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Autore: Daifha    22/08/2013    2 recensioni
[Prima parte] "Neppure per un secondo avevamo avuto la presunzione di sperare che Matt fosse ancora vivo: si era sacrificato per noi, questo era quanto."
[Seconda parte] "Il silenzio continuò a regnare in quei giorni, rotto soltanto dai gemiti strozzati di Mello, dallo strusciare delle coperte, dallo scoppiettio del fuoco. Fissavo le onde che le luci del fuoco proiettavano sulle pareti, ballavano e sembravano annullarsi a vicenda l’una sull’altra, dando vita a vampate nuove e più grandi, e tutto quello non faceva altro che farmi pensare al dolore che Mello stava provando. Avrei voluto essere io al suo posto. Mi sentivo morire più e più volte, ammattire e poi morire di nuovo."
[Terza parte] "Ma non feci niente di questo. Non mi crogiolai nel dolore, non dormii tranquillo, non pensai a quello che mi aspettava l’indomani, non ne fui capace. Quelle prima notte nella mia nuova casa, della mia nuova esistenza, la passai a ricordare, a fare sorrisi tristi e illudermi che, forse, ora Matt e Mello erano in un posto migliore, insieme e felici. Ricordai tutto, quella calda notte.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Matt, Mello, Near
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Get involved - Terza parte
 

 
Uomini che guardano a giudicano, capaci solo di sputare sentenze approssimative su ferite che non possono vedere.
“Sta bene” disse l’ultimo, incapace come gli altri. Si limitò a fissarmi con superiorità, l’altro invece troppo esausto, spazientito, moriva dalla voglia di picchiarmi.
Che si accomodasse pure, per quel che valeva. Che mi uccidesse lì, subito, senza l’esitazione che potevo intravedere invece nei suoi occhi spenti. Ma non poteva, lo so, è reato uccidere, adesso.
I sopravvissuti devono rimanere tali, sono intoccabili, figli illuminati da Dio. 
Su tre, io ero il sopravvissuto. 
Quando anche l’ultimo medico se ne era andato, certo che io non avessi alcuna lesione né ossa rotte e che la debolezza fisica fosse dovuta semplicemente ad una carenza di cibo, l’altro mi prese per un braccio e mi portò nella mia nuova camera, blindata, troppo bianca e spaziosa per un’unica persona. È dove avevano detto che avrei dovuto vivere per un po’.
E poi avevano anche aggiunto che se mi fossi ripreso avrei potuto essere utile alla società, ora che i parassiti erano stati eliminati. Lo avevano fatto con un gran sorriso, sicuri che così mi avrebbero fatto sentire più protetto, per assicurarsi che io collaborassi.
Già pretendevano troppo, da qualcuno a cui era appena stato portato via tutto. Gli amici, la speranza, una vita, un nome.
 
“Come ti chiami” 
“…” 
“Non importa, da oggi sarai Enne”
 
Dicevano che avevo vinto, che ero stato bravo, che ce l’avevo fatta e che ora non mi sarei più dovuto preoccupare di nulla. Dicevano che mi sarebbe stato tutto chiaro più avanti, che ora avrei dovuto riposare, dopo essermi lavato. 
Una donna mi attendeva nella mia camera, con un ampio sorriso e un asciugamano appoggiato al braccio, di un bianco meraviglioso, un bianco pulito, che raramente avevo visto in vita - eppure, sentii quasi subito una calda nostalgia a quella vista. Come gli altri, mi disse che dovevo riposare, che era ora che mi rilassassi.
Che finalmente, era tutto finito.

 
Il sistema di base è semplice: da tre a un solo sopravvissuto. 
E così il ciclo artificiale era concluso.
Di mezzo ci stanno solo i mille organismi interni: fazioni, diverse per scelte, per stile, per principi, che si danno lotta fino ad arrivare alla creazione di tre embrioni base, nati per vivere insieme per un periodo di tempo relativamente lungo.
Relativo perché breve lo è solo per due. Per il terzo, l’ultimo, il tempo successivo si allunga e la vita si dilata.
Ecco, una lotta destinata a non essere vista da chi la compie, una selezione artificiale mirata solo al predominio di un determinato fattore: il carattere.
Tre modelli: il primo, un amico, il secondo, un violento, il terzo, un apatico.
Sviluppati in un laboratorio, sotto analisi costanti, circondati da persone che li costringessero a diventare così come la propria fazione si era imposta. Uno lotta psicologica fin dalla nascita. Ognuno lo ha sviluppato come meglio credeva, con allenamenti, discussioni, isolamenti e un misto di finta felicità e vero dolore iniettato direttamente nelle vene e nella mente.
Questo per sette anni. Da qui, il destino di due era già stabilito: la memoria era cancellata completamente, solo le basi, quello che loro hanno chiamato carattere rimaneva, ormai insediato nelle loro menti, indelebile ed indiscutibile.
I nomi nuovi, sostituiti ai numeri No.1, No.2, No.3, sono stati rispettivamente Matt, Mello e Near. Erano gli stessi nomi che usavamo tra di noi, l’unica cosa che avevano deciso di lasciarci.
Da qui era lotta. Noi scappavamo perché sapevamo di essere inseguiti. Non avevamo bisogno di vederli, con i loro fucili spianati e quei vestiti neri da guerra: noi sapevamo che il nostro compito era scappare e sopravvivere, l’unica cosa alla quale era destinata la nostra esistenza. Così, strappati ai nostri ricordi, ai nostri affetti, ai nostri ambienti, buttati su una spiaggia anonima, la cosa più ovvia da fare era stata di mettersi insieme e lottare insieme, contro qualcosa di ancora non ben definito.
Il carattere determinava tutto: i nostri discorsi, le parole usate, le conoscenze, e le vite erano legate a quell’unico filo coincidente che era la nostra missione. Senza che lo sapessimo, lo scopo ultimo di quella convivenza forzata era l’eliminazione, pezzo dopo pezzo, dei componenti posti sulla scacchiera: noi.
Eravamo nemici, progettati per ucciderci a vicenda, con a disposizione solo il nostro carattere e quel legame che, col passare dei primi tre anni, si era creato, diventando sempre più forte. Ci costringeva a restare insieme, a cercare la sopravvivenza del gruppo, non del singolo: tutti e tre pensavamo di essere pronti a sacrificarci per gli altri, perché così ci imponeva il nostro stesso deleterio legame.
No.1 fu il primo ad essere eliminato. Inaspettatamente, puntavano tutti sul No.3, pure la stessa fazione che mi aveva creato aveva da subito dato per scontato che la mia sarebbe stata l’esistenza più breve: troppo poco allenamento fisico, troppa poca capacità di fare amicizia, anche troppa poca voglia di vivere. Un embrione sviluppato male, difettoso e con poche speranze di un futuro vero e proprio.
Poi però le armi da fuoco erano state puntate su Matt, e lui, l’amico, era stato il primo eliminato di quel macabro gioco.
Sono state fatte varie ipotesi sul perché fosse stato proprio lui a morire per primo, ma secondo la maggior parte era il carattere troppo sbagliato, per poter esistere a lungo. Un amico troppo leale e attaccato ai compagni avrebbe dato tutto per di vederli un giorno sani e al sicuro, a discapito della sua stessa vita. In un certo senso, non era idoneo, per questo era morto.
L’area di gioco era illimitata. Qualsiasi posto potessimo raggiungere con il nostro ingegno e le nostre forze, diventava automaticamente terreno di guerra. Eppure non eravamo liberi, neanche dopo la morte del No.1. Avevamo il nostro compito e dovevamo perseguirlo ad ogni costo.
E così, anche il No.2 non ce l’aveva fatta: il carattere violento non escludeva i sentimenti, una pecca che non si poteva ignorare. 
I legami sono risultati essere quanto di più deleterio potesse esistere per la sopravvivenza del singolo, perché ti imponevano una cura e un rispetto degli altri che limitava la tua libertà.
Mello era morto perché non aveva pensato a se stesso. Era ancora troppo concentrato sul passato, su quel legame tagliato troppo all’improvviso perché lo shock potesse mai svanire completamente; in un certo senso, viveva ancora con gli occhi del passato, con Matt e con il suo calore, con quell’amicizia così calda e confortevole su cui ormai si basava tutta la sua esistenza.
Lo hanno capito anche i signori in nero, che la disperazione di Mello lo stava distruggendo completamente, che vivere, per lui, era ancora più devastante della morte. E se non si era lasciato morire subito, rinunciando a qualsiasi cosa pur di non dover soffrire per la scomparsa di Matt, era stato soltanto perché io dovevo essere protetto, perché io, in quando No.3, non potevo sopravvive da solo. In questo modo, la mia stessa esistenza avrebbe negato a Mello la libertà di morire.
Il colpevole ero io. 
Io che non parlavo, non agivo senza ordini, non prendevo iniziative, io ero la causa di tutto ed avevo vinto perché gli altri non erano stati capaci di rinunciare ai legami e alla libertà. L’apatia era un’ancora di salvezza, la capacità di rimanere distaccati da qualsiasi cosa, approfittando delle situazioni e vivendo sotto l’ala protettiva di qualcun altro. Quello ero io, quello era il carattere vincente. 

 
Sotto le lenzuola bianche potevo ragionare con calma, ragionare sulla mia nuova esistenza, su tutto quello che nella mia vita avevo vissuto. Avevo il tempo di pensare a quello che avevo perso, a quello che avevo guadagnato, al vero motivo che mi aveva portato a quella vittoria non desiderata. Avevo la possibilità di chiudere gli occhi e prendere un sonno, per la prima volta, tranquillo, caldo e pulito. Avevo la libertà di contare i motivi per cui avrei dovuto piangere, e poi farlo per davvero, versando quelle lacrime che mi spettavano di diritto, dopo aver perso le persone più importanti della mia vita per i capricci di uomini ciechi.
Ma non feci niente di questo. Non mi crogiolai nel dolore, non dormii tranquillo, non pensai a quello che mi aspettava l’indomani, non ne fui capace. Quelle prima notte nella mia nuova casa, della mia nuova esistenza, la passai a ricordare, a fare sorrisi tristi e illudermi che, forse, ora Matt e Mello erano in un posto migliore, insieme e felici.
Ricordai tutto, quella calda notte.

 
“Conoscenze di base? Ma che idiozia è questa? Chiunque saprebbe accendere un fuoco con due legnetti!” Mello chiuse il libro sul banco, rendendo così visibile la copertina dove un bimbo sorridente leggeva una mappa disegnata per orientarsi in un bosco. 
Quella era l’unica ora che avevamo in condivisione sia io, che Mello, che Matt. Serviva per insegnarci tutte le basi per sopravvivere in terre desolate, per trovare un rifugio o per trovare da mangiare. Non sapevamo ancora che quelle, un giorno, sarebbero state le nostre unica possibilità di sopravvivenza, che davvero ci saremmo ritrovati in situazioni tanto disperate. Sembravano solo tante nozioni da imparare a memoria e accantonare in un angolo del cervello, nel caso estremo ci fossimo un giorno persi nel bosco. 
Ce le insegnavano per dare a tutti le stesse possibilità di vittoria, a prescindere dal carattere. L’insegnante era una donna abbastanza giovane, col rossetto rosso a marcare le labbra sottili e l’aspetto serio di chi è lì per portare a termine un compito ben preciso, ne più, ne meno. 
“E se i legnetti non ce li hai?” Matt era appoggiato completamente al banco, sul libro aperto alla pagina che l’insegnante doveva spiegarci quel giorno, con l’espressione di chi è pronto ad addormentarsi da un momento all’altro.
“Non accendo il fuoco e tanti saluti, non morirò certo per così poco!”
“Sei proprio tonto, Mello! Il freddo è uno dei nemici più pericolosi per l‘uomo.”  
“Vorrà dire che lo ucciderò.”
Matt non rispose subito, non sicuro se Mello stesse scherzando o meno “… Non puoi uccidere il freddo, Mello. E’ una sensazione, lo senti sulla pelle ma non puoi toccarlo!” 
Mello si limitò a sbuffare, dondolandosi con la sedia esattamente come ci avevano sempre detto esplicitamente di non fare. “E’ una fregatura, il freddo.”
Matt ridacchiò, stirando un po’ le braccia, voltando la testa quando l’insegnante aprì la porta con uno scatto secco. 
“Due! Non dondolarti sulla sedia!” entrò e lanciò uno sguardo alla classe, bianca, lucente, pulita come al solito. Incredibilmente grande per soli tre ragazzini.

 
“Near, aiutami!” la voce lamentosa di Matt arrivò da dietro le mie spalle, facendomi voltare poco prima che riuscissi a prendere la prima cucchiaiata di zuppa. Rimisi il cucchiaio pieno nel piatto e lo guardai avvicinarsi e sedersi affianco a me, aprire dei libri e indicarmi una riga con l’indice “Tu hai un sacco di ore di matematica, quindi ne sai sicuro più di me che ne faccio solo due la settimana… Qui!” pigiò più forte il dito poco sotto un paio di numeri scritti con una calligrafia alquanto discutibile “Non mi viene! Ho provato a rifarlo e… Niente!” 
Osservai un attimo il foglio, seguendo i passaggi di quella breve espressione. “Per forza” risposi poco dopo “Due alla terza fa otto, non sei” 
Matt si voltò subito verso di me, gli occhi spalancati dallo stupore “Davvero? Ma…” si grattò la testa confuso “Due più due più due fa sei, ne sono sicuro… Non è che ti sbagli?”
“No, guarda…” presi la penna che si trovava in mezzo al quaderno “Quello che hai fatto tu è due per tre, non è la stessa cosa. Nelle potenze bisogna moltiplicare lo stesso numero tante volte quanto è indicato dell’esponente, quindi due per due per due. Fa otto, vedi?” scrissi il tutto su un foglio, per poi volgere lo sguardo su di lui. Aveva un’espressione disorientata, come fosse la prima volta che sentiva parlare di quelle cose. “Non ti piacciono molto le potenze, vero?” gli chiesi, accennando un leggerissimo sorriso.
“No, è la matematica in generale… Non la capisco! Tu invece sembri davvero bravo in queste cose! Grazie mille per l‘aiuto!”
Arrossii a quelle parole e a quel suo sorriso tanto stupendo che gli comparve sul volto non appena si voltò verso di me. Non sapevo come facesse a sorridere in quel modo tanto naturale, a mostrare senza alcun problema la sua felicità al mondo, come se non fosse qualcosa che avrebbe potuto perdere da un momento all’altro. Al suo posto, io avrei avuto paura di vederla sparire all’improvviso, senza motivo, senza speranza che ritornasse.
Io preferivo nasconderla dentro di me, tenerla mia, solo mia. Non volevo dare a nessuno l’opportunità di portarmela via.
“Se continui a fare così, finirà che te la ruberanno…” sussurrai tra me e me, abbassando lo sguardo sul piatto ancora caldo davanti a me.
“Eh? Hai detto qualcosa, Near?” fu l’unica cosa che rispose Matt, sfoggiando ancora quel suo meraviglio e caldo sorriso.

 
La scatto della porta seguita dal leggero cigolio nel momento in cui venne aperta mi fece sussultare proprio mentre osservavo l’orologio digitale segnare le 11.34. A quell’ora, era vietato qualsiasi spostamento all’interno del dormitorio.
Mi voltai verso l’entrata, e mi sorpresi di vedere Mello, di spalle, mentre richiudeva la porta dietro di sé. “Che ci fai qui?” gli chiesi, alzandomi col busto dal letto.
“Non mi va di dormire, mi stavo annoiando” rispose semplicemente, avvicinandosi mentre faceva luce con una piccola torcia.
“E’ vietato uscire dalle proprie camere dopo le dieci, Mello”
“E chissene frega. Io e Matt lo facciamo sempre e non ci hanno mai beccato”
Mi sorpresi un attimo a quelle parole; loro si incontravano la notte? Non ne avevo mai saputo niente, ma alla fine, non mi stupiva neanche più di tanto. Che Matt e Mello avessero un legame più forte di quanto non lo fosse il mio con loro, era ovvio.
“E allora perché sei venuto qui?” 
“Ho litigato con Matt” fu la sua risposta sbrigativa mentre si intrufolava tra le coperte per sdraiarsi al mio fianco “E va’ un po’ più in là!”
Mi spostai di poco, per lasciargli lo spazio di mettersi comodo. Non me lo aspettavo ma l’idea che avesse pensato che, nonostante tutto, io ero meglio di nulla, non mi dava poi tanto fastidio.
Attesi in silenzio che dicesse qualcosa, con lo sguardo rivolto al soffitto e la pelle del braccio che sfiorava il pigiama leggero di Mello. Mi sentivo così stranamente tranquillo, nonostante niente di quella situazione rispecchiasse l’ordinario. Ma eravamo soli, io e lui, circondati dal buio della mia camera e col rumore leggermente fastidioso delle cicale in sottofondo. 
“Vedo la Stella Polare” disse poco dopo Mello, tirandosi le coperte fin sotto al mento.
“Non si vedono le stelle da camera mia” risposi perplesso, girandomi verso di lui. Lui però alzò un braccio, ad indicarmi una piccola chiazza più scura nel soffitto. “Mello, quello probabilmente è un moscone, o una macchia, non una stella”
“Per me è una Stella. E quella la Luna” e stavolta indicò la lampadina che pendeva al centro della camera.
“Perché?” 
“Perché il cielo di notte non ce lo fanno mai vedere, quindi può essere come pare a noi. E per me quella è la Luna, e lì c’è anche Saturno” disse, e riprese ad indicare vari punti del soffitto dove immaginava di vederci costellazioni e pianeti, stelle e, quando proprio voleva esagerare, un’intera galassia.
Lui parlava descrivendo perfettamente i dettagli di quel cielo inventato, e io piano piano vedevo. Mille puntini luminosi si accendevano in quel soffitto bianco, nel buio risplendevano le scie di stelle cadenti. Giove e Venere brillavano poco lontano dalla Luna, mentre nell’angolo più lontano della camera vedevo apparire per la prima volta Marte. “Allora, le vedi?” mi chiese, quando ormai aveva finito di elencare tutti i nomi che si ricordava dall’ultima lezione di Astrologia. 
“Sì… E’ davvero bello” dissi soltanto, sottovoce, col terrore di rompere quell’incanto, di vedere quel manto stellato andare in pezzi non appena avessi allungato la mano per diventare parte di esso.
“Allora sei proprio come Matt. Io non vedo proprio nulla. Siete pazzi” disse brusco e si girò di lato, chiudendo gli occhi e strattonando a sé le coperte “Buonanotte”
Distesi di poco le labbra in un sorriso amaro. Mi aveva preso in giro, solo per vedere come avrei reagito.
Eppure, quel cielo c’era ancora. Sopra la mia testa, la bellezza delle stelle ancora si mostrava in tutto il suo splendore, facendomi nascere dal cuore un sorriso che non potei in alcun modo trattenere. Lo feci, sorrisi, per davvero, gli occhi puntati sulla Luna e la mano tesa verso di essa. 
Quella notte, il mio soffitto era un cielo stellato.
 

 
- Fine -
 
 




 
Ed è così che concludo la long. Il sorriso di Near, forse l’unico, mi ispirava davvero tanto.
Forse non ci stava troppo, ma non ho trovato niente da aggiungere, mi sarebbe parso solo di allungare il capitolo sempre con gli stessi discorsi. 
Detto questo, il mio amorevole ritardo. Di un anno e mezzo.
Ne sono pienamente consapevole e non saprei come scusarmi. In parte, posso davvero dire che ci tenevo a finire questa fic in maniera più che decente. Volevo essere totalmente soddisfatta del risultato, e, non dico che è così, ma in sé non mi dispiace.
E spero davvero che voi la pensiate come me.
Non sembra, ma questa storia mi ha davvero impegnato più di quanto mi aspettassi, e ho davvero passato serate a pensare a quali sarebbero stati i giusti ricordi da inserire. Poi mi sono messa a scrivere perché davvero, dopo un anno e mezzo i miei sensi di colpa erano alle stelle, e sono venuti fuori da soli.
Spero non siano OOC, ho fatto del mio meglio ma, dai, avevano si e no sei anni all’epoca, un po’ di farfalline in mente penso ce le avessero anche loro.
Concludo dicendo che sono davvero felice di averla scritta. Sarà perché è la prima long che concludo, o perché scrivere drammatico mi emoziona sempre molto, ma è davvero col sorriso sulle labbra che pubblico quest’ultimo capitolo.
Le recensioni mi hanno fatta davvero felicissima, sono rimasta senza parole perché raramente mi è successo di sentirmi tanto felice per una recensione. 
Quindi ringrazio chi ha recensito o vorrà recensire questo capitolo, e anche chi ha inserito tra Seguite/Preferite/Ricordate, che è sempre un piccolo modo per far sapere ad un’autrice che si ha apprezzato il suo lavoro.
 
Di nuovo grazie mille.
 
By Ming
  
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