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Autore: Flami Destrangis    22/08/2013    8 recensioni
Durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo a Tokyo, a seguito di un errore Conan torna a rivestire i panni di Shinichi, risolvendo il macabro caso di omicidio in cui si trovano implicati. Nonostante cerchi come al solito di nascondere la sua comparsa, il giorno successivo sul giornale compare una foto della serata in cui sono ritratti lui e Ran. La nuova apparizione del detective liceale più famoso del Giappone sembra destare molto interesse: ma, allo stesso tempo, smuoverà le acque di una storia che non tutti vogliono riportare a galla.
“Mi piacerebbe correre fuori, lavarmi tutto di dosso. Lasciare scorrere sulla pelle ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”
Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di "In bianco e nero" che teneva in mano.
“Ma che domande sono, papà. Lo sai anche tu: resterebbero i tuoi libri"
Genere: Drammatico, Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Alla mia compagna di scritti, letture e deliri,
ben consapevole che nessuna delle mie pagine
potrà mai essere paragonata nemmeno ad una sola delle tue parole.
Ad Aya_Brea



 

In bianco e nero

 

“L'amore è una grave malattia mentale.”
(Platone)


 

1. Il cielo è troppo alto per noi


 

“Ricordiamo che questa sera il famoso romanziere Yusaku Kudo presenterà ufficialmente il suo ultimo libro, dal titolo “In bianco e nero”. La presentazione avrà luogo all'Haido City Hotel di Tokyo, nel corso di una serata di beneficenza organizzata proprio dall'autore stesso e dalla moglie, l'ormai ex attrice Yukiko Kudo. Ed è tutto per questa edizione, auguriamo una buona giornata ai nostri telespettatori e arrivederci al telegiornale della sera.”

La solita e ormai ben conosciuta sigla rimbombò tra le pareti dello studio di Kogoro Mouri, svegliando il detective che si era beatamente addormentato sul divano sorseggiando una birra fresca. Fece un sonoro sbadiglio, e si mise a sedere constatando con non poco disappunto che la bottiglia era ormai agli sgoccioli. Il volume della televisione si impennò improvvisamente, e la pubblicità delle nuove patatine al formaggio richiamò nello studio una Ran furibonda.
“Insomma papà, che diavolo combini? Starei cercando di studiare.”
In quattro balzi raggiunse la tv, e si mise in cerca del telecomando. Aveva i capelli legati in una crocchia tenuta perfettamente insieme da una matita, che lasciava sfuggire appena qualche ciuffo sulla nuca. Ran odiava avere i suoi capelli intorno mentre studiava: quelle ciocche che cadevano sul libro e davanti agli occhi la innervosivano togliendole la concentrazione. Appoggiò la penna che ancora teneva in mano sul tavolino e perlustrò ogni angolo del tappeto in cerca del telecomando che non si trovava. Nella fretta aveva dimenticato le pantofole in camera, e sui piedi scalzi scintillava lo smalto rosa perlato che aveva scelto per quella sera. Kogoro si mosse ancora, e questa volta il volume calò drasticamente. Ran, che gattonava sul tappeto, lo sguardo ben fisso a terra, alzò gli occhi, guardandolo con fare accusatore: “Non ti sarai di nuovo addormentato sopra il telecomando vero? L'ultima volta hai svegliato i vicini in piena notte alzando involontariamente il volume a dismisura.”
Kogoro assunse un'espressione seccata, come se fosse stufo di essere rimproverato costantemente da una figlia che diventava giorno dopo giorno più simile a Eri.

“Ma cosa dici, Ran?” sbuffò, alzandosi. “Lo sai che dopo quella volta sto attento a..”
Incastrato tra lo schienale e i cuscini, spuntava un piccolo parallelepipedo nero pieno di pulsati colorati. Ran si alzò, spolverandosi i jeans e stringendo i denti nel tentativo di non parlare. Prese il telecomando e premette con decisione il pulsante rosso. Lanciò un'ultima occhiataccia al padre, che aveva portato una mano dietro la nuca e si stava esibendo in una delle sue risatine sdrammatizzanti, e si incamminò verso la sua camera non dicendo altro che: “Io studio ancora altre due ore prima di iniziare a prepararmi. Sul tavolo c'è il pranzo per Conan. Vedi di non combinare altri guai in questa giornata libera che ti sei preso.” 
Si sentirono dei passi rimbombare per la casa, una porta sbattere e poi più nulla. Solo il ronzio di una mosca che era riuscita ad intrufolarsi dalla finestra dimenticata accostata. Il traffico della città era quel giorno più fastidioso del solito: i clacson non si facevano scrupoli a suonare e il rumore delle gomme sull'asfalto e dei freni messi in funzione all'ultimo tormentavano non solo le orecchie dei passanti, ma anche quelle di chi, come Kogoro e Ran, se ne stava tranquillamente a casa propria. Se tranquillamente si poteva dire, poi. Kogoro continuava a ciondolare tra lo studio e la camera, ispezionando ora l'armadio in cerca del vestito migliore da poter indossare quella sera, ora le cartelle degli ultimi casi affidatigli. Ma era talmente confuso dal sonno, dalla birra e dall'ansia che quando si trovava davanti all'armadio finiva sempre per pensare a chi poteva essere il rapinatore che infastidiva il quartiere, e quando sbirciava le foto e i fogli delle cartelle la sua mente vagava di qua e di là, alla ricerca della faccia che avrebbe fatto Eri vedendolo tirato a lucido e agghindato di tutto punto. Insomma, quel pomeriggio si prometteva inconcludente. Ran, dal canto suo, non appena tornata a casa da scuola non aveva perso tempo in chiacchiere. Aveva mangiato in velocità la prima cosa che aveva trovato in frigo e si era chiusa in camera a studiare: il giorno seguente aveva un compito in classe e le mancavano ancora pagine su pagine da ripassare, e troppo poco tempo per riuscire a completare tutto. D'altro canto, aveva bisogno di almeno due ore per prepararsi alla serata di gala in cui il padre di Shinichi avrebbe presentato il suo ultimo romanzo: aveva sentito che molti dei partecipanti sarebbero stati eleganti, e anche se non comprendeva tutto quello sfarzo per una serata di beneficenza, non voleva essere da meno. E inoltre, in fondo al suo cuore, sperava di incontrare Shinichi: certo, al telefono Yukiko le aveva detto che molto probabilmente Shinichi non sarebbe venuto, che era ancora troppo impegnato in quel caso a cui stava lavorando, ma che poteva farci lei se la speranza non le moriva dentro? Continuava ad ardere come una fiammella che si autoalimentava nel suo cuore. Non era solo per il compito in classe che era nervosa: era quell'ansia di non sapere se Shinichi sarebbe comparso, quella paura di vedere infrante le sue speranze ancora una volta. Forse avrebbe di nuovo cercato Shinichi tra gli sguardi della gente, tra gli smoking e le cravatte, avrebbe provato a riconoscere la voce di lui tra i frammenti di discorsi che l'avrebbero colpita, e forse tutto ciò l'avrebbe portata solo all'ennesima delusione: eppure era così bello sperarci, anche se quel fuoco le corrodeva le vene. Mentre cercava di scovare l'incognita di quella dannata equazione, le sembrava quasi che quelle y e quelle x somigliassero terribilmente ai tratti di Shinichi, e ogni minimo passaggio le riportava alla mente che c'era una piccolissima e remotissima possibilità di poterlo vedere quella sera: certo, così piccola da essere improbabile, ma c'era, e questo, solo questo, era l'importante. Si soffermò ad osservare lo smalto rosa perlato che aveva passato anche sulle unghie delle mani: le faceva risaltare le dita, rendendole più sottili e, se così si poteva dire, eleganti. Ma basta, non poteva permettersi di continuare a pensare ad altro, quell'equazione era ancora incompleta e pretendeva di essere risolta prima di un'ora a quella parte. Provò a riconcentrarsi: quei due termini potevano elidersi, ora poteva procedere in quell'altro modo, ma se Yukiko le aveva detto che Shinichi probabilmente non sarebbe venuto, perché non mettersi il cuore in pace una volta per tutte? Lanciò la matita dentro l'astuccio e richiuse il quaderno sbuffando. Era impossibile riuscire a concentrarsi. Appoggiò il capo sul libro, chiudendo gli occhi e lasciandosi schiacciare dal peso dei suoi pensieri. Il cuore le batteva troppo forte, cosa avrebbe fatto se si fossero incontrati? Non si vedevano da quella volta a Londra, quando.. quando Shinichi le aveva confessato i suoi sentimenti. E anche lei prima, sì, insomma, non esplicitamente, però gli aveva fatto capire di non essere indifferente a lui. E quanto era stato bella quella corsa per la città inglese, e lui che la inseguiva, che urlava il suo nome, e poi lui che la fermava tenendole ben stretto il braccio, e ancora le parole che le aveva detto, no, non avrebbe mai potuto scordare il salto mortale che aveva fatto il suo cuore in quegli attimi. Era stato come se una forza centrifuga l'avesse fatto schizzare improvvisamente ai confini dell'universo, poi aveva preso a girare, a roteare finché una forza centripeta non l'aveva di nuovo attratto verso il suo posto nel petto, ricordandogli che il suo compito era quello di battere e che non ci potevano essere sconti a quel lavoro che durava una vita. Si accorse di star fissando il vuoto oltre alla scritta “Lineamenti di Matematica” che occupava metà della copertina del libro. Non poteva continuare a lasciar vagare il cervello per conto suo: aveva bisogno di concentrazione, concentrazione, concentrazione. Ma come poteva trovarla, con quel tarlo continuo che le rodeva la mente? Lo sguardo le cadde sul cellulare che aveva lasciato appoggiato sul letto. Si alzò, convinta più che a quel punto la certezza di un no era meglio dell'incertezza di un sì. Digitò in fretta e furia il messaggio che aveva più volte ripensato in quei giorni, e che non aveva mai trovato il coraggio di scrivere, troppo spaventata di ricevere una risposta negativa. Scorrendo i numeri della rubrica, trovò quello che le interessava: Shinichi. Premette su “Invio” e portò il telefono sulla scrivania. E ora chi riusciva a studiare finché non arrivava la risposta. Con il cervello in panne, ritornò sulla sua equazione più volte ripresa e abbandonata. Mancava poco ormai, qualche calcolo ed eccolo lì il risultato: x = 2. Sì, certo, due. Il voto che avrebbe preso il giorno seguente in quel maledetto compito.



 

“E fu così che la sua vita finì, forse in maniera troppo stupida rispetto alla folle intelligenza con cui aveva preteso di viverla. Aveva sognato di qualcuno che gli parlava di un mondo spaccato tra bianco e nero, e lui aveva sempre creduto di essere un bianco esiliato dagli altri nel nero. Aveva visto la sanità mentale nella pazzia, e la pazzia nella sanità mentale, aveva rovesciato il mondo credendo di leggerlo nell'unica maniera giusta in cui potesse essere letto, e aveva ucciso per dimostrare la sua potenza, la sua forza, il suo concetto di giustizia, e la sua utilità. Guidato da un lucido squilibrio, alla fine aveva solo dimostrato al mondo l'unica grande verità che ci governa: l'essere umano, per quanto forte si creda, muore schiacciato dalla più stupida inezia.”
Conan tacque, continuando a camminare. Accanto a lui, Ai manteneva la sua espressione tranquilla, gli occhi leggermente più socchiusi del solito, come se fosse concentrata in un ricordo recondito, intrappolato dentro il suo animo: o come se stesse semplicemente ascoltando con attenzione. Le ultime parole pronunciate da Conan l'avevano turbata: l'uomo che si crede così forte da disporre della vita altrui finisce poi calpestato dalla più inutile e più inevitabile delle fini. Quella frase le rimbombava dentro, vibrandole in ogni tessuto del corpo, passandole da un neurone all'altro alla velocità della luce, rompendo il muro del suono nel suo cervello: cos'è che la turbava tanto? Forse il fatto che in parte lei si ritrovava in chi aveva disposto della vita altrui: le sue ricerche di un tempo l'avevano portata ai limiti della fantascienza, dove solo i registi, gli scrittori e i sognatori avevano osato spingersi. I suoi farmaci avevano probabilmente ucciso, avevano rimpicciolito lei e Conan, avevano sconvolto il ciclo naturale del sistema vitale: come moderni Frankestein venuti dopo Prometeo, lei e gli altri ricercatori dell'Organizzazione si erano spinti forse troppo in là, toccando un baratro da cui era impossibile darsi la spinta per risalire in superficie. Non c'era redenzione oltre il proprio limite: e il peccato mortale della tracotanza prima o poi travolgeva l'uomo che l'aveva commesso, sradicandolo dalla terra come un semplice ramoscello. Ai rabbrividì. Improvvisamente sentì di nuovo intorno a lei il fracasso della città, che si era prima zittito per lasciar parlare i suoi pensieri. Riaprì del tutto gli occhi, e portò le mani alle spalle, sistemandosi la cartella. Sentiva lo stomaco attorcigliato su se stesso come un serpente velenoso.
“Anche a te ha fatto un certo effetto, eh? Mio padre non aveva mai concluso un libro in questa maniera. L'ho letto solo una volta e non ho potuto fare a meno di imparare a memoria la parte finale. Penso proprio che sia uno dei migliori libri che abbia mai scritto. Che ne dici?”
Conan posò i suoi occhioni azzurri sull'amica che, dal canto suo, continuava a fissare il mondo davanti a sé. Piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte. Si limitò ad annuire.
“Va tutto bene, Ai?”
La bambina si schiarì la voce, tossicchiando. Più passava il tempo e più i suoi modi di fare da donna si rendevano evidenti. Shiho era troppo cresciuta per poter fingere di essere una bambina: Shinichi, invece, anche nei suoi panni di diciassettenne aveva mantenuto un che di infantile, quella curiosità e quella capacità di simulare, investigare, domandare e interessarsi di qualsiasi cosa, anche della più futile, che rendeva il detective tanto simile ad un bambino.
Ai annuì, abbozzando un sorriso. Si passò una mano sulla fronte, scombinando le ciocche di capelli che le ricadevano quasi sugli occhi.
“E' davvero notevole. Di cosa parla il libro?”
Conan non sembrò convinto dall'apparente tranquillità dell'amica. Decise comunque di non fare altre domande: Ai aveva sempre i suoi pensieri per la testa, pensieri che spesso risultavano incomprensibili alla maggior parte della gente comune. Forse stava semplicemente pensando a qualcuna delle sue ricerche, o il suo cinismo l'aveva portata ad un altro momento di acuta critica sul mondo in cui le era toccato vivere. Anche se il suo fiuto gli suggeriva che c'era qualcosa di più, si limitò a crederle.
“E' una storia strana, ambientata a New York. C'è un detective, il protagonista, che si trova ad investigare su un caso apparentemente più grande di lui. Per uno dei quartieri della città si aggira un killer che uccide senza un motivo: le vittime non sembrano avere alcun collegamento tra loro, hanno sesso ed età diversi, e vengono uccise ogni volta in maniera differente. Gli ultimi tre omicidi avvengono durante una serata di beneficenza organizzata in un prestigioso hotel: e durante questa serata un famoso romanziere presenta il suo nuovo libro.”
“Ma non è esattamente ciò che sta facendo ora tuo padre?”
Conan annuì.
“Ha voluto ricreare perfettamente l'atmosfera e la sala descritte in quei capitoli.”
Ai fece uno strano sorrisetto, come se non comprendesse quello sfoggio di eccentricità.
“A me sembra una cosa piuttosto macabra. Non vorrei che si ripetesse quello che avviene nel libro.”, aggiunse con ironia.
“Non c'è pericolo. Nessuno ha letto quel libro a parte mia madre, me, e l'editore. Mio padre è molto attento a non far girare i suoi manoscritti prima della pubblicazione.”
“E non usa il computer per scrivere?”
“A volte sì. Altre volte preferisce il cartaceo.”
“Qualcuno potrebbe intrufolarsi nel suo computer e sbirciare molto tranquillamente tra i suoi dati.”
Conan rise, portandosi le mani dietro la nuca e alzando gli occhi al cielo.
“Sei sempre la solita, Ai.”
Erano ormai quasi arrivati all'agenzia investigativa di Kogoro. Dovevano solo svoltare a destra e poi percorrere l'ultimo tratto di strada.
“E poi, che succede?”
“Che intendi?”
“Dopo la serata di beneficenza. E gli omicidi.”
“Davvero vuoi saperlo? Non voglio toglierti la sorpresa.”
Ai scosse la testa, e lo guardò con una curiosità malcelata. Si vedeva che, anche se cercava di nasconderlo, moriva dalla voglia di sapere cosa succedeva. Conan tacque ancora un poco, come se cercasse di riordinare i pensieri: probabilmente voleva solo tenerla sulle spine un altro po'.
“Il detective è casualmente presente a quella serata, e dopo il primo omicidio non riesce ad evitare la morte delle altre due persone. Per lui quel caso è una frustrazione continua. Sta di fatto che nel commettere l'ultimo omicidio il killer commette un errore, e il detective riesce ad identificarlo. Scappa, c'è un inseguimento. Sono solo loro due, il killer e il detective che si rincorrono per le vie di New York. Un paio di pagine è dedicato alla descrizione di questa scena.”
Fece una pausa, e Ai non mancò di incalzarlo.
“E poi?”
“Poi.. beh, stanno attraversando un ponte. Il killer è avanti, si gira per controllare a che distanza si trova il detective. Sa di essere braccato, ma non ha paura. E' come se tutto ciò lo divertisse: sta guardando indietro, sbatte sulla ringhiera laterale, inciampa, si sbilancia, e cade oltre la protezione non troppo alta. Fa un salto di quasi dieci metri, è buio, e il detective vede solo l'acqua che si increspa e poi risucchia quel corpo nero che da lì sopra sembra un semplice puntino. Poi più niente, il corpo del killer viene ritrovato il giorno dopo, trasportato quasi un chilometro più in là dalla corrente. E allora il libro termina con quel pezzo che ti ho citato prima.”
Rimasero entrambi in silenzio. Avevano svoltato, mancava poco alla casa di Conan. Ai era tornata a socchiudere appena gli occhi. Era di nuovo concentrata in se stessa.
“E questo killer, chi era?”
“Una persona apparentemente normale. Il profilo che si evince dalle righe è quello di uno squilibrato, il quale soffre di manie di persecuzione e crede che il resto del mondo lo consideri pazzo e non al livello altrui. Questo scatena la sua rabbia, che si manifesta nei suoi omicidi: per lui è un modo come un altro per mostrare il suo potere sugli altri, è la sua vendetta sul mondo.”
“E come si intitola questo libro?”
In bianco e nero. Il killer vede il mondo spaccato a metà: i bianchi sono i sani, gli uomini normali, quelli da cui lui crede di essere rifiutato. Pensa che tutti lo considerino nero, come una macchia nell'umanità. E un po' la vecchia divisione tra bene e male, rivisitata in chiave moderna. E' difficile parlarne, penso che dovresti leggere il libro per capirlo.”
Ai fece un sorriso amaro. Chiuse del tutto gli occhi, per poi riaprirli con un sospiro. Un velo di tristezza coprì per qualche secondo le sue iridi.
“Invece penso di aver capito perfettamente.”
Anche lei si era sentita per fin troppo tempo nera come la pece. E, per quanto avesse tentato di lavarlo via, quel nero le era penetrato dentro, marchiandole l'anima con un'ustione di quelle che non si cancellano più, di quelle che il tempo cicatrizza solo per rendere meglio visibili. Era stata per così tanto tempo in mezzo al nero che, quando si era ritrovata improvvisamente catapultata nel bianco, era stato come essere un pesce fuor d'acqua: eppure l'aria per vivere gliela forniva proprio il bianco, mentre il nero la soffocava. Era strana: forse era destinata a non sentirsi mai pienamente a suo agio.
“Ehi, Ai, siamo arrivati.”
La bambina fece quasi un salto. Si era di nuovo persa nei suoi pensieri, e la voce di Conan l'aveva sorpresa. Alzò lo sguardo e riconobbe le ben conosciute scale che portavano allo studio di Kogoro.
“Scusa, ero sovrappensiero. Allora ci vediamo domani a scuola.”
“Sei sicura di non voler venire stasera? Mio padre non ha voluto televisioni, ci sarà solo qualche giornalista delle testate principali. Non sarà un evento particolarmente mediatico, non penso ci siano pericoli.”
“No, preferisco non rimettere piede all'Haido City Hotel ancora per un po'. Troppi pessimi ricordi.”
Conan non osò biasimarla, in fondo Ai aveva rischiato la vita sul tetto di quell'hotel. Aveva le sue buone ragioni per non volerci tornare: forse era passato ancora troppo poco tempo, o forse non ne sarebbe mai passato abbastanza.
“Vorrà dire che ti procurerò io una copia del libro di mio padre. Mi sembra che ti piaccia.”
“Grazie, in effetti vorrei leggerlo. I libri che ci danno da leggere a scuola cominciano a diventare davvero troppo noiosi.” disse, con un che di disappunto nella voce. Ai e Conan odiavano davvero quei libri illustrati che la maestra dava loro da leggere: Shinichi li aveva già letti tutti a suo tempo e Shiho, abituata fin da piccola a vivere nel mondo dei grandi, aveva sempre tralasciato tutto ciò che piaceva ai più piccoli. “Ora vado, devo controllare che il dottor Agasa non si ingozzi troppo con quello che gli ho preparato ieri sera.”
Conan sorrise, immaginando la pena del dottor Agasa nel dover sottostare continuamente alle regole di Ai. La bambina gli preparava solo determinati cibi, scartando tutto ciò che non riteneva sufficientemente salutare e calibrando le porzioni con la precisione di un chimico che cercava di elaborare un nuovo e stupefacente composto. I due si salutarono senza tanti convenevoli, e Ai si incamminò verso casa. Le ultime parole di quel libro le avevano portato nell'anima una serie di sentimenti contrastanti. I ricordi si erano fatti di nuovo vivi, così come la paura di essere scovata dall'Organizzazione: il suo destino era costantemente appeso ad un filo, e alle volte si sentiva talmente in bilico da pensare che prima o poi sarebbe inevitabilmente caduta. Alzò gli occhi al cielo, e vide la scia di un aereo in quella piccola porzione di azzurro che i grattacieli le permettevano di vedere. Si sentì improvvisamente troppo piccola in confronto a quello sconfinato cielo e ai quei palazzi così alti. E poi c'era uno strano senso di impotenza: quei piedi così fissamente ancorati a terra incominciarono a pesarle. Guardo di nuovo il cielo, così alto e infinito. Non avrebbe mai potuto volare. Non avrebbe mai potuto essere libera.






Proprio mentre stava per alzarsi in punta di piedi nel tentativo di raggiungere il bottone del campanello, Conan sentì il cellulare vibrare in tasca. Aveva impostato degli avvisi diversi per i due telefoni, di modo da capire subito se la persona ricercata era Conan o Shinichi. In quel caso qualcuno aveva appena mandato un messaggio al detective liceale e non al bambino delle elementari un po' troppo intelligente per la sua età. Prima ancora di leggere il nome del mittente, sapeva già chi lo stava cercando. Aveva letto negli occhi di Ran la voglia di scrivergli per un'intera settimana.

“Ehi, Shinichi. Come stai? Probabilmente già lo saprai, ma questa sera io, mio padre e Conan andremo all'Haido City Hotel per la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku. Mi farebbe piacere vederti, spero che tu riesca ad esserci.”

Conan lesse il messaggio, immobile davanti alla porta. Lo Shinichi dentro di lui ribolliva per uscire. Avrebbe fatto qualunque cosa per rendere felice Ran: si sarebbe strappato quella pelle di bambino di dosso, quel maledetto involucro che gli sdoppiava la personalità e lo teneva imprigionato come in una prigione di materiale indistruttibile. Ma non poteva, non poteva presentarsi quella sera. Certo, quello che aveva detto ad Ai era vero: non ci sarebbero stati inviati delle reti televisive, ma chi avrebbe potuto impedire ai giornalisti di scrivere sui loro articoli “anche il figlio dell'autore, il famoso detective liceale Shinichi Kudo, era presente.” ? La presenza di una bambina in più come era Haibara sarebbe di certo passata inosservata, ma quella del figlio di Yusaku Kudo no di certo. Aveva lottato tanto per tenere il segreto, per proteggere Ran e tutti i suoi amici da quella storia più grande di loro con cui non dovevano assolutamente venire in contatto. Non poteva rischiare ora, non poteva lasciare che i sentimenti lo trasportassero oltre il limite che la ragione e il buon senso gli avevano indicato. Shinichi Kudo doveva restare fuori dalla circolazione ancora per un po'. Ripose il cellulare in tasca, avrebbe risposto a Ran con più calma, chiuso nella sua stanza e lontano da occhi indiscreti. Starnutì, e suonò il campanello. Quando Kogoro venne ad aprirgli, starnutì di nuovo. Accidenti, forse stava prendendo il raffreddore.
“Ehi, piccoletto, tutto a posto? Hai fatto tardi oggi.”
“Mi ero fermato a parlare con Ai.” poi, guardandosi intorno e non vedendo nessuno: “Ran è di sopra?”
Kogoro ritornò alla sua postazione sul divano, su cui si era nuovamente abbandonato dopo aver scelto il completo da indossare quella sera. Stava sfogliando alcune cartelle, senza venirne come al solito a capo, ma, sempre come al solito, più sicuro che mai che l'illuminazione sarebbe prima o poi arrivata.
“Sta studiando. Ha detto che il pranzo per te è sul tavolo.”
Conan intanto si era avvicinato, saltando sullo schienale del divano e spiando le cartelle da dietro la spalla di Kogoro. Il detective alzò il sopracciglio, infastidito da quel bambino ficcanaso.
“La smetti di curiosare in cose che non ti riguardano? Vattene di sopra a studiare, e smettila di intralciare come al solito con le tue domande impertinenti!”
Conan saltò giù dal divano prima che Kogoro lo facesse sloggiare a forza. Che noia, e di cosa si lamentava poi? Se non fosse stato per Conan Edogawa, Kogoro Mouri avrebbe avuto un quarto dei clienti che aveva attualmente. Salì le scale due gradini alla volta. Sul tavolo trovò effettivamente quello che Ran gli aveva preparato: accidenti, erano onigiri, li adorava. E poi Ran sapeva dare loro un gusto particolare che lui non riusciva a definire. Mangiò due di quegli onigiri speciali, ricordandosi della prima volta che Ran gliela aveva preparati: erano alle scuole medie, tredici anni appena compiuti e i genitori fuori casa per un weekend alle terme insieme. In quei giorni avevano dormito dal dottor Agasa che, per le occasioni come quella, diventava per loro una sorta di nonnino acquisito. Una sera Ran aveva per la prima volta preparato gli onigiri, basandosi sul libro di ricette che Eri le aveva regalato per il compleanno: l'estetica non era granché, ma il sapore era assolutamente divino. Shinichi ricordò che erano stati svegli fino a tarda sera a mangiare, ingozzandosi come se non toccassero cibo da giorni; la notte, puntualmente, nessuno dei due aveva dormito per il mal di pancia. Ma il gusto di quegli onigiri Shinichi non l'avrebbe più dimenticato. In quattro balzi fu davanti alla camera di Ran e, mentre abbassava la maniglia, si accorse di avere un gran mal di testa. Doveva aver preso fresco sul serio, accidenti. Ran stava china sui suoi libri, facendo girare nervosamente la penna tra le dita. Quando Conan le parlò, ebbe un sussulto: forse era così presa dai suoi problemi da non averlo sentito entrare.
“Ti disturbo, Ran?” chiese lui, la sua vocina da bambino innocente impostata al massimo. Gli occhi di lei sembravano tristi, malinconici. Non era il problema di matematica ad assorbirla completamente. Mi dispiace, Ran, mi dispiace tantissimo.
La ragazza scosse il capo, provando a sorridergli.
“No, dimmi pure.”
“Gli onigiri che hai preparato erano buonissimi. Sei sempre la migliore cuoca, Ran.”
Le aveva fatto quel complimento nel tentativo di farla sorridere, e invece gli occhi della giovane non si illuminarono affatto. Le sue labbra si incresparono come tirate dai fili di una marionetta. Non era felice. Posò di nuovo lo sguardo sul suo libro.
“Sai, quegli onigiri piacciono molto anche a Shinichi. Ogni volta che li preparavo ne mangiavamo a bizzeffe. La prima volta ricordo che ci venne una mal di pancia bestiale: i nostri genitori erano alle terme e tornarono appositamente per noi da quanto si erano preoccupati.”
Conan avrebbe voluto rispondere, prendere parte a quei ricordi dai quali, in quel momento, si sentiva inevitabilmente escluso. Eppure quelli erano anche i suoi ricordi. Avrebbe voluto urlare: Ran sono io, Shinichi! Non mi riconosci? Sono qui davanti a te.
Invece non disse nulla. In silenzio, come sempre, per l'ennesima volta.
Ran tornò di nuovo a guardarlo. Si vedeva che si sforzava di sorridere.
“Scusami, Conan, magari questo a te non interessa. Dai, vai di là a studiare, che tra un po' dobbiamo iniziare a prepararci per stasera. Il tuo vestito è pronto nell'armadio.”
Si chinò e gli diede un bacio sulla guancia. Conan non divenne rosso, né reagì come al solito, quando lo stomaco gli si attorcigliava in pancia e il cervello andava in tilt. Questa volta, semplicemente, gli venne spontaneo abbracciarla.
“Ti voglio bene, Ran.”
Sentì lei ricambiare la stretta.
“Anche io, Conan. Dai, ora vai di là altrimenti non riuscirai a fare i compiti.”
Conan annuì, non potendole certo dire che i compiti li avrebbe fatti il giorno successivo, cinque minuti prima che la campanella suonasse. Non ci voleva molto tempo per fare quei semplici calcoli che la maestra assegnava loro. La cosa che più di tutto lo stupiva era che Ai ogni pomeriggio si metteva sempre di sana pianta e il giorno dopo portava a scuola tutti i compiti perfettamente svolti. Diceva che usava quei banali esercizi per riscaldare il cervello prima di mettersi al lavoro sui suoi farmaci. Conan non aveva mai capito se scherzasse o meno. Prima di uscire notò il cellulare di Ran poggiato sulla scrivania: lei stava attendendo una risposta, una risposta che era tardata già troppo. Il bambino si chiuse in camera e prese il cellulare di Shinichi. Lo impostò in silenzioso, e rilesse il messaggio. Come poteva risponderle senza farle troppo male? E come se non bastasse, il mal di testa aumentava. Si sdraiò sul suo futon, iniziando a digitare le prime parole. La solita vecchia e consunta scusa: era impegnato in un caso importante, non era in città e forse per quella sera non sarebbe riuscito a raggiungere Tokyo. Forse. Perché annientare subito ogni speranza? Inviò il messaggio e appoggiò la testa sul cuscino. Si addormentò senza nemmeno rendersene conto.
Dopo quelli che gli sembrarono cinque minuti, sentì battere alla porta.
“Ehi, Conan, sei qui? Va tutto bene?”
Era la voce di Ran. Perché bussava alla sua porta? Guardò l'ora: le cinque di pomeriggio passate. Accidenti, aveva dormito per quasi due ore, e l'aperitivo all'Haido City Hotel iniziava per le sette e mezza. In conclusione, era in ritardo. E per di più aveva scordato la porta chiusa a chiave. Fece volare il cellulare di Shinichi sotto al futon e corse ad aprire. Il mal di testa non gli era ancora passato. Sulla soglia trovò una Ran preoccupata, l'asciugamano a turbante che le nascondeva i capelli. Doveva aver da poco fatto la doccia.
“Conan, mi hai fatto spaventare. Quante volte dovrò dirti ancora di non chiudere la porta a chiave? E se poi non riesci più ad aprire?”
Ran si prendeva così cura di lui. In quel momento tutte quelle attenzioni e preoccupazioni non gli davano fastidio. Affatto.
“Mi sono addormentato, mi dispiace. Il bagno è libero? Corro a farmi una doccia.”
Sparì in bagno senza dire altro, cercando di impiegare il meno tempo possibile. Il cellulare di Shinichi era ancora sotto il futon, e probabilmente Ran gli aveva risposto. Non voleva del tutto piantarla in asso. Sentiva il rumore del phon provenire dalla camera della ragazza: per fortuna, non doveva essere entrata nella sua stanza. Uscì dal bagno ben stretto nel suo piccolo accappatoio, i capelli ancora bagnati che gli cadevano a ciocche disordinate sulla fronte.
Effettivamente Ran gli aveva mandato un messaggio. Gli diceva di non preoccuparsi, che se era impegnato e aveva altro da fare lo capiva. Solo le avrebbe fatto piacere rivederlo, dopo quanto era successo. Questa volta il bambino arrossì. Ran dunque voleva parlargli, come era ovvio che fosse. Non poteva scappare in eterno. Starnutì di nuovo e si soffiò rumorosamente il naso. Il suo raffreddore stava peggiorando. Si vestì in fretta, indossando il suo piccolo smoking comprato appositamente per l'occasione. A Ran era stato detto che era un regalo del dottor Agasa, mentre invece era stata la madre stessa a mandarglielo, sostenendo che vestito così sarebbe stato un vero e proprio amore. Si guardò allo specchio: in realtà, si sentiva a dir poco ridicolo in giacca e pantaloni eleganti. Starnutì ancora. Maledizione, forse si stava davvero prendendo un brutto raffreddore. Prese in mano il cellulare e nel frattempo aprì il cassetto dove teneva le medicine, in cerca di un'aspirina da portarsi quella sera, nel caso in cui il suo raffreddore fosse degenerato in influenza. Fu così che, in fondo al cassetto, trovò la scatola in cui teneva l'antidoto sperimentale all'APTX. Haibara gliene aveva dato uno di riserva, raccomandandogli di prenderlo in situazioni disperate. Secondo i loro patti, Ran non rientrava nelle situazioni disperate. Mentre cercava l'aspirina, digitò il messaggio da inviare.
Ci rivedremo presto, Ran. Te lo prometto.
Sperò che la ragazza avesse ancora la forze di credere alle sue promesse. Proprio allora sentì la porta aprirsi, e Ran fece capolino nella stanza. Conan lasciò cadere il cellulare nel cassetto, voltandosi. Aveva scordato di chiudere la porta a chiave. Ran aveva i capelli perfettamente lisci, doveva aver passato la piastra: quando gli si avvicinò, sentì che erano ancora caldi. Gli occhi erano truccati con un filo di matita che faceva risaltare le sue iridi azzurre, e del mascara che rendeva sinuose e lunghe le ciglia; il rossetto rosa e lucido dipingeva perfettamente le sue labbra. Era stupenda.
“Che stai facendo?”
“Oh, nulla.” disse Conan, “cercavo un'aspirina da portare. Mi sa che mi sono preso il raffreddore.”
Ripose la pillola in tasca, sperando che Ran non sentisse il battito del suo cuore.
“Il raffreddore? Fammi sentire la fronte.”
“Va tutto bene, davvero. Vai pure a vestirti, mi sa che Kogoro è già pronto.”
“E va bene, Conan. Non sembri caldo.” disse, passandogli una mano sulla fronte. “E guarda che bello che sei, vestito così. Questa sera dovrai farmi da cavaliere.”
Gli sorrise, e uscì. Alla luce di quel complimento, Conan si guardò nuovamente allo specchio, ma la brutta sensazione di essere ridicolo permaneva. Prese il cellulare di Shinichi e lo ripose in tasca, starnutendo di nuovo. Chissà come si sarebbe agghindata sua madre quella sera: conoscendola, si sarebbe probabilmente travestita secondo la descrizione di uno dei personaggi del romanzo. Ah, già: doveva anche ricordarsi di prendere una copia del libro per Haibara. Era sicuro che le sarebbe piaciuto.






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Salve a tutti! Ok, probabilmente nessuno di voi saprà chi sono dato che non pubblico una long vera e propria da quasi un anno a questa parte e per motivi di tempo recensisco solo un quarto delle storie che leggo o a cui mi capita di dare un' occhiata. Detto questo: l'idea per la storia è nata a partire da una shot che mi è venuta in mente una volta. Ho poi deciso di ampliarla e da lì è nata la storia vera e propria così come ho intenzione di farla evolvere. Devo ringraziare Aya_Brea, dato che l'idea per la shot iniziale mi è venuta per via di una scommessa fatta con lei :>
E' la prima volta che pubblico una long senza averla già scritta tutta, per cui per me questa storia è anche una sorta di esperimento e di prova.. speriamo che ne esca fuori una cosa carina e apprezzabile :) Non penso che gli aggiornamenti saranno velocissimi, soprattutto per via dello studio che spesso bisogna mettere in primo piano.. spero comunque che vogliate seguirmi :)
Ringrazio chi mi ha dedicato un po' del suo tempo. Un bacione <3
Al prossimo capitolo,
Flami



 

  
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