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Autore: Lisa_Pan    16/08/2013    6 recensioni
(questa storia ha partecipato al contest "le situazioni di xedy.." di Marge piazzandosi al secondo posto)
"Ti ho presa in una notte e ti ho cancellata in un pomeriggio per tre euro e cinquanta, un gettone, un tappo di detersivo e metà di ammorbidente. "
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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ciliegie

Ciliegie

A volte penso che la vita sia una grossa presa per il culo; si diverte a scoparti in una squallida stanza in affitto a cinquecento euro, senza lavatrice, affacciato ad una finestra con un buco al centro, le mani strette attorno al bordo freddo del davanzale e gli occhi puntati sul ritmo compulsivo di due mani che battono contro la pelle di un qualche animale a cui hanno tirato le cuoia per cucirlo attorno ad una scatola di legno. Questa vita, questa presa per il culo, ti spoglia per bene e lentamente, è una perfetta amante con le gambe snelle, le mani piccole, la bocca piena e quegli occhi che bruciano, che ti bruciano.

E bruci, tutta la notte, e la mattina ti svegli con l’insoddisfazione che formicola ancora intorno ad un’erezione che ti guarda beffarda, quasi a prenderti per il culo pure lei, come se non fosse bastata la notte, la musica e tutto quel fumo colorato. E capisci che ti aspetta un'altra lunga giornata di solitario sesso con te stesso. Quando la gente mi chiede cosa faccia tutto il giorno seduto in camera con le spalle poggiate alle assi di legno del letto divorate dai tarli, rispondo che, se uno non ama se stesso , se uno non si fa pubblicità, se uno non ha piacere a stare con se stesso, non se lo inculerà mai nessuno. La credibilità te la stendi addosso da solo. Sarà, ma a me pare che tu ti faccia un po’ troppe seghe, soprattutto mentali. È che loro non sanno, non sanno quanto mi fa male quel niente in mezzo al petto.

Pensavo fossi come lei, come quella presa per il culo, pensavo che te ne saresti andata nel giro di una notte e che mi avresti lasciato solo con una sigaretta tra le labbra e i fumi nel cervello che ti avrebbero mangiata velocemente, senza nemmeno la possibilità di diventare un ricordo. Invece…

La lavanderia puzza. Puzza di pulito, puzza di sapone e ammorbidente. Mi viene quasi da ridere mentre me ne sto seduto a guardare quell’unica macchia bianca che mi saluta dall’oblò colmo di schiuma. Sto provando a cancellarti, voglio di nuovo il vuoto, voglio di nuovo la mia sigaretta e San Lorenzo attraverso il buco nella finestra. Voglio amarmi da solo, imparare a capirmi, di nuovo.

Mi rigiro i gettoni tra le nocche, sbeffeggiato dalle diverse facce che assumono ogni volta che li guardo, impercettibile il cambiamento ma radicale. Come te, come noi.

Siamo macchie che devo cancellare, macchie di sporco incrostato su una maglietta dei Radiohead.

Rivedo il tè verde sul collo della maglia e mi sento ridicolo. Ripercorro inconsciamente a ritroso quella gran presa per il culo che è stato il nostro amore. Me lo hai versato addosso stamattina, eri incazzata perché non avevo lo zucchero nella credenza, perché non avevo un cazzo in quella fottuta stanza, perché nessuno potrebbe vivere come vivi tu, nemmeno se costretto. Sei venuta in camera e mi hai scoperto a ridere nascosto sotto il cuscino e mi hai lanciato la tazza, quella che ho fregato a mio padre che ha fregato a mio fratello che ha fregato a Mediaworld. Mi fa schifo il tè verde, ti ho urlato, ma eri già andata via, la porta chiusa dietro le tue spalle, la vedevo dalla camera, in fondo al corridoio. Chiusa e ferita, l’enorme poster dei Nirvana appeso al contrario a nascondere le bruciature di sigarette, i calci, i graffi, le lacrime e i baci da lingua nella gola strappati all’uscio.

Ho ancora il petto  che brucia sotto la maglia, nuova, con ancora il cartellino: quattro euro e novanta da Marco, il tipo figo con la barba nera, che ogni mattina bussava alla porta e mi passava del caffè caldo allungato con il latte e qualcosa d’indefinito.

E’ che non voglio proprio più averti addosso; come quei cazzo di brillantini blu attaccati sotto l’ascella e intorno all’ombelico. Stanotte eri bella, sembravi un gran pezzo di fata, in mezzo a tutte quelle luci si vedevano solo le tue ciglia riempite di quei cosi appiccicosi. Sfiorarti mi è sembrato irreale, immateriale com’eri. Ma ci siamo avvicinati, mi hai sfiorato anche tu e mi hai detto che avevi voglia di ciliegie, le tue labbra sono ciliegie, mi fanno schifo le ciliegie ma ora come ora divorerei le tue labbra.

E così mi hai sfiorato il petto, ti sei agganciata alla maglietta e tutta quella polvere di fata mi è finita addosso, negli occhi, nell’ombelico, ovunque.

C’è anche quel bambino con le mie dita e i tuoi capelli, all’angolo della maglietta, nascosto dietro la macchia di vita privata che mi sono tolto di dosso dopo che abbiamo fatto l’amore nascosti dalla scale, in mezzo a pezzi di case e vite di qualcuno solo di passaggio. Ci siamo accantonati per un attimo anche noi, come roba vecchia, come pezzi distrutti di un qualcosa che non appartiene a nessuno. Ci siamo buttati sullo scheletro di un armadio e ci siamo fatti fino a morire tra le camicie di flanella di un fan di Seattle. C’era puzzo di pioggia, di umido, di freddo che ti entra nelle ossa e te le crepa in silenzio. È stato lì che ho capito, mentre mi ripulivo di tutto quello spreco di vita sparso ovunque; mentre t’infilavi una di quelle camicie ricoperte di muffa e di noi, ho capito che saresti stata la più grande presa per il culo mai ricevuta. Mi hai fottuto il cervello e te lo sei infilato nelle maniche arrotolate, ingabbiato in quei quadri rossibiancoblu. Continuano a farmi schifo le ciliegie. Me lo ripetevi mentre salivamo le scale, appoggiati al muro, come serpenti, mentre strisciavamo sulle pareti ruvide e merdose di quella palazzina. Una gomma attaccata ad una spalla, muffa sulla schiena, grasso di bici su una manica. Tutta merda nostra, mentre rotolavamo per le scale verso la porta di casa mia, come polvere che si nutre di altra polvere, come valanga.

Macchie da lavare via insieme a questa notte che mi ha fatto male. E ho perso me stesso, qui, adesso, la voce di Yorke mi divora i timpani e lascio che succeda, che continui a perdere me stesso dentro i ricordi di una sola notte. Una sola stronza notte. Potresti vivere solo tutta la vita, senza rimpianti e senza ambizioni, allungato sul letto a fare l’amore con te stesso, potresti farlo davvero e non ci sarebbero problemi. Ma la vita che ti prende per il culo ti fa credere che quel sesso abbia bisogno di qualcuno in cui svuotarsi, che le tue mani abbiano bisogno di capelli a cui intrecciarsi, che tu abbia bisogno di parole infilate in bocca a qualcuno. In una notte ti rendi conto che hai una routine divorata dai tarli e che la tua calma apatica che ti va bene così non ti basta, che non ti è mai bastata, che hai sempre fatto finta e che l’amore te lo dà una che mangia roba che le fa schifo e ti molla perché non hai lo zucchero dentro casa dopo poco più di dodici ore.

È questione di rendersene conto, il risveglio all’improvviso. Mi hanno visto dopo mesi entrare in lavanderia, ho letto nei loro occhi stupore e preoccupazione. Hanno sospirato perché felici di rivedermi. Fanculo, ho il petto fracassato da un battito cardiaco che è stato sempre quasi pari a zero, sono un drogato che ha bisogno ancora della pioggia, di spaccarsi la schiena contro un armadio e di ripulire le scale della palazzina, così non pago nemmeno la tipa delle scale.

Essere vivi è una presa per il culo, come i poster promozionali dei bastoncini Findus, te li mettono sotto il naso, te li fanno annusare e poi, quando la fame finalmente si sveglia e lo stomaco si apre, ti dicono che quella roba in copertina è solo plastica e che in realtà sono la metà di quello che vedi e che non hai una padella abbastanza costosa per cucinarli in maniera decente.

Ora l’unica macchia che mi rimane è quella bianca, profumata, morbida, del pulito.

Ti ho presa in una notte e ti ho cancellata in un pomeriggio per tre euro e cinquanta, un gettone, un tappo di detersivo e metà di ammorbidente.

Ma ti rivoglio già indietro. Guardo l’immagine al centro della maglia, nitida, candida; la getto a terra, ci salto un po’ su e la trascino lungo le panche dove i culi di gente qualsiasi si sono poggiati macchiando le assi di legno. E mi sembra un po’ più lei adesso, con le mie pedate, quasi mi ci rivedo in quel quarantatré stampato in grigio sul retro.

Esco dalla lavanderia dopo che forse ho ritrovato un po’ più me stesso e un po’ meno te, ma prima di tornare a casa passo dal supermercato a prendere due confezioni di zucchero semolato da infilare nella credenza, in caso dovessi tornare un giorno.

   
 
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