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Autore: yuki013    24/08/2013    6 recensioni
Non aveva mai fatto caso a quanto evidente fosse la presenza di Makoto nella sua quotidianità finché lui non si era allontanato. Senza notizie, senza spiegazioni, come se la colpa fosse sua.
Come se la colpa fosse mia.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Haruka Nanase, Makoto Tachibana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Sulla strada verso casa
Wordcount: 5876
Personaggi: Tachibana Makoto/Nanase Haruka
Rating: PG13
Generi: sentimentale, drammatico
Avvertimenti: what if?, spoiler, shonen-ai, angst, triangolo
NdA: Io non dovrei essere qui per moltissime ragioni. Con qui intendo nel fandom, su Efp, whatever. Però ci sono e ci tenevo a postare almeno questa storia, alla luce della novel e dell'episodio 7 (che ha fatto malissimo a tutti noi, ikr?). Non è la mia prima storia su Free! e non sarà nemmeno l'ultima, ma ci sono affezionata per ragioni che non so e quindi eccola qui. Sono spiegazioni importanti eh.
A prescindere da quello che ho scritto sappiate che amo Rin, che comprendo il suo comportamento e che non potrei odiarlo nemmeno volendo, e qui forse sembra il contrario ma non è affatto così XD poi direi che Haruka è uno di molte parole, ma perdonatemelo, magari crescendo migliora. Infine qualche descrizione dei luoghi potrebbe non quadrare: anche qui chiedo venia, ragioni di trama.
Partorita per il Cow-T 3.5 sempre @MDC, dove "partorita" è l'unico termine che mi sovviene. Buona lettura.




Dalla cima della scalinata che portava al tempio si poteva assistere ad un tramonto fantastico. Le tonalità più varie del rosso e dell’arancione coloravano le onde, la città e il promontorio intero. Makoto spesso si era fermato ad osservare quello spettacolo quando gli capitava di riaccompagnare Haru a casa, commentando sempre con frasi su quanto lo trovasse affascinante – tenendo però per sé che la cosa che più amava era il riflesso dei colori negli occhi di Haruka che si soffermavano altrove, su quel mare ancora troppo freddo per potervi nuotare. Se Haru era dell’umore giusto rimanevano anche per minuti interi ad osservare l’orizzonte seduti sulla pietra fredda, con i gatti che si avvicinavano loro senza timore. Poi semplicemente Haru lo mandava via con poche parole, e Makoto lo salutava con una scrollata di spalle.  Ci si abitua a certe persone, ci si fa il callo ad un certo punto.
Quella sera però, entrando in casa di Haru, Makoto aveva provato una sgradevole sensazione di disagio. Non era cambiato assolutamente nulla all’esterno né all’interno. I mobili erano al loro posto, dalla cucina proveniva odore di pesce alla griglia, due paia di costumi erano stesi ad asciugare – eppure qualcosa era fuori posto, qualcosa che non riusciva a vedere ma che doveva per forza esserci. Quando si trattava di Haruka, Makoto era capace di sviluppare un sesto senso abbastanza acuto da sentire a pelle se qualcosa non andava, anche soltanto in base all’atmosfera che si respirava nella sua stessa stanza. Ne ebbe la conferma quando, annunciandosi prima di entrare in cucina, Haruka gli rispose con un “hm”. Haruka non rispondeva, mai. Quando poi ebbe l’occasione di osservarne il volto, le sue preoccupazioni si fecero più reali.
«Ho qualcosa in faccia?» gli aveva chiesto Haruka mentre mangiavano, perché intraprendere una discussione per  Makoto era sempre una piccola impresa che poteva concludersi con una mezza vittoria o con una totale sconfitta – nel primo caso quando Haru rispondeva senza rivolgergli occhiate omicide, nel secondo quando lo allontanava bruscamente. Anno dopo anno di amicizia aveva assimilato tutte le sue azioni, i suoi comportamenti, e agiva sempre basandosi su quelli. Dettagli banali come il ritmo del respiro o la piega delle sopracciglia, oppure l’inclinazione delle labbra, gli suggerivano cose di Haruka che lui era capace di interpretare per poi reagire di conseguenza. Evidentemente il suo fissarlo con curiosità era riuscito a smuoverlo in qualche modo.
«No, scusami. È che… come dire, mi sembri strano. È successo qualcosa, Haru?»
Makoto lo osservò distogliere lo sguardo dalla propria ciotola di riso, e quello non era mai un buon segno. Haru guardava da un’altra parte solo quando non voleva rispondere ad una domanda, e ciò significava che aveva fatto centro. Doveva semplicemente fare più pressione, dargli un pretesto per dirgli la verità, per non tenersi dentro qualunque cosa gli stesse dando delle preoccupazioni. Makoto era in grado di poter sopportare quelle di entrambi, purché  così facendo potesse farlo sentire meglio.
«Oggi è passato Rin.»
Haruka non notò le nocche di Makoto sbiancare intorno alle bacchette. Sul suo viso non trapelò l’irritazione, non apparve quel desiderio ossessivo di chiedergli immediatamente perché Rin si fosse presentato di domenica a casa sua senza un’apparente valida ragione. Nulla di Makoto avrebbe potuto dire che gliene importasse qualcosa, perché era diventato così bravo nel celare le sue emozioni che spesso si chiedeva se ne avesse ancora. Nel dubbio osservava Haru scivolare sul pelo dell’acqua e tirava un sospiro di sollievo – ci sono ancora. Ci sono perché lui è ancora qui.
«Ah sì? Passava da queste parti?»
«È venuto apposta.»
Ora, se Haruka fosse stato capace di capire Makoto quanto Makoto capiva lui, avrebbe intuito immediatamente che la situazione stava degenerando – fermo restando che l’espressione di Makoto era rimasta invariata, la sua postura non era cambiata, i gomiti erano rimasti sul tavolino della sala da pranzo. Ad Haruka però sarebbe bastato guardarlo negli occhi per sapere che in essi non c’era traccia di tranquillità in quell’istante, che il verde cristallino sembrava diventato buio come le profondità dell’oceano nelle quali nemmeno lui avrebbe osato spingersi. Ma Haruka raramente si interessava a qualcosa che non fosse l’acqua, ancora più raramente si interessava a qualcuno, e si era così abituato alla presenza inopportuna ma rassicurante dell’amico che non gli sembrava poi troppo importante prestargli più attenzione del solito.
«Avete litigato?»La sua voce non mostrava nessuna variazione, nessuna inflessione particolare. Era già un campanello d’allarme abbastanza evidente, che ovviamente Haruka non colse.
«Non direi. Ha detto qualcosa riguardo al fatto che non capisco, che devo smetterla di far finta di niente. Sembrava arrabbiato.»
Makoto si versò dell’acqua, nascondendo il tremolio della mano. Pessima cosa. Svuotò un intero bicchiere, per poi osservare in silenzio il cielo che assumeva le tonalità del viola e del blu. Conosceva abbastanza bene Rin da sapere a cosa si stesse riferendo – andava avanti dal giorno in cui era tornato dall’Australia, da quando all’interno della piscina abbandonata Haruka aveva posato nuovamente il proprio sguardo su di lui. In un istante Makoto aveva capito che sarebbe stato come la prima volta, come quando si era trasferito nella loro classe e Haruka non era riuscito più a stargli alla larga. Si gravitavano intorno come due calamite, attirandosi soltanto finché non erano abbastanza vicini da capovolgersi e fare attrito l’uno con l’altro – ecco, Makoto si sentiva un po’ come la pallina dei Geomag, quel punto di giunzione del quale in fin dei conti si poteva fare anche a meno. Era un angolo che stonava in una linea retta, un punto di stacco fra un polo e l’altro. Era fuori posto.
«Capisco. E poi che è successo?»
Gli occhi di Haruka si spostarono su di lui. Durò un attimo, ma abbastanza perché Makoto potesse accorgersene. Il suo sguardo tornò rapido allo schermo della TV, su un documentario in cui mostravano la barriera corallina. Non sembrava che vi stesse prestando particolare attenzione, come se avesse la testa altrove. Makoto sentì il bisogno impellente di abbracciarlo, di stringerlo fino a sentire le sue costole premere contro le proprie, di sussurrargli che lui ci sarebbe stato sempre – sempre e comunque, anche quando Rin sarebbe andato di nuovo via, anche quando non avrebbe più avuto quella scintilla di competizione a spronarlo. Era lì e ci sarebbe rimasto finché Haru ne avesse avuto bisogno, per tutto il tempo necessario. Perché di tempo ne avevano ancora.
«Mi ha baciato.»



La signora Tachibana stava riempiendo la lavatrice quando sentì la porta d’ingresso richiudersi. Ren e Ran dormivano già da mezz’ora, e nella casa come nel vicinato regnava la solita tranquillità. Trovò insolito che Makoto non si annunciasse come di consueto, per cui gli diede un colpo di voce.
«Makoto?»
«Sì, sono io. Tranquilla mamma.»
«Hai cenato da Haruka?»
«Sì. Vado a letto, sono un po’ stanco.»
La donna sorrise, chiudendo l’oblò con uno scatto. Era quel tipo di genitore che si interessava davvero dei propri figli. Non in maniera che risultasse invadente né fastidiosa, ma con piccoli gesti che denotavano quanto volesse loro bene. Anche lasciare a Makoto il proprio spazio rientrava fra la sua concezione del ruolo materno.
Makoto salì in camera sua, si tolse la divisa e infilò un paio di pantaloncini. Scese poi dritto verso il salotto, che dava direttamente sul giardino. Dal piccolo capanno che suo padre aveva costruito due estati prima tirò fuori una di quelle palette in dimensione ridotta che Ren usava per scavare buche e piantare i fiori che tanto piacevano a sua madre. Si recò nel punto più lontano, dritto davanti a lui. Se da lì si fosse aggrappato al bordo del muro, sollevandosi di poco, avrebbe visto il mare proprio di fronte a sé.
Tolse il pratino zolla dopo zolla con cura, facendo attenzione a non rovinarlo, poi scavò una buca profonda circa un metro, trovando immediatamente il sacchetto di stoffa dove lo aveva lasciato. Era un quadrato di cotone ripiegato più volte su se stesso, uno dei fazzoletti puliti di sua madre che le aveva sottratto dalla borsa. Ricordava ancora che lei lo aveva cercato per qualche giorno, arrendendosi poi all’idea di averlo semplicemente perso da qualche parte.
Le dita gli tremavano in maniera evidente, tutto il suo corpo sembrava essere scosso dall’interno. Sollevò i lembi di stoffa uno dopo l’altro – fa che ci siano, fa che ci siano, fa che ci siano. Ma quando il fazzoletto fu del tutto aperto non c’erano che polvere e terra all’interno, il tessuto bianco ormai mutato in un marrone sporco. Lo strinse al petto, raggomitolandosi su se stesso fino a premere il petto contro le cosce. L’aria divenne così pesante da non arrivare ai polmoni, le spalle tremarono più forte di prima, gli occhi gli si riempirono di lacrime che caddero in grosse gocce sul terriccio smosso – “non ci sono più” era il suo unico pensiero. Per quanto li avesse curati per tutto quel tempo erano svaniti lo stesso. Non era servito a nulla ogni suo sforzo. Stava annegando e non aveva idea di dove aggrapparsi per non finire sul fondo – non sapeva nemmeno se ne aveva voglia. Gli apparve il viso di Haruka, nella sua mente rimbombarono le sue parole, e Makoto singhiozzò più forte. Poteva vedere davanti ai suoi occhi le dita di Rin fra i capelli di Haru, sulla sua schiena, strette fra quelle dell’altro. Poteva sentire il respiro che diventava corto, osservare gli occhi che si chiudevano ed Haru che si lasciava andare con tutto se stesso. Riusciva a visualizzarlo così bene che dovette darsi un pizzicotto per ricominciare a respirare, per piangere più forte ma sempre nel più totale silenzio.
Rimase semplicemente lì ad abbracciare l’ombra di se stesso, a tenere stretti gli ultimi frammenti della persona di cui Haru aveva bisogno – di cui Haru non aveva più bisogno. Proprio come anni addietro, quando aveva sepolto i pesci rossi sotto i raggi del sole morente. Della persona che aveva provato ad essere non restava che una croce di legno al limitare del giardino.




Makoto che si assentava da scuola era uno di quegli avvenimenti inusuali e sospetti che avvenivano all’incirca quattro o cinque volte all’anno, più precisamente per i compleanni dei fratelli, per cerimonie saltuarie e infine per quei rari casi in cui non si dimostrava immune ai malanni di stagione. Un’assenza di tre giorni consecutivi aveva insospettito tutta la classe, e ovviamente il compito di andare a vedere se fosse ancora vivo era stato affidato ad Haruka. Anche Nagisa si era detto preoccupato nonostante Makoto, durante gli allenamenti del giorno prima, avesse telefonato a Gou rassicurandoli circa il fatto che sarebbe tornato entro qualche giorno.
Haruka si era presentato alla porta di casa sua con la tracolla ancora sulle spalle, approfittandone per fare una camminata da scuola a casa Tachibana. Quando la madre di Makoto lo aveva accolto all’interno, Ren gli si era precipitato fra le braccia, cozzando con il goffo abbraccio che Haruka gli aveva sempre riservato. Ran lo aveva salutato con altrettanto entusiasmo, per poi tirargli la camicia con due dita.
«Haru-chan, tu sai quando torna il fratellone?»
Haruka rimase interdetto, non sapendo cosa rispondere. Alzò lo sguardo verso la signora, per trovarlo turbato e profondamente diverso da come era abituato a vederlo, tale e quale a quello del figlio con un sorriso sempre sulle labbra piegate all’insù. La signora Tachibana disse allora che doveva parlare con Haruka, mandandoli a giocare nella loro stanza. Haruka la seguì fino al giardino, accomodandosi sulle assi di legno che davano sull’esterno. Attese con pazienza che lei portasse due tazze di tè verde fresco e dei biscotti, e solo a quel punto si decise a capire quanto stava accadendo.
«Signora, Makoto non è in casa?»
Nel sentire il nome del figlio la donna sobbalzò appena, muovendo le ciglia come se si fosse risvegliata da un sogno. Era lo stesso comportamento che aveva Makoto quando rimuginava su qualcosa di davvero importante. Curioso che Haruka si accorgesse di queste somiglianze quando l’altro non era presente.
«No. A dire il vero, avevo già pensato di parlarne con te. Makoto è a casa di mia madre, è partito ieri mattina.»
Haruka inclinò la testa. Non sapeva nulla a riguardo, il che era strano considerato che Makoto aveva l’abitudine di metterlo al corrente di tutti i suoi piani con una precisione maniacale. Lui lo ascoltava un po’ per noia, un po’ perché non gli dava fastidio la sua voce. Al contrario si poteva dire che insieme al rumore dell’acqua era una delle poche cose capaci di rilassarlo completamente.
«Non ne sapevo niente.»
«Oh» disse semplicemente la donna, abbassando lo sguardo verso la sua tazza. Haruka poté notare la stanchezza e la preoccupazione sul suo volto ancora giovane, il sorriso forzato sulle labbra gentili. Non gli piaceva affatto.
«Potrebbe raccontarmi cos’è successo?» Lei in risposta annuì.
«Tre giorni fa si è svegliato per andare a scuola, come ogni mattina, o almeno così pensavo. Invece mi ha detto di voler saltare qualche giorno, di voler andare in campagna perché aveva bisogno di riflettere. Lì per lì ho creduto che stesse scherzando, ma il suo sguardo…» Fece una pausa, senza sollevare il viso. Una folata di vento agitò i rami del ciliegio che si trovava accanto alla tettoia, facendo cadere una pioggia di petali su di loro. Uno finì nella tazza della donna, ma lei non sembrò farci caso.
«Signora?»
«Il suo sguardo era freddo. Non- non sembrava mio figlio, capisci? In tutti questi anni ho creduto di conoscerlo così bene, e invece deve esserci qualcosa che lo tormenta, un motivo perché avesse quell’espressione.» La sua voce si incrinò in un pianto sommesso. «Sai, è nato prematuro Makoto. Era così piccolo che lo tennero per due settimane nell’incubatrice. Se lo guardi adesso non si direbbe, vero? Ho sbagliato qualcosa forse, non gli sono stata dietro abbastanza? Potrebbe non voler tornare mai più. Come dovrei spiegarlo ai bambini?» A quel punto cominciò a singhiozzare davvero, e ad Haruka non restò altro da fare che sederle accanto, passandole i fazzoletti che lei stessa aveva portato insieme ai biscotti. Dovette attendere che si calmasse un po’ per avere ulteriori chiarimenti, e anche quelli non gli furono d’aiuto. Ad un tratto squillò il telefono, e la signora Tachibana si alzò di tutta fretta per rispondere. Haruka la seguì, in caso avesse dovuto ricevere notizie del figlio, cosa che accadde in maniera diversa rispetto a come se l’era aspettata. Quando la cornetta tornò al suo posto, le mani della donna stavano tremando.
«Era Makoto?»
«No, era mia madre. Makoto se n’è andato.»


 

– 3 giorni –

Il telefono di Haruka aveva squillato spesso nelle ultime settantadue ore. A momenti alterni era Nagisa che gli chiedeva se aveva notizie, o Rin che non si era fatto più vedere dopo la sera a casa sua, o la stessa signora Tachibana che sperava in una telefonata almeno nei confronti dell’amico.
Haruka dal canto suo era sì preoccupato, ma non eccessivamente. Si fidava abbastanza di Makoto da sapere che la sua sparizione era dovuta a qualcosa, e che ben presto sarebbe tornato con le idee chiare e il solito sorriso spensierato sul volto, scusandosi con tutti per averli fatti preoccupare. Si fidava così tanto che se a scuola chiedevano di lui scrollava le spalle, dicendo di non sapere dove fosse andato ma che di certo la sua assenza sarebbe stata breve.
Al club di nuoto nessuno aveva cercato un sostituto, non ce n’era alcun bisogno . Gli allenamenti erano proseguiti nella totale normalità, con Gou che ogni tanto si perdeva nei propri pensieri e dimenticava di starli ad ascoltare.
Quando si fece tardi e fu finalmente ora di uscire dall’acqua, Haruka trovò insolito non vedersi parare una mano davanti. Rimase per qualche secondo ad osservare il cielo, in attesa di qualcosa che non sarebbe arrivato. Scosse la testa e con una spinta fu fuori dalla piscina, diretto verso gli spogliatoi. Doveva soltanto aspettare, perché Makoto sarebbe di certo tornato. Non aveva motivi per non farlo.


 

– 7 giorni –

Una sola notizia era arrivata in casa Tachibana in quella settimana e mezza. Era una cartolina del Kyushu, con un tempio scintoista sullo sfondo e due parole in croce: “Sto bene, ci vediamo quando torno.” La madre di Makoto aveva telefonato immediatamente ad Haruka, chiedendo se per caso ne avesse ricevuta una anche lui, ma la risposta era stata negativa.
Ad Haruka tutto quel “silenzio stampa” dell’altro cominciava a dare seriamente fastidio. “Ci vediamo quando torno.” Sì ma quando torni? Ai campionati non ci pensi? Eri tu a farmi pressione perché partecipassi. Lentamente ma con un’ovvietà che traspariva dai suoi gesti aveva cominciato ad aspettare Makoto, una cosa che non aveva mai fatto intenzionalmente. Averlo sempre intorno era così naturale da non fargli domandare se ci sarebbe stato, perché l’avrebbe già trovato proprio dove doveva essere. Con il passare dei giorni aveva finito per adottare piccoli cambiamenti in riferimento all’umore altalenante – fare tardi a scuola perché aspettava di vederselo spuntare dentro casa come ogni mattina,  guardare il banco accanto con espressione assorta, pranzare in classe piuttosto che sul terrazzo, tirarsi fuori dalla piscina da solo, camminare sul lungomare verso casa nel più assoluto silenzio. Non aveva mai fatto caso a quanto evidente fosse la presenza di Makoto nella sua quotidianità finché lui non si era allontanato. Senza notizie, senza spiegazioni, come se la colpa fosse sua.
Come se la colpa fosse mia.
Haruka si bloccò proprio all’inizio della scalinata che portava a casa sua. Guardò verso il mare e gli sembrò improvvisamente di poter riunire i pezzi di un complesso puzzle irrisolto. Tutte le attenzioni e gli sguardi, i gesti e le parole dette, la presenza silenziosa che non si allontanava mai da lui. Sentì di non averlo mai capito davvero, di non averci nemmeno provato, quando lui invece era capace di interpretare i suoi pensieri alla prima occhiata. Forse semplicemente aveva già capito tutto, e per mera comodità aveva fatto finta di niente.
È colpa mia.


 

– 31 giorni –

La psicologa della scuola li aveva chiamati uno per uno, chiedendo un breve colloquio privato che durava non più di cinque minuti per alunno. Appurato che nessuno di loro sapesse effettivamente dove fosse Makoto, lo aveva comunicato alla signora Tachibana per telefono. In qualche modo lei se n’era già fatta una ragione: se Haruka non ne sapeva nulla, allora nemmeno gli altri potevano aiutarla in nessun modo.
Haruka passava i pomeriggi seduto a bordo piscina, con i polpacci immersi nell’acqua. Osservava le increspature sulla superficie con gli occhi socchiusi, annoiato. Quando Gou gli aveva chiesto di allenarsi come tutti – al club di nuoto si erano infatti aggiunti una decina di ragazzi in quei due anni – lui aveva continuato a fissare l’acqua, uscendosene con un «Non voglio nuotare.» La ragazza a quel punto era sbiancata, scappando verso Nagisa e Rei.
L’acqua era fredda. Non se n’era mai reso conto davvero, troppo impegnato a godersi la sensazione rilassante che provava ogni volta che vi si tuffava. Era pesante e sembrava tirarti giù, proprio come il giorno in cui era caduto nel fiume. In un lapsus di lucidità aveva visto il viso di Makoto sconvolto, deformato dalla paura mentre urlava qualcosa contro Rin. Si ricordava la sensazione astratta delle sue mani tiepide sulle spalle sul petto, del sentirsi sollevare e stringere come se avesse ancora tre anni. L’acqua era tornata immediatamente calda a contatto sulla sua pelle. Era stato bello per una volta smettere di comportarsi da se stesso.
La piscina si era già svuotata quando Haruka tirò le gambe al petto, nascondendo il viso tra le braccia conserte. Aveva dato per scontato che lui ci sarebbe stato sempre – glielo aveva promesso in qualche modo, che anche quando tutti sarebbero andati via lui sarebbe rimasto. Ma non era stato Makoto a fuggire, era stato Haruka. Era scappato da una realtà evidente che faticava ad accettare per colpa dell’orgoglio e del carattere dispotico e indifferente che si ritrovava, cieco abbastanza da lasciarselo sparire davanti come se niente fosse. Un attimo prima stava afferrando  la sua mano, quello dopo non gli restava che il ricordo di un sorriso sincero a dargli il buongiorno e salutarlo con un arrivederci. L’ultimo, quella sera, con l’espressione di sempre ma la voce incrinata. Avrebbe dovuto accorgersene – era tutto un avrei dovuto, avrei potuto, un rimuginare sul senso di colpa che si faceva strada violentemente in lui.
Persino l’estate, con l’acqua che diventava calda e il sole che la faceva brillare, non sembrava più così interessante.
 





Quando il cellulare di Ran squillò lei si trovava sotto il ciliegio. Le sue amiche chiacchieravano a proposito di un nuovo caffè francese che aveva aperto in città, e nel quale volevano assolutamente recarsi. Ran aveva la maturità tipica delle ragazze più grandi ed un viso dolce che la faceva sembrare più piccola dei suoi sedici anni, tanto che quando capitava le piaceva vestirsi ancora con abiti che la facevano sembrare una specie di lolita. Niente di eccessivo o volgare, solo gonne a palloncino e vestitini dai colori più svariati. Era un’abitudine che sperava non le passasse mai.
Sul display apparve la scritta “Mamma”. Pigiò lo schermo e avvicinò l’apparecchio al viso.
«Mamma?»
«Riprova.»
Doveva essere quell’idiota di Ren. Gli piaceva fare scherzi di quel tipo, specialmente sapendo che a lei davano tanto fastidio.
«Ren, lascia che lo sappia la mamma e- »
«Non sono Ren.»
«Come?» Ran sbatté le palpebre, frastornata.
«Ho detto che non sono Ren.» La voce dal lato opposto sembrava divertita. «Non mi sembri cambiata di una virgola. Ah, sono davanti la tua scuola. Non è che verresti a darmi il bentornato?»
Ran non aveva spiegato alle sue amiche perché stava correndo verso il cancello. Agì senza pensare, senza riuscire ad avere altro nella mente. Quando accanto ai pilastri dell’ingresso lo vide, nemmeno il resto degli studenti che passeggiavano nel cortile ebbe più importanza. Si lanciò contro suo fratello senza riserve, piangendo come la bambina che ancora era, con le dita strette sulla sua schiena e una mano di Makoto ad accarezzarle la testa.



Makoto aveva fatto così tante cose in quei sette anni d’assenza che ricordarle tutte sarebbe stato impossibile. Mentre si rifiutava categoricamente di ricordare i primi tempi, del resto poteva parlare senza grosse difficoltà. Ai suoi genitori per poco non era venuto un mancamento quando se l’erano ritrovato sull’uscio di casa più alto, con i capelli più lunghi e l’aria stanca di chi ha visto il mondo in troppo poco tempo per riuscire ad apprezzarlo davvero. Sua madre lo aveva abbracciato per un tempo indefinito, tremando perché non se ne andasse di nuovo. Era riuscito a convincerla solo dicendole che sarebbe andato a prendere Ran, approfittando del suo cellulare perché fosse tranquilla che sarebbe tornato per restituirglielo. In casa al suo ritorno aveva trovato anche Ren, abbastanza simile a lui da dargli l’impressione di trovarsi davanti ad uno specchio – però sia Ran che Ren erano profondamente diversi da lui, perché entrambi avevano obiettivi precisi nella vita e non si affidavano che su loro stessi per raggiungerli. Fu contento di sapere che era stato l’unico a commettere l’errore di fare il contrario.
Nel Kyushu aveva trovato un lavoro part-time al porto della città di Miyazaki. Al mattino presto scaricava casse su casse di pesce per il mercato rionale, riordinava i magazzini, puliva ogni mattina per il giorno successivo. L’uomo che lo aveva assunto non gli aveva fatto troppe domande, e anzi aveva proposto di detrargli una cifra modesta dallo stipendio in cambio di un posto letto con altri dipendenti. Makoto si era detto d’accordo, e per un anno intero aveva fatto quella vita –una vita faticosa, non priva di rischi, ma che gli permetteva di avvicinarsi al mare restandone comunque ad una distanza ragionevole. Poteva studiarne i mutamenti, comprendere se le navi sarebbero salpate o meno a seconda delle nuvole, capire se stava arrivando un temporale con pochi sguardi alle onde. Si era abituato all’oceano poco per volta, tanto che non lo spaventava più come un tempo.
Dopo tre anni di silenzio aveva infine fatto avere sue notizie a casa – con le clausole che non chiedessero dove fosse, non lo dicessero ai suoi fratelli e non ne parlassero con nessun altro. Solo sua madre, suo padre e sua nonna avevano periodicamente sue notizie, per il resto del mondo Makoto era disperso chissà dove. Non aveva mai detto di voler tornare, ma quando aveva deciso di farlo non era di certo per riprendere la vita in quella città. Si sentiva colpevole per la sua famiglia, per sua madre che aveva pianto quando aveva sentito la sua voce per telefono dopo tre lunghi anni e di fronte a lui continuava a piangere da un lato e sorridere dall’altro, colpevole per suo padre che sembrava essere invecchiato del doppio dei suoi anni, per Ren che già si radeva la barba e Ran che guardava il mondo attorno a sé con la stessa espressione stupita che aveva lui alla sua età. Voleva rimettere insieme almeno quei pezzi, far parte della famiglia che aveva a malincuore abbandonato. Non si pentiva del suo gesto, ma delle conseguenze che esso aveva avuto sugli altri.
Rimase seduto sul pavimento di legno, osservando la croce ancora piantata per terra, dove l’aveva lasciata. Sua madre sapeva cosa rappresentava, e Makoto era sicuro che non l’avesse rimossa per un motivo ben preciso. In effetti trovarla al suo posto lo fece sorridere tristemente, come se quegli anni di lontananza non avessero cambiato granché. Si domandò se il preside della sua vecchia scuola non avesse trovato sospetto l’improvviso trasferimento, se quando sua madre era andata a spiegargli la situazione non avesse pensato di doverla comunicare anche alla classe. In ogni caso non lo aveva fatto, e quella consapevolezza riusciva a farlo sentire meglio. Non era tornato a casa per quello – se lo ripeteva con insistenza, parola per parola, recitandolo a memoria. Non era tornato per rivederlo, non era tornato per sapere come stava, non era tornato per vedere come viveva, per accertarsi che la sua vita stesse proseguendo senza intoppi. Era tornato per andarsene, per poter dire addio a quella città e invitare alla prima occasione la sua famiglia a passare le festività in casa sua, senza ulteriori pensieri. Doveva credere  che fosse così perché altrimenti i suoi passi lo avrebbero condotto dove non doveva andare, su un sentiero che lo avrebbe riportato indietro di sette anni vanificando tutti i suoi sforzi di crearsi una vita lontano da lui.
Se chiudeva gli occhi rivedeva ancora il se stesso diciottenne che tremava nel futon per tutta la notte, finché alle tre la sveglia annunciava l’inizio della sua giornata. Ricordava di aver cercato occhi blu su ogni viso, in ogni persona che gli capitava davanti senza trovarne mai di uguali. I giorni e le notti si erano susseguiti senza senso, senza che dovesse contarli. L’importante era che il tempo passasse, scorrendogli davanti come un film del quale voleva essere solo uno spettatore. Dopo due anni era riuscito a non smettere di tremare quando si risvegliava dal sonno, preda dell’ennesimo incubo.
Ran lo aveva abbracciato da dietro, sedendosi accanto a lui. Quando anche Ren li aveva raggiunti avevano parlato a lungo di cosa avessero fatto i due fratelli più piccoli in tutto quel tempo, delle amicizie, di un ragazzo che piaceva a Ran ma del quale a lei non sembrava importare, di videogiochi e altre banalità che diedero nuovamente a Makoto la sensazione di essere tornato davvero a casa, come se non l’avesse mai abbandonata. Si sentiva in pace con se stesso, dopo un tempo incredibilmente lungo.
Ren giocava a baseball nel club della sua scuola. Quello stesso pomeriggio aveva in programma una partita importante, alle quale Makoto non sarebbe andato per evitare qualunque situazione non voluta. Doveva semplicemente restare lì quella notte e andarsene l’indomani, poi sua madre avrebbe potuto parlare del suo ritorno con chiunque avesse voluto. Una volta rimasto da solo con Ran, si misero a tagliare fette d’anguria e osservare i petali che dal ciliegio cadevano sul prato.
 «Fratellone.»
Makoto sorrise per quella piccola abitudine che avrebbe impiegato un po’ ad andare via. «Che c’è?»
«Sai che stai evitando l’unica persona che ti ha aspettato per tutto questo tempo, vero?»
Deglutì a vuoto, smettendo di masticare. Ran sapeva – come faceva Ran a sapere? Ne aveva parlato con lui – e lui quanto aveva capito delle sue motivazioni? Cosa le aveva detto di credere? Cosa avrebbe potuto dire a sua sorella?
«Me ne sono accorta, sai. Ho notato il cambiamento. In lui da parecchio tempo, in te soltanto adesso.» Giocò con i cubetti di ghiaccio dentro al suo tè, agitandoli con la cannuccia. «”Non so cosa sia successo, ma se è stato abbastanza da farlo allontanare così tanto deve essere qualcosa di importante”. La pensavo così quando te ne sei andato. Non ho capito quanto fosse seria la faccenda finché non l’ho più visto nuotare.»
«Cosa?»
«Tu stai evitando ogni cosa di lui, persino il suo nome. Lui evita ogni cosa che gli ricorda te, ed ognuna di quelle cose deve essere legata all’acqua. Per questo non nuota più da anni.»
Le mani di Makoto si strinsero attorno al tessuto dei jeans. Non voleva lasciarsi invischiare ancora, non voleva provare lo stesso dolore. Si era allontanato per una ragione precisa, e adesso quella tornava a perseguitarlo nel peggiore dei modi. L’acqua non era importante per lui? Non amava forse tuffarsi e dimenticare tutto, nuotare senza che i problemi lo toccassero più di tanto? Cos’era quella storia?
«È venuto qui spesso da quando sei andato via. Dopo il primo mese ci faceva visita ogni giorno, portava me e Ren al parco e al mare. Credo si sentisse in dovere di farsi perdonare per qualcosa che non aveva commesso. Anche quando si è iscritto all’università passava di tanto in tanto. Adesso insegna arte nelle vostre vecchie scuole elementari, ma vive sempre vicino al tempio.»
«Ran- »
Il campanello suonò una volta sola, attirando la loro attenzione. «Deve essere l’altra rappresentante. A breve ci sarà il festival scolastico, e abbiamo dei progetti da rivedere. Tu resta qua, non ho finito di parlare con te.»
Makoto annuì, osservandola allontanarsi. Quando rimase da solo scese con i piedi nudi sul prato, osservando il cielo attraverso le fronde dell’albero. Se ci pensava troppo gli veniva voglia di vederlo, e se gli veniva voglia di vederlo ciò significava che non era riuscito a passare oltre, a dimenticare e proseguire su una strada più semplice. Doveva andarsene il prima possibile, o i suoi piedi lo avrebbero condotto ancora una volta in fondo a quella scalinata di pietra.



Aveva corso per tutto il tragitto, fermandosi solo davanti alla sbarra abbassata del passaggio a livello. Il fianco gli faceva male, ma non abbastanza da rallentarlo. La strada era leggermente in salita all’inizio, poi si distendeva in una morbida pianura che scendeva fino al mare. In tutto aveva impiegato qualcosa come dieci minuti per arrivare lì.
Ran Tachibana lo aveva accolto con i capelli legati in una coda alta e la borsa in spalla, pronta ad uscire. Lui l’aveva guardata male – ma non troppo, comunque. Le voleva abbastanza bene e in una maniera così fraterna da non riuscire ad arrabbiarsi davvero con lei.
«Che significa quel messaggio?»
«Significa esattamente quello che c’è scritto. Volevi un’occasione, giusto? Approfittane, perché non ne avrai una seconda.» Lo scrutò con gli occhi verdi profondamente seri.
«Haruka, sono passati sette anni. È ora che entrambi andiate avanti.»
Lei gli passò davanti, lasciando la porta aperta. Ad Haruka sembrò quasi di sentire che in quella casa era cambiato qualcosa. C’erano fiori nel vaso all’ingresso, la luce che filtrava dal soggiorno, e un paio di scarpe troppo grandi per essere di Ren, troppo moderne per appartenere al signor Tachibana. La consapevolezza di aver sognato e immaginato quell’istante fino a sperare davvero che potesse accadere gli fece girare la testa – ma non era quello il momento di sentirsi male, non quando era così vicino da avere bisogno di sapere che lui era realmente lì. Si tolse le scarpe, avanzando in silenzio lungo il corridoio. Quando giunse in soggiorno dovette ripararsi dal riverbero del sole con una mano per riuscire a vedere l’interno della stanza.
Stava seduto con le gambe penzoloni oltre il pavimento, nella veranda che dava sul giardino. Aveva una maglietta a maniche corte blu che gli stava un po’ larga, la testa ciondolante da un lato, i capelli più lunghi di quanto ricordasse. Sembrava più alto, più massiccio, più uomo. Abbassava ed alzava le spalle regolarmente, mostrando i muscoli sotto il tessuto quando stirava le braccia verso l’alto. Era avvenuto tutto in pochi secondi ma ad Haruka quel tempo era bastato per sapere che non sarebbe più riuscito a tornare sui suoi passi. Non avrebbe potuto pentirsi e tornare indietro come aveva fatto Rin, né far finta di non averlo visto lì con il sole a sfocare la sua figura. Gli si era impressa nella mente, e non se ne sarebbe andata finché non avesse avuto anche il resto.
Si avvicinò lentamente fino a giungere alle sue spalle. A quel punto si inginocchiò piano, premendo la fronte in mezzo alle sue scapole. Era caldo, come poteva essere calda l’acqua di una piscina in agosto o una stretta di mano o un abbraccio. Era caldo e profumava di Makoto, di quell’elemento naturale che gli era venuto a mancare per troppo tempo.
«Ran? Dov’è la tua amica?»
La sua voce era la stessa, solo più roca e più dura, un timbro rassicurante e profondo. Non era cambiato nulla, niente di niente, sette anni non erano passati. Erano ancora ragazzi.
«Bastardo.»
Con la guancia contro la sua schiena Haruka poté sentire il suo respiro spezzarsi, il cuore moltiplicare i battiti a dismisura, il tremolio partire dalle mani e propagarsi al resto del corpo. Cercò con scarsi risultati di abbracciarlo, finendo per aggrapparsi al bordo della sua maglietta. Voleva davvero vederlo in viso, voleva che vedessero cosa si erano fatti a vicenda. Voleva che Makoto capisse.
«Non dovresti essere qui.»
«No, tu non dovresti essere qui. Te ne sei andato per non tornare. Se sei qui vuol dire che ci pensi ancora. Vuol dire che vuoi ancora crederci. Non è sbagliato, solo, non dire che non dovremmo esserci. Siamo al posto giusto nel momento giusto, e lo sai anche tu.»
Makoto abbassò il capo, trattenendo un gemito. Haruka non attese che gli rispondesse.
«Avevi ragione. Se n’è andato. Non avevo capito niente. Non avevo capito te, soprattutto. Non sono riuscito a farlo finché non sei andato via.»
«Perché hai smesso di nuotare?»
«Per la stessa ragione per cui tu hai iniziato a farlo.»
Infine Makoto si voltò. A fargli male non fu il viso più asciutto, né i capelli raccolti in un codino sulla nuca, o la certezza che il suo viso inespressivo fosse rimasto inalterato. Gli fecero male i suoi occhi che lo fissavano – finalmente lo guardavano, lucidi, per quello che era davvero. Lo osservavano e si sforzavano di capirlo, riuscendoci poco per volta. Non dovette trattenersi quando gli venne da piangere, perché le braccia di Haruka erano lì per lui, le sue mani erano tra i suoi capelli e in un impeto lo furono anche le sue labbra, che troppe volte durante la sua adolescenza avevano animato le sue notti e che finalmente era capace di baciare. L’aria tornò nei suoi polmoni, il sangue riprese a circolare con la dovuta calma e le braccia di Haruka rimasero lì, dove era giusto che si trovassero.
«Si sta bene qui.»
«Già.»
«Mi piacerebbe andare al mare domani.»
Makoto sorrise come se avesse avuto diciotto anni, allungando la mano stretta in quella di Haruka verso i raggi del sole  che tramontava sull’oceano. Era un buon pretesto per restare un altro po’.
«Va bene.»
«Che ne dici di togliere quella croce dal giardino dopo?»
«È un’ottima idea.»

   
 
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