Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: La neve di aprile    23/08/2013    3 recensioni
“Perché!” esclama puntuale Raffaele, rompendo silenzio e indugi per approdare al mio fianco. Mi guarda con occhi azzurri, così azzurri da mettermi quasi a disagio, e pianta i pugni nei fianchi.
“Perché cosa?” chiedo con aria da finta tonta, sbattendo le ciglia e giochicchiando con il guinzaglio lasco al collo del mio cane nuovamente seduto, felice della distrazione. Lo vedo protendere il muso verso le dita di Raffaele, pronto a leccargliele affettuosamente.
“Perché l’hai fatto, perché l’hai distratto?”
Perché così avresti smesso di fissarmi con l’aria di uno che pregusta un gran sesso – facendo peraltro venir voglia pure a me di fare un gran sesso – quando decisamente non è il momento di pensare a del gran sesso.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Due di uno'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Disclaimers
Sofia, Raffaele, Kobe, Tea © La neve di aprile
L’intreccio qui descritto rappresenta copyright dell’autrice (La neve di aprile).



A Kora, che è l’amore della mia vita.
E a Kobe, che un giorno arriverà e sarà il manzo del mio cuore.

 
 

The name of the game

- The name of the game -

 
 

What's the name of the game?
(your smile and the sound of your voice)
Does it mean anything to you?
(got a feeling you give me no choice)
ABBA – The name of the game

 
 
Ecco, mi sta guardando di nuovo.
Me lo sento, riesco a sentire il suo sguardo perforarmi la schiena, dritto in mezzo alle scapole, così preciso che se fosse un bisturi potrei aspettarmi di veder sbucare la punta della lama dallo sterno.
Cosa che mi scoccerebbe alquanto, visto che ho addosso una delle mie canotte preferite e non ho intenzione di separarmene almeno fino ai prossimi saldi e solamente nel caso riesca a trovarne una che mi faccia delle tette più pazzesche di questa.
 
“Ma ciao cucciolone, chi è un bel cucciolone?” esclamo con voce acuta, chinandomi su Kobe che, da tranquillo e a terra com’era, reagisce all’istante saltando verso di me e sbilanciandomi con tutti i suoi ventisette chili di peso. Una montagna di bionda felicità che spazza la terra rossa del campo con la coda, sollevando una nuvola che il vento disperde distrattamente.
 
“Perché!” esclama puntuale Raffaele, rompendo silenzio e indugi per approdare al mio fianco. Mi guarda con occhi azzurri, così azzurri da mettermi quasi a disagio, e pianta i pugni nei fianchi.
 
“Perché cosa?” chiedo con aria da finta tonta, sbattendo le ciglia e giochicchiando con il guinzaglio lasco al collo del mio cane nuovamente seduto, felice della distrazione. Lo vedo protendere il muso verso le dita di Raffaele, pronto a leccargliele affettuosamente.
 
“Perché l’hai fatto, perché l’hai distratto?”
 
Perché così avresti smesso di fissarmi con l’aria di uno che pregusta un gran sesso – facendo peraltro venir voglia pure a me di fare un gran sesso – quando decisamentenon è il momento di pensare a del gran sesso.
 
Raffaele mi guarda, io guardo Kobe che guarda Raffaele.
Ammettere che l’ho fatto perché è effettivamente un bel cucciolone, con i suoi sette mesi e mezzo di pura energia, non è una bugia così difficile da pronunciare. Lui sospira, allungando al cane la tanto agognata carezza.
 
“Rimettilo seduto, facciamo un paio di diagonali…” sospira, nascondendo negli occhi chiari il sorriso che manca alle labbra e avviandosi verso il centro del prato. Batte le mani, richiamandoci tutti all’ordine.
 
Akea, la Golden alla mia sinistra, abbaia felice e cerca di saltare in braccio al suo padrone, mentre Lucky, il labrador alla mia destra, scatta in avanti trascinandosi dietro la sventurata padrona. Non posso fare a meno di nascondere una risata dietro la mano, ringraziando silenziosamente la buona stella che ha tenuto il culo di Kobe per piantato a terra nonostante di solito sia il primo a prendere la tangente quando sente batter le mani. Cosa che peraltro non mi sono mai spiegata, dal momento che quando giochiamo le mani le uso per fare la lotta con lui. Inizio credere sia un effetto collaterale del fascino di Raffaele, cui non sono immuni neppure i cani.
 
Quando però siamo finalmente di nuovo in linea, pronti ad avanzare come un sol uomo con il cane al piede, sono la prima a sballare la fila rimanendo indietro.
 
“Sofiaaaa! Veloceee!” mi urla dietro Raffaele, per una volta inconsapevole di essere la causa dell’errore. Mi ero incantata a guardare la peluria bionda sul profilo dei suoi avambracci.
Gonfio le guance e accelero, tirandomi dietro Kobe impegnato a cercare tartufi.
 
“Fatti guardare, tiragli su il naso da terra!”
 
La voglia che ho in questo momento di zittirlo.
La voglia che ho sempre di zittirlo quando gli scappa il tono da oddio-quanto-sei-stupida-non-posso-credere-tu-non-abbia-ancora-capito.
Come se non sapessi da me che il mio cane preferisce di gran lunga annusare che non camminarmi incollato alla gamba e guardarmi con occhioni adoranti come sta facendo Thea al fianco di Raffaele.
Il solo motivo per cui non lo sfido a fare di meglio è perché ho la matematica certezza che Kobe, quella gran puttana del mio cane, una volta passato il guinzaglio si trasformerebbe in un altro cane. Un cane educato che non ha bisogno di frequentare una lezione due volte a settimana da due mesi a questa parte. Un cane cheto, desideroso di compiacere, che gioca quando vuole il padrone; un cane che non tira e che non sente il bisogno di saltarmi nel letto alle quattro del mattino con la pallina in bocca.
Così ingoio tutto il mio fastidio sfoderando il mio tono più stupido per incitare Kobe a starmi accanto, tirando con fermezza il guinzaglio verso l’alto nel tentativo di sollevargli il muso da terra e cercando disperatamente di non dare a vedere quanto mi stia divertendo.
 
E quanto, sotto sotto, in fondo mi piaccia sentirmi addosso lo sguardo di Raffaele.
 

*

 
Da bambina non ho mai avuto cani.
Dopo un increscioso incidente che ha coinvolto gatti, cavalli e ospedale i miei genitori hanno deciso che no, bestie pelose in casa non ne avremmo mai avute. Così, per compensare la mancanza di un migliore amico a quattro zampe, comprarono una libreria nuova per la mia cameretta.
Col senno di poi – un poi lungo quasi quindici anni – hanno ammesso che comprarmi un cane probabilmente avrebbe risparmiato a me anni di reclusione a scuola – tutto tempo speso a leggere piuttosto che a giocare alle Spice Girls con quelle che decisamente non erano le mie amichette – nonché una considerevole cifra investita nell’industria letteraria.
Non che abbia mai effettivamente patito la mancanza di un cane, il pallino dell’averne uno tutto mio mi è venuto quando sono capitata per puro caso in un campo d’addestramento e ho visto l’affiatamento tra cane e padrone mentre lavoravano. Qualcosa che non avevo mai avuto modo di vedere, figuriamoci di considerare.
Eppure, mentre me ne stavo lì con la macchina ferma in mezzo a un viottolo di campagna ignorando bellamente l’altra macchina dietro la mia e il suono piuttosto sgradevole del clacson pigiato, mi sono ritrovata a pensare a quanto bello sarebbe stato poter provare una cosa del genere, sperimentare una tale sintonia ed essere la depositaria di una fiducia così grande. Perché quello era, il cane che aspettava seduto mentre il padrone si allontanava, fiducia.  Totale, completa fiducia.
 
Kobe è arrivato come un regalo da me stessa a me stessa.
Un azzardo, probabilmente, ma dopo averci pensato per mesi mi sono decisa a fare il Grande Passo – perché in fondo è una forma di matrimonio anche questa per come lo vedo io, fin che morti non vi separi, nella buona e nella cattiva sorte, anche quando improvvisamente non hai che calzini spaiati nel cassetto e il tuo tanga preferito l’hai ritrovato dove un tanga non dovrebbe mai stare – e prendere un cane. Un Golden, perché sarebbe un po’ una bugia dire che non ho mai guardato alle pubblicità della Scottex senza vomitare arcobaleni alla vista del loro panzerotto biondo e perché un Terranova sarebbe stato decisamente troppo grande per il buco in cui vivo. E si, lo so benissimo che il cucciolo della pubblicità è una Labrador, ma a me piaceva il Golden. Che tanto poi sempre Retriever sono.
Quello che le pubblicità non dicono è che il Golden non è esattamente un peluche da coccolare fin che non ci si stanca, contento di starsene a giocare con la carta igienica come non ci fosse un domani. O meglio, quello anche lo fa, ma nessuno ti dice poi che raccogliere coriandoli di carta igienica belli pregni di bava è un lavoro disgustoso, lungo e noioso. E nessuno ti spiega mai che i Golden sono creature straordinariamente attente all’umore del loro umano – Dio, parlo come Raffaele ora! Umano, non padrone – e che quindi una volta sgridati sanno esibire un muso così terribilmente dispiaciuto e colpevole che diventa impossibile non perdonarli. E nel momento in cui lo fai, con in mano tutti i coriandoli sbavati che hai appena raccolto, loro sono così contenti che hanno proprio bisogno di saltarti addosso e condividere la loro gioia con te che sei il loro umano, facendoti cadere di culo per terra e facendo cadere non solo i coriandoli, ma anche l’unica pianta di tutta la casa, con il risultato che il tuo bel parquet non è più un parquet ma uno strano miscuglio di carta mezza sciolta e terriccio.  E quindi? Quindi lo sgridi di nuovo, ovviamente, ed ecco che il cucciolo in questione si rattrista così tanto da accucciarsi – mogio mogio – sul tuo nuovo pavimento. Risultato? Un cane biondo impanato di terra e carta igienica. Che tu non puoi non perdonare, perché queste creature malefiche sanno farti sentire una persona davvero brutta solo guardandoti con quello sguardo, ed ecco che di nuovo ti salta addosso impiastricciandoti tutta. Allora lo mandi a cuccia, strillando come una dannata e a un passo dalla crisi isterica. Inutile dire che “cuccia” non è il cuscinone abbandonato in un angolo del micro-salotto, ma il divano dove hai avuto la malaugurata idea di farlo dormire mentre guardavi Le pagine della nostra vita l’altra sera, in preda ad un disperato bisogno di affetto e amore. 
Ricapitolando: cane sporco, casa sporca, divano sporco, tu sporca.
 
Mi sono arresa dopo due settimane.
Due settimane passate a convincermi che avrei potuto farcela, che in fondo è un cucciolo dal buon carattere, che “mi sono laureata stando con uno stronzo, vuoi che non sappia gestire una palla di pelo?”.
No, la palla di pelo non la sapevo gestire. Soprattutto non potevo più permettermi di portare a lavare la federa del divano.
Ma per fortuna esistono persone che invece lo sanno fare e che hanno avuto, da qualche parte nel bel mezzo della loro vita, la geniale idea di mettersi ad insegnare agli altri come si fa. Alla faccia di quelli che “chi sa fa, chi non sa insegna”: la prima volta che vedi un educatore lanciarsi in mezzo alla rissa tra due maschi di quaranta chili che han deciso di giurarsela a morte e, nel giro di trenta secondi al massimo, i due cagnoni ringhianti sono due cuccioloni troppo cresciuti che scodinzolano e stanno seduti come non fosse successo niente, ecco che arrivi a mettere in dubbio la saggezza popolare che dovrebbe stare dietro il modo di dire.
 
L’Oasi mi ha salvato la vita.
O meglio, me la sta salvando tutt’ora e continuerò a salvarmela fin tanto che non avrò capito come gestire il mio piccolo manzo.[i]
Quello che non mi aspettavo, nell’assolato pomeriggio di inizio maggio che mi ha vista varcare il cancello del campo, era il dover gestire un secondo manzo.
Bel muso, carattere tosto, un pelo indisciplinato – del tipo che se lo chiami non risponde e continua a farsi i fatti suoi.
 
Umano, indiscutibilmente.
Sicuramente discutibile, però.
 
Raffaele.

*

 
“Dai, vieni qui. Hai l’aria distrutta.”
 
Mi volto verso Raffaele solo dopo aver chiuso Kobe in una gabbia vuota, passandomi il guinzaglio liso attorno al collo: se ne sta seduto su una panca, una sigaretta abbandonata tra le labbra schiuse e la sua miglior espressione da scavezzacollo.  
Vorrei prenderlo a sberle, ed effettivamente forse dovrei farlo appurato che ieri sera ho provato a chiamarlo almeno tre volte e non si è degnato di richiamarmi, ma sono talmente stanca che mi limito a crollare accanto a lui e posare la guancia sul tavolo. Il legno è ruvido sulla mia pelle, eppure mi sembra di stare in paradiso.
 
“Giornata lunga?” mi chiede, salutando con un cenno gli ultimi ritardatari.
 
“Infinita” sbadiglio, senza curarmi di mettere una mano davanti alla bocca. Ad occhi chiusi, il mondo si riduce ad un confortevole buio caldo di sole, profumato di bosco. Profumato di Raffaele che si alza e mi piazza entrambe le mani sulle spalle, massaggiandole con decisione.
D’un tratto la stanchezza se ne va, e sono più sveglia che mai. Raddrizzo la schiena, sfiorando inavvertitamente la stoffa morbida della sua maglietta con le spalle scoperte.
 
“Pensi di poterla fare durare un altro po’?”
 
Okay, sono ufficialmente sveglissima.
Se ci fosse un modo per rendere liquido o commestibile l’effetto che ha su di me probabilmente diventerei ricca da far schifo.
Raffaele sporge le mani oltre le mie spalle, intrappolandomi tra il suo petto e il tavolo, per poi chinarsi a strofinarmi il naso sul collo un paio di volte, con lentezza deliberata.
 
“Dipende” bisbiglio di rimando, fingendo di non avere le gambe di gelatina e le dita che prudono dalla voglia di afferrargli il collo per poterlo baciare.
 
Non che non mi vada di fare sesso – del gran sesso, per inciso –, ma mi piace divertirmi un po’. Proprio come lui ha fatto per tutta la durata della lezione, con le sue occhiate e le frecciatine gratuite.
Mi chiedo se qualcuno abbia notato qualcosa, se non commentano per buona educazione o se lo fanno perché già conoscono le dinamiche di Raffaele: sono l’ultima arrivata al campo, e la più giovane single che partecipa alle lezione. Tutti gli altri miei coetanei presenti sono già belli che sposati, o in procinto di esserlo.
In effetti non sono sicura di voler sapere cosa gli altri pensano o quanto effettivamente sanno.
 
“Ce l’hai una felpa in macchina?”
“Fai un sacco di domande, oggi.”
“Tu pensa a rispondere, ce l’hai o no una felpa?”
 
Smetto si arrovellarmi sul perché del suo indagare e scuoto la testa.
 
“No, pensavo di tornare dritta a casa e collassare sul divano dopo aver dato da mangiare a Kobe.”
 
Ed essermi sparata una generosa dose di Nutella in corpo, per sopperire alla mancanza di amor proprio che ancora mi tiene inchiodata qui, a due centimetri da te, concedendoti spazio e modo di fare i tuoi giochetti.
 
“Allora te ne presto io una. Fammi un favore, dai da mangiare alle bestie e poi lasciale giocare un po’” mi posa un bacio tra i capelli, probabilmente il gesto più tenero che abbia mai fatto nei miei riguardi, poi lo sento allontanarsi verso la macchina “Io torno tra una mezz’ora, d’accordo?”
 
Prima di avere il tempo di rispondergli sento una portiera chiudersi e il motore accendersi. Mentre se ne va ho una fugace visione del suo sorriso e non posso fare a meno di chiedermi cosa diavolo abbia intenzione di fare.
 

*

 
Se due anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei avuto una storiella di sesso – di gran sesso, per essere precisi – con un allevatore-barra-addestratore non ci avrei creduto. Non mi sarei neppure sprecata a ridere forte, avrei tirato dritto e basta.
Ma del resto due anni fa stavo ancora con Luca, uno stronzo che oltre a rendermi la vita un inferno mi ha pure regalato un palco di corna da far invidia ad un alce. Due anni fa ero Sofia, la timida Sofia. Quella che studia tanto ed esce poco, che se esce lo fa al seguito del suo ragazzo e decisamente non perde tempo a pensare di comprarsi un cane, no no.
Una Sofia innamorata della persona sbagliata, ma innamorata. E per questo disposta ad ogni genere di sacrificio per far funzionare le cose. Anche quando non c’è proprio modo di farle funzionare.
È stato solo dopo essermi laureata per la seconda volta e aver annaspato per trovare un lavoro che mi sono resa conto dello spreco di tempo e energie che rappresentava Luca. Una fatica che neppure Kobe nei suoi momenti peggiori richiede ed esige. Una fatica che non ero più disposta a tollerare. E a cui ho rinunciato non senza una buona dose di sensi di colpa e pianti sconsolati su infinite vaschette di gelato.
 
Trovarmi libera e padrona della mia vita dopo tanto tempo è stato un po’ come una sbronza  lunga mesi e apparentemente priva di strascichi. Probabilmente ero ancora un pelo brilla quando mi sono trovata davanti Raffaele e i suoi sorrisi. Altrimenti non ci sarei sicuramente finita a letto assieme due ore dopo aver parlato con lui per la prima volta.
 
E non ci sarei tornata, puntuale, dopo ogni lezione da quel giorno in poi.
 

*

 
“Thea, seduta” scandisco placida alla Labrador nera, una ciotola in mano e la porta della gabbia nell’altra. Kobe sta già masticando felice e contento le sue crocchette, dopo avermi guardato con espressione perplessa per almeno dieci minuti mentre – inutilmente – gli chiedevo di sedere.
Inutile dire che Thea non esita un istante nell’eseguire e arriva al cibo molto più in fretta di quanto abbia fatto il mio stupido manzetto. Che secondo me stupido non lo è affatto, ma come tutti i maschietti quando è ossessionato da qualcosa – in questo caso il cibo – stacca il cervello e smette di ascoltare. Un difetto genetico che accomuna l’intero mondo animale maschile, per quel che mi riguarda.
 
Poso la ciotola e arretro, socchiudendomi la porta alle spalle mentre Kobe abbaia e scodinzola, sollevato sulle zampe posteriori. Come se questo bastasse a farlo scivolare tra le sbarre e arrivare al cibo.
 
“Scemo,” lo rimprovero a bassa voce, dandogli le spalle, “sei proprio un cane scemo.”
 
Il campo, silenzioso e deserto, è una distesa di erba rada e chiazze di terra rossa che il cielo minia di luce dorata, scivolando tra le chiome ancora verdi degli alberi che ne delimitano il perimetro. Sopra solo il cielo sgombro di nudi, incandescente di un tramonto scarlatto.
Non lo ammetterò mai con Raffaele, ma sono grata di aver scoperto questo posto: anche dopo una giornata infinita, come quella di oggi, è sempre un piacere prendere la macchina e guidare fin qui, in questo angolo di mondo apparentemente sperduto, per condividere una risata e lavorare un’ora, un’ora e mezza, senza quasi sentire la fatica.
Due sere a settimana tutti i miei problemi – le bollette da pagare, le lamentele di mia madre circa la mia inesistente vita sentimentale, la curiosità morbosa delle amiche circa la mia florida vita sessuale, il lavoro, quello strano cigolio che fa la macchina tutte le volte che metto in moto, la cucina che ha bisogno di una mano di vernice – rimangono al di fuori delle recinzioni del campo e io mi sento come se potessi finalmente respirare di nuovo. Salvo poi smettere nel preciso istante in cui incrocio lo sguardo trasparente di Raffaele e lo vedo sorridermi mentre saluta.
 
Anche se, rifletto mentre apro le gabbie e lascio che Kobe e Thea si precipitino correndo nel prato, il respiro mozzato è una novità recente. Prima era solo elettricità, adrenalina a briglia sciolta e attesa. Prima non ci avevo mai parlato davvero, né mai lui aveva dato segno di voler parlare per dire qualcosa e non limitarsi alle solite quattro parole di convenienza. Prima, a dire il vero, non mi aveva mai chiamata a metà mattina chiedendomi di bere un caffè – prima non sono sicura neppure di avergli mai dato il mio numero –, né mi aveva mai fatto passare il quarto d’ora più intenso della mia vita solo facendomi ridere quando invece mi ero aspettata una sveltina casuale in un qualche bagno.
Prima era tutto lineare, era sesso.
Adesso, invece… adesso non lo so più.
 

*

 
Quando Raffaele ritorna, portando con sé due cartoni di pizza e una coperta, sono distesa a terra e sto soffocando mentre Kobe se ne sta steso sulla mia pancia e Thea mi lecca allegramente la faccia. Non ho esattamente l’aspetto spigliato e sexy che mi ero ripromessa di avere al suo arrivo, ma non riesco a togliermi di dosso i due cani e ho smesso di oppormi alle loro attenzioni da una manciata di minuti.
 
“Serve aiuto?” indaga lui, fermo sopra di me e teso nello sforzo di non ridere.
“Più di quanto mi piaccia ammettere” mugugno tornando a chiudere gli occhi in attesa del suo intervento. Che non arriva. Spio verso di lui, senza vedere altro che il suo glorioso fondoschiena che si allontana verso il pergolato con le panche.
“EHI!” strillo indignata “Dove vai, non mi aiuti?”
“Nah, è più divertente vedere come te la cavi da sola.”
“Sei proprio uno stronzo” sbuffo, cercando di far leva sui gomiti e liberarmi almeno di Thea.
“Uno stronzo carino però!” mi corregge ridendo.
“Uno stronzo rimane uno stronzo a prescindere,” sibilo, spingendo via Kobe e rialzandomi prima che possa tornare all’attacco. Un fischio acuto accorre in mio soccorso, richiamando all’ordine Thea che scatta senza indugio e porta con sé Kobe, alle sue calcagna nella speranza di un ennesimo round di lotta. Li seguo senza fretta, strofinandomi le mani sui jeans lerci.
 
“Beh, questo stronzo ha procacciato la cena” esordisce Raffaele nell’uscire dalla piccola baracca dove un frigorifero fa compagnia alle coppe vinte da Thea e dagli altri cani che ha avuto con una lattina di birra per mano. Mi guarda e scoppia a ridere, senza ritegno.
 
“Mi hai detto tu di farli giocare!” protesto indignata, cercando di non ridere a mia volta. Devo avere un aspetto orrendo, infarinata di terra rossa dalla testa ai piedi, ma questo non significa che lui abbia il diritto di ridere di me così apertamente.
 
“Non credevo bisognasse specificare che la tua partecipazione ai giochi non era prevista. Dio, hai proprio bisogno di una doccia!” continua a ridere, strofinandosi una mano sul viso come ad asciugare una lacrima.
 
“Beh, scusa tanto se mi piace giocare con i cani!”
 
Gli passo accanto, senza degnarlo di un’occhiata, e afferro uno dei due cartoni di pizza per sbirciare all’interno. Un attimo dopo guardo lui, interdetta.
 
“Come…?”
“Come facevo a sapere che la margherita con le verdure grigliate è la tua preferita?” conclude al posto mio, avvicinandosi con quella che dev’essere una vecchia maglietta umida d’acqua. Non mi è chiaro quando l’abbia presa, ma la sensazione fresca sulla pelle è impagabile. Me la strofina sulla faccia e sul collo, con delicatezza, scostandomi i capelli dalla fronte. “Me l’hai detto tu, una volta.”
“E tu te ne ricordi” commento inebetita. Io neanche ricordo di quando gliel’ho detto.
“Io ricordo tutto, Sofia” soffia con un filo di voce bassa, chinandosi a guardarmi negli occhi. I suoi hanno il mare dentro, e nella luce morente della sera si sono fatti bui come la notte imminente: guardarci dentro è come affogare in balia di correnti dolcissime.
Morire così, penso un attimo prima che le sue labbra trovino le mie, non è un brutto modo di morire.
 

*

 
La pizza è fredda e deliziosa.
Ne divoro una fetta dopo l’altra, avvolta in una felpa troppo grande per me, ascoltando Raffaele che parla del suo primo Expo con Anja, una Labrador Chocolate affidatagli da un allevatore marchigiano. Avvolta nella nuvole pungente del suo odore – sulla pelle, sulla stoffa –, mi ritrovo a pendere dalle sue labbra proprio come fanno tutti i cani dall’istante in cui è lui a stringere il guinzaglio. E se sul campo è qualcosa che mi irrita profondamente, ai margini del campo non lo trovo più poi così sgradevole.
O forse è solo il sesso che rende tutto più dolce ai miei occhi, non lo so.
Ma qualcosa è e anche lui se ne accorge, interrompendosi a metà di una frase e posando il mento su una mano per guardarmi dritta negli occhi. Ho un fremito e mi sento arrossire.
 
“Cosa c’è?” chiedo imbarazzata. Impreparata all’intensità del suo sguardo pulito.
“Sei buffa.”
 
Buffa non è esattamente quello che una ragazza spera di sentirsi dire dall’uomo con cui fa sesso regolarmente due volte a settimana da quattro mesi a questa parte.
Buffa decisamente non è qualcosa che una ragazza spera di sentirsi dire dopo aver fatto sesso con quell’uomo.
Buffa è una parola che dovrebbe essere rigorosamente illegale in qualsiasi situazione preveda del sesso.
 
“Ho detto qualcosa che non va?”

Bravo, te ne sei accorto, razza di babbuino. Un vero genio!
 
“Hai detto che sono buffa!” squittisco, suscitandogli una risata al posto della costernazione che avrebbe dovuto saggiamente sfoggiare. E la situazione non migliora con il mio broncio seccato dal momento che la risata si fa sguaiata al punto che persino Kobe, mezzo addormentato accanto a Thea, solleva il muso e drizza le orecchie.
 
“Ma tu sei buffa!” riprende Raffaele con le lacrime agli occhi “In modo carino però…” corregge il tiro, addolcendosi e riavviandomi una ciocca di capelli sfuggita al nodo in cui li ho legati.
“Una cosa buffa rimane buffa a prescindere” brontolo abbassando lo sguardo e mordendomi le labbra.
“Dovresti pensare un po’ meno alle cose a prescindere e di più al contesto in cui sono inquadrate.”
“Cioè?” torno a sbirciarlo, mio malgrado incuriosita.
“Cioè prova a guardarti con i miei occhi. Sei inzaccherata di terra rossa, con addosso una maglia che sembra volerti inghiottire da un momento all’altro, e mangi come se non mangiasse da una settimana…” s’interrompe per sorridere “Devi ammettere che anche tu al posto mio rideresti!”
“Non ci trovo niente da ridere, invece!” protesto piccata, tornando a rimboccarmi le maniche della felpa sugli avambracci. Non fosse che effettivamente fa freddino e che ci sto troppo comoda dentro – avvolta dal suo profumo come fosse un abbraccio – me la toglierei all’istante.
“Perché pretendi sempre troppo da te stessa” commenta neutro, addentando un boccone e poi buttando giù un sorso di birra. Rimango in silenzio, in attesa.
“Lo vedo, sai? Non ti concedi una tregua, stai attenta a non ripetere mai gli stessi errori e quando succede ti arrabbi più di quanto serva. Ti sforzi molto di fare le cose così come vanno fatte ed è una cosa bellissima, non fraintendermi, ma quando prima sono tornato e tu eri stesa a terra, senza preoccuparti di nulla che non fosse divertirti, avevi uno sguardo che ti ho visto addosso pochissime volte. Ed eri bellissima, finalmente libera. Finalmente tu.”
 
Raffaele tace, senza avere l’aria di uno che si è lasciato sfuggire una parola di troppo, e continua a guardarmi. Sento gli occhi pizzicare e mi concentro sulla pizza per non dare a vedere quanto mi abbia toccata il suo discorso.
 
“La prima volta che sei venuta qui eri letteralmente terrorizzata al pensiero di fare qualcosa di sbagliato. Si vedeva lontano un miglio, stringevi il guinzaglio come se da quello dipendesse il resto della tua vita.” Sento un sorriso farsi largo nella sua voce, caldo come la mano che si posa sotto il mio mento e lo solleva, costringendomi a ricambiare il suo sguardo. “Ma quando sei riuscita a far stare Kobe seduto e fargli un giro attorno ti sei illuminata tutto d’un tratto e tutti, te lo posso garantire, se ne sono accorti. Kobe per primo.”
“Kobe si accorge di tutto…” cerco di mascherare l’imbarazzo.
“Questo perché i Golden sono straordinariamente sensibili all’umore di chi li accompagna, ma non è questo il punto.”
“Qual è il punto?”
Si ritrae, lasciandomi andare, e si stiracchia pigramente allungandosi verso il cielo stellato.
“Potrei snocciolarti una citazione di Fabio Volo, ma qualcosa mi dice che non ne saresti affatto impressionata…” mi punzecchia, abbandonandosi ad una ritrovata leggerezza.
“Odio quel pomposo coglione” sibilo fulminea, assottigliando lo sguardo in due fessure assassine.
“Ecco, appunto!” se la ride Raffaele, incrociando le braccia sulla tavola. Sorrido a mia volta, nonostante l’imbarazzo, e abbandono il trancio a metà, posandolo nel cartone per mettermi speculare a lui, il busto di poco sporto in avanti.
“Allora, questo punto?” insisto piano, con una vaga incertezza che si fa strada nella voce.
“Il punto è che a nessuno importa se non ti riesce tutto al primo colpo. A nessuno importa che tu sia sempre perfetta, impeccabile, irreprensibile.”
“Magari è meglio così, a volte. Magari essere irreprensibili è meglio che non mostrarsi deboli. Fallibili.”
 
È Raffaele a tacere questa volta.
Si alza, raccoglie il suo cartone vuoto e si allontana lasciandomi sola a fare i conti con quanto ho appena detto. Non abbiamo discusso, non siamo una coppia, eppure mi sento come se avessi appena detto qualcosa che non andava detto, come se avessi perso qualcosa che non andava perso.
 

*

 
Non sono sempre stata così.
Maniaca del controllo, perfezionista, inattaccabile.
Lo sono diventata col tempo, quando ho imparato a mie spese di non potermi fidare completamente delle persone, che in un modo o nell’altro le mie presunte debolezze sarebbero state usate contro di me qual ora gli altri avrebbero voluto farlo. Per necessità o capriccio, per cattiveria o involontariamente, qualcosa di mio sarebbe stato usato per farmi del male e io ne avrei sofferto.
Per questo ho studiato tanto, di modo che i miei genitori non potessero rinfacciarmi nulla.
Per questo ho sopportato Luca più di quanto fosse doveroso fare, perché nessuno potesse dirmi che non c’avevo provato.
Per questo mi sono sempre impegnata più del dovuto nel lavoro, perché nessuno potesse dirmi che non ero abbastanza. Che non ero all’altezza.
Ed è soprattutto per questo che quel pomeriggio in cui ho visto un campo d’addestramento per la prima volta mi sono commossa fino alle lacrime.
Perché avevo visto uno spiraglio di salvezza in cui infilarmi, un pertugio di luce nel buio della mia fiducia tradita e poi mai realmente concessa.
Perché esisteva un modo di concederla di nuovo, un modo che non avevo mai preso in considerazione.
Non sono sempre stata così.
Non sono sempre stata così.
 
Non avrei mai voluto diventare così.
 

*

 
L’abbraccio di Raffaele arriva inaspettato, tiepido come il suo fiato tra i miei capelli, prima che la direzione imboccata dai miei pensieri inizi a reclamare una massiccia dose di Nutella per non imboccare un vicolo cieco di autocommiserazione.
 
“Ehi, Signorina Cruccio, fammi un sorriso e vieni con me” bisbiglia senza malizia, solamente dolce, raccogliendo tra le dita il mio polso e trascinandomi via.
 
Lo seguo in mezzo al prato, seguita a mia volta da Kobe che – come sempre – sembra aver percepito la mia tristezza e si struscia sulle mie gambe fiducioso. Una volta lì, mi mette in mano i lembi di una coperta e si allontana quel che basta per tenderla tra di noi e adagiarla a terra senza troppe pieghe. Un istante più tardi mi sento cadere, trascinata verso il basso, e impatto senza delicatezza contro Raffaele che, una volta tanto, ha la buona grazia di non commentare né lasciar trapelare neppure l’ombra di una lamentela.
 
“Lo sai che giorno è oggi?” mi chiede invece, lasciandomi libera di accoccolarmi come meglio credo.
“Giovedì” rispondo automatica.
“No, sciocchina. È San Lorenzo.”
“ E quindi?”
“E quindi? Che infanzia infelice hai avuto? Ci sono le stelle cadenti, la notte di San Lorenzo!”
 
È buffo così indignato, talmente buffo che glielo dico. E lui ride, proprio come avevo immaginato, rompendo un argine dentro di me e lasciando che qualcosa di caldo, di bello, di luminoso, irrompa dentro di me. Prima di potermene rendere conto la domanda mi scappa dalle labbra, sulla scia del calore che mi si è annidiato nel petto.
 
“A te importa?”
“Mi importa cosa?” fa lui, gli occhi rivolti alla volta celeste e il viso inondato dalla luce della Luna. Sento il muso di Kobe contro la gamba, e il respiro cheto di Thea mi solletica le caviglie.
“Del punto.”
“Quale punto?”
Gli tiro uno schiaffo sul petto.
 “Il punto è che, in realtà, non c’è un punto[ii]” inizia a citare “Solo una catena di att---“ lo zittisco, sollevandomi e tappandogli la bocca sotto la mia, impedendogli di concludere la frase, declinandola nel dialogo muto di una bacio pigro.
“Ricordami di citare più spesso quel… com’è che hai detto prima?”
“Pomposo coglione” gli rammento, tornando ad accoccolarmi contro il suo fianco.
“Ecco, si. Lui.”
 
Rimaniamo in silenzio, senza imbarazzi, e d’un tratto mi rendo conto che non m’importa poi così tanto di sapere se a lui del punto importa qualcosa o meno, che mi basta poter sentire il suo calore sotto le dita e il suo respiro tra i capelli, che questa giornata infinita ma destinata a finire vorrei non finisse mai.
E altrettanto rapidamente inorridisco davanti alle implicazioni della rivelazione, la gola secca e la mente invasa da un unico, annichilente pensiero: lui mi piace.
Raffaele lo stronzo.
Raffaele che mi prende in giro.
Raffaele che mi tratta come se fossi più piccola di quel che realmente sono perché non mostro gli anni che ho.
Raffaele che fa sesso con me – del grande, grandissimo sesso – e che poi a malapena mi saluta quando me ne vado dal campo.
Raffaele che dal nulla mi chiama e mi offre un caffè.
Raffaele che mi fa ridere.
Raffaele che si ricorda anche le cose che non ricordo di avergli mai detto.
Raffaele che ha capito di me più di quanto non abbiano fatto i miei genitori.
 
Raffaele.
 
Raffaele mi piace.
 
“Guarda, eccone una!” esclama all’improvviso, stringendomi più forte e indicando un punto nel cielo. Quando sollevo gli occhi, però, tutto quello che vedo è una distesa senza fine di stelle tremule, lontane, che sembrano guardarmi con una consapevolezza insolita.
“Non l’ho vista!” piagnucolo senza dovermi sforzare troppo per suonare lamentosa.
“E tu aspetta la prossima!” mi pizzica il naso.
“E se non ne arrivassero altre?”
“Vorrà dire che si realizzerà solamente il mio desiderio” proclama solenne.
“E cosa hai desiderato?”
“Che questo prato diventi più comodo, mi sta uccidendo la schiena” ride, facendo ridere anche me, così forte che è solo fortuna il mio intravedere un bagliore fugace correre nel cielo oltre il velo delle lacrime.
“GUARDA, GUARDA, GUARDA!” grido come una bambina, saltando su a sedere e indicandogli il punto dove non è rimasto neppure l’eco della mia stella cadente “L’HAI VISTA? UNA STELLA!”
“Si, l’ho vista” fa lui con un sorriso.
Ci metto qualche attimo a realizzare che non ha mai alzato gli occhi al cielo, ma li ha sempre tenuti fissi su di me. Per tutto il tempo.
 

*

 
“C’è ancora pizza?” mi sento chiedere, mezza addormentata, mentre Raffaele mi infila di forza la felpa che mi ha sfilato di nuovo, assieme al resto dei miei vestiti.
“Fame?”
“Il sesso mi fa sempre fame,” svelo con una stretta di spalle, distratta dal tendersi dei suoi muscoli sotto la pelle abbronzata, pennellata dall’argento vivido della notte. “All’inizio pensavo fosse solo una cosa legata alla crescita” rido, rendendomi conto di quanto stupida suoni la teoria, “sai, il metabolismo che cambia e tutte quelle menate lì…”
“Quanti anni avevi?” mi chiede, litigando con la manica della maglietta. Quando sbuca dallo scollo ha i capelli così scombinati che sembra un cucciolo. Nascondo il tuffo al cuore e faccio finta di niente, guardando l’orologio che porta al posto: è da poco passata mezzanotte, eppure mi sembra di essere qui da molto più tempo. I cani dormono, rannicchiati l’unico accanto all’altra, e solo Thea apre un occhio mentre ci allontaniamo.
“Quando?”
“Quando hai scoperto che scopare ti mette fame.”
“Questa è una cosa privata, signor ficcanaso!”
“Privato è quello che abbiamo appena finito di fare, mica la mia domanda!”
Touché.
“Ne avevo quindici,” cedo con un sospiro, “ed è stata una delle cose più brutte che mi siano capitate in vita mia.”
Raffaele ride, porgendomi le mani per aiutarmi a tirarmi in piedi.
“Però! Io ne avevo già diciassette e non è stato poi così male.”
“Hai mai chiesto un feedback alla tua controparte? La prima volta di voi maschietti tende ad essere piuttosto… veloce.” Storco il naso in una smorfia, godendomi la sua espressione incredula. Ma dura solo un istante, poi è di nuovo il solito Raffaele. Sicuro, rilassato.
“Non mi pare che tu abbia di che lamentarti, Sofia…” mi fa notare, inarcando le sopracciglia.
“Non mi pare mi sia lamentata, infatti, ma non è questo il punto…”
“Il punto è che…”
“Non ricominciare con quel pomposo coglione di Volo, ti prego!” alzo gli occhi al cielo, mentre con un ronzio fastidioso torna ad accendere le lampadine del pergolato per permettermi di frugare i due cartoni della pizza in cerca di qualcosa da mangiare. Sollevo un trancio mangiucchiato a metà con aria trionfante e mentre lo addento Raffaele ne approfitta per proseguire da dove l’ho interrotto.
“Il punto è che Sofia, a me non me frega niente che tu sia perfetta o irreprensibile, perché a meno che tu non faccia qualcosa di brutto o ti becchi a sbagliare qualcosa di clamoroso a lezione non ho nessun motivo di riprenderti se non per scherzare. Il punto è che mi piaci così come sei, quando ti illumini e ti dimentichi di chi ti guarda, quando sei così impegnata ad essere te stessa che mi sento morire dalla voglia di baciarti e fare l’amore con te.  Il punto è che mi piace fare l’amore con te, tantissimo, e che se all’inizio era solo sesso adesso non lo so più e mi piace scoprirlo con te perché mi piace stare assieme a te.”
 
Sento la mascella bloccata e la bocca spalancata, ma proprio non mi riesce di fare qualcosa di diverso dal guardare i suoi occhi, il suo viso, le sue labbra che si muovo e la sua voce che parla. Devo avere un’aria particolarmente stupida ma Raffaele continua a guardarmi così come mi guardava nel campo, mentre io gridavo di stelle cadenti. Come se fossi qualcosa di bellissimo e prezioso. Come nessuno, neppure Luca e quelli che sono venuti prima di lui, mi ha mai guardata.
 
“Il punto…” si strofina una mano sulla nuca, come fosse a disagio, “il punto è… tu vuoi scoprirlo con me, cosa sta succedendo? Tra di noi?”
 
E io, Sofia, quella che non ha mai avuto una storia che fosse solo sesso e niente complicazioni, quella che ha la bocca piena di un boccone di pizza fredda, annuisco e penso che se la vita fosse un film allora adesso partirebbe una canzoncina smielata e la camera si allontanerebbe dalla nostre facce facendo una ripresa del campo deserto con la coperta e i cani addormentati, per poi salire fino al cielo e mostrare un’ultima immagine delle stelle prima dei titoli di coda.
Ma la vita non è un film e non ci sono né la musica né i titoli di coda, solo io che deglutisce e Raffaele che ride, allungandosi per prendere i cartoni ormai vuoti.
 
“È tardi,” dice accartocciandoli e poi infilandoli in un bidone che domani dovrà vuotare, “me lo dirai domani.”
“Cosa?” gli faccio eco spiazzata, terrorizzata al pensiero che possa non aver colto la mia risposta alternativa, che possa averla mal interpretata o non interpretata affatto. risposta alternativa, che possa averla mal interpretata o non interpretata affatto. Sento il mio lieto fine riavvolgersi su stesso troppo velocemente. Così velocemente che per un attimo ho quasi l’impressione di essermi inventata tutto, il discorso e il mio timido annuire con la bocca piena di pizza.
Raffaele mi guarda altrettanto spiazzato.
“Perché Fabio Volo ti sta così in culo, cos'altro?”


 

FINE

 
 
 
 
 
 
 
 



[i] Nel caso qualcuno non avesse ancora colto il riferimento, Kobe si chiama come il manzo Kobe.
[ii] A quanto pare questa citazione di Volo esiste solo nella mia memoria – o magari me la sono inventata, non saprei – ma in caso qualcuno invece sapesse reperirla non esiti a segnalarmela!



Raffaele è liberamente ispirato agli allevatori-barra-addestratori-educatori del campo dove porto Kora, la mia labrador di ormai otto mesi, a scuola. Con pessimi risultati perché sono una pessima educatrice in una famiglia di gente assolutamente disinteressata all'educazione di un cane. Però al campo mi diverto sempre e gli allevatori-barra-addestratori-educatori sono, beh... tanta roba.

L'Oasi esiste davvero, è il campo dove porto Kora - e questa è la pagina web dove potete trovare informazioni migliori di quelle che potrei darvi io.

Il resto è tutto frutto della mia fantasia ed era tanto che non mi divertivo così nello scrivere qualcosa.

Buona estate :*



 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: La neve di aprile