'anno non ci fu nessuno a fargli gli auguri, nemmeno Lovino dal quale da tempo era stato separato, nessuna torta su cui spegnere le candeline. E forse il ragazzo stava pensando a quali regali gli sarebbe piaciuto ricevere, forse la mente era persa in gioiose fantasticherie, perché a seguito di un rumore di fronte a sé, egli preso dal panico premette più volte il grilletto. Fu solo quando l'arma fu scarica che si accorse con orrore del proprio gesto. Lasciò cadere tra le foglie la pistola e corse verso la propria vittima, con il volto che già era rigato di lacrime e moccio. Solo una sillaba riusciva ad articolare: no. Teneva le braccia alzate, lo sconosciuto, steso a terra con il petto crivellato, come se avesse voluto dimostrare di non volergli fare del male. Lovino l'avrebbe di certo considerata una trappola.  
"Var-gas!"  
Cadde sulle ginocchia e avrebbe vomitato se non avesse avuto lo stomaco vuoto. Si limitò a rigettare acido. Quindi col corpo scosso da violenti tremiti, tornò da quel soldato moribondo e riconobbe in lui i tratti del l'amante di sua sorella.  

Persa. Non voleva nemmeno pensare che fosse morta. Si tappò le orecchie e si rifiutò anche solo di concepire il pensiero. Odiava la guerra.  
"Le volevi bene?"  
"Certo! È la mia sorellina. Hai fratelli?"  
"Uno."  
"Come si chiama?"  
"Gil-bert"  
Il sangue imbrattava la divisa del tedesco e ne scuriva il verde, colorava il ferro che si portava via gli ultimi istanti della sua breve vita.  
"Devo cercarlo?"  
Ludwig ebbe un sussulto che dai piedi si propagò fino alla testa, l'ultimo violento cenno di vita.  
"Cerca Monika" gorgogliò, con i polmoni ridotti a un colabrodo, prima di spirare. Sul viso si cristallizzò una seria smorfia.

***
 
Monika. Solo un nome. Un nome e un Paese. Nulla di più. Qualche anno più tardi sarebbe riuscito ad associare anche un cognome e in seguito un indirizzo troppo vecchio per essere utile 
Qualche soldo in tasca e sulle spalle una missione. Una croce di ferro stretta nel pugno, un nome e un cognome. Questo aveva Feliciano.  
Chi era Monika Beilschmidt?"  
Una parente? Un'amica?  
Fermava la gente per strada, li incantava con i suoi limpidi occhi e la sua lingua sciolta. "Conoscete Monika? Monika Beilschmidt. È alta e ha i capelli biondi" spiegava, nella certezza che l'immagine mentale che si era creato corrispondesse a realtà. Se la immaginava come una versione femminile del soldato ucciso. Solitamente quelle poche parole di tedesco che conosceva venivano interrotte da un "Nein" ora brusco ora velato da un lieve dispiacere.  
Eppure l'italiano non demordeva. Tra i visi scavati di una città prostata, Monika? Monika Beilschmidt. Sulla sua testa sfrecciavano gli aerei americani carichi degli aiuti del dopoguerra. A terra si cercava di ricomporre un puzzle che aveva perso i pezzi attraverso la guida di vecchie fotografie.  
Dov'era Monika? In quale casa della distrutta Berlino l'avrebbe trovata? Gli anni passavano, eppure lui non demordeva.  
E come spesso accade, quando già iniziava a dubitare che la sua ricerca potesse concludersi con successo, alla fine con Monika si scontrò, camminando con il naso per aria.  
"Mi scusi"  
La donna, alta e formosa, sulla quarantina contro cui nella foga era andato a sbattere, lo fissava con aria truce.  
"Ti sei fatto male?" domandò con sorprendente premura. Feliciano scosse la testa in risposta.  
"No., conosci una certa Monika Beilschmidt?"  
C'era stata una pausa, seguita da un sospiro.  
"Sono io. Cercavi me?"  
"Credo di sì. Cioè non so. Ludwig me lo ha chiesto. Però potrebbe essere un altra."  
Tuttavia l'espressione di sorpresa e dolorosa attesa che deformò il volto di Monika, mentre le sue mani forti gli stringevano le spalle, non lasciarono adito a dubbi. Le dita premevano contro la carne.  

"Era di suo fratello. Una peste. Intelligente, ma frequentava cattive compagnie" spiegò all'espressione stupita di Feliciano "L'hanno trovata in Russia. Non so nemmeno se sia morto o no, ma Gilbert non si separava mai dalla sua croce, quindi non ho troppe speranze". Non disse che li considerava come fratelli, ma si strinse nelle spalle e soffiò via la polvere da una fotografia in bianco e nero, dove nella cornice una ragazza dai lunghi capelli sorrideva sprezzante. Aguzzando la vista, su uno dei bordi era possibile leggere un nome: Julchen. Quel nome pareva quasi stonare rispetto alla giovane che esibiva orgogliosa una lunga chioma di capelli tanto chiari da sembrare argentei. La sua fiera e indomita sorella, dallo spirito forte e dal corpo debole. Julchen che sapeva cavalcare al pelo, discendente dei cavalieri teutonici. Julchen che non mancava mai di alzare un po' il gomito.Ironia della sorte aveva tossito l'anima per una banale polmonite, dopo essere sopravvissuta ai bombardamenti. Che fine poco magnifica, avrebbe detto.  
Feliciano lasciava spaziare lo sguardo sulle pareti spoglie, e ogni tanto un commento interessato ravvivava l'atmosfera. Non era mancanza di tatto la sua, ma non conosceva altro modo per consolare se non alleggerire il peso del dolore con qualche aneddoto divertente. Poteva comprendere che cosa provasse la sua ospite perché anche lui aveva perso tre persone molto speciali.  
"Grazie per il pranzo. In realtà preferisco la pasta, ma sei stata gentile". Sorrideva sincero ora che il suo compito era stato portato a termine, come se la tristezza non potesse dimorare troppo a lungo nel suo cuore. Dopotutto la sua innocenza era tale da non essere intaccata da nulla, nemmeno dalla guerra, e la vita doveva andare avanti. Si cadeva, si commettevano errori e di nuovo ci si rialzava, giorno dopo giorno.  
Monika stette ferma, in piedi, con il fianco appoggiato alla parete, sorpresa per quello straniero foriero di notizie da tempo dimenticate che pareva avvolgerla con la sua espansività e che quasi le strappava una risata per quel suo buffo ciuffo. Da tempo la donna non rideva con animo leggero. Parlò con tono duro, non perché fosse arrabbiata, ma come donna, come essere solo in un periodo crudele, aveva scordato ogni altro modo di esprimersi.  
"Tu non sei un assassino. Non puoi esserlo. È stata la guerra, per cui esistono solo vittime. Ma tu mi hai riportato una cosa importante. Grazie" Con tali parole sembrò perdonarlo e lo avvolse in un timido abbraccio nella cui ruvida dolcezza, sopra le tombe invisibili di morti mai dimenticati, il passato smise infine di intossicare il presente.  

Note: Allora, la prima doverosa precisazione è che il Giovanni citato è Verga. Punti extra per chi lo aveva capito prima delle note. Detto questo, finalmente con la one-shot dedicata a Feliciano si chiude il ciclo principale di "Cronache di una famiglia". Di sicuro, però, ora passerò alle storie dedicate a tutti gli altri personaggi di contorno. Devo ammettere che, sebbene avessi già da tempo deciso di fare morire Ludwig per esigenze di trama, solo mentre scrivevo ho scelto che per ironia della sorte fosse proprio Feliciano l'involontario artefice dell'uccisione. Sì, potete odiarmi. Ultima precisazione, la canzone che questa volta mi ha accompagnato nella stesura è "Gesù bambino" di De Gregori. Ne consiglio vivamente l'ascolto. Odio scrivere le note, quindi se avete altri dubbi o domande, chiedete pure. 
 
   
 
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