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Autore: Nina Ninetta    24/08/2013    2 recensioni
June è una ragazza ventenne rimasta a casa per ripassare l'esame universitario di Diritto Romano che l'attende di lì a qualche giorno. Quando tuttavia scende la notte, l’energia elettrica salta a causa di un improvviso e violento temporale estivo che lascerà l’intera cittadina al buio. June soffre di acluofobia, la sua paura più grande quindi è la totale mancanza di luce, un terrore viscerale che le attanaglierà lo stomaco come un serpente. Pur di non restare da sola scenderà a compromessi con sé stessa: accettare la compagnia del suo odiato vicino di casa.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#1 
La Musica della discordia

 

C’ero quasi riuscita.
Davvero, mancava tanto così e avrei finito di imparare quel dannato libro di Diritto Romano che da mesi mi perseguitava da sveglia e torturava i miei sogni.
Mi muovevo in circolo al centro della mia stanza, mormorando all’ambiente vuoto le pagine e pagine di storia che avevo studiato, a malavoglia, ma l’avevo fatto.
Ruotavo su me stessa, gesticolando e sforzandomi di assumere un tono serio, come se davanti a me ci fossero stati i professori intenti ad ascoltarmi e gli assistenti. Quelli poi, erano anche più arpie dei professoroni stessi.
Sul serio, c’ero quasi riuscita.
La mia voce risuonava atona e ferma, il discorso filava liscio come l’olio, senza intoppi, senza balbettii, senza pause causate da quei vuoti di memoria che mi avevano portato ad inveire contro la mia stupidità per aver dimenticato, ancora una volta, l’ennesimo capoverso.
Me lo sentivo: quella notte avrei finalmente dormito senza incubi per l’esame che avrei dovuto sostenere di lì a qualche giorno.
Credetemi quando vi dico che c’ero quasi riuscita.
 
Ero totalmente presa e assorta in quello che stavo pronunciando che quando quella dannata musica rimbombò nella mia camera sussultai e il cuore fece un tuffo per lo spavento. Mi guardai attorno, all’inizio stralunata, ma non mi ci volle molto a comprendere la situazione. Mi portai le mani in testa, esclamando qualcosa di poco gentile.
Le note assordanti di quella che definire musica mi sembra un offesa all’intero universo musicale, mi martellavano nelle orecchie e nelle tempie, mentre sentivo la concentrazione scemare via da me.
Feci un respiro profondo e provai a proseguire con il mio studio, ma dopo qualche secondo mi parve che il suono aumentasse di intensità. Mossa da un impeto di rabbia afferrai la matita che mi teneva raccolti i capelli in uno chignon abbozzato e la strinsi con forza, fino a farmi diventare le nocche bianche, quindi la spezzai in due parti che lasciai cadere sul pavimento. I capelli mi caddero in avanti e li spostai dal viso con un gesto istintivo e consueto.
Mi avvicinai alla finestra e la spalancai. L’aria era intrisa di elettricità e l’umidità mi increspò immediatamente i capelli sciolti. Era l’imbrunire e in lontananza qualche lampo illuminava il cielo plumbeo. Non so precisamente per quale motivo avessi aperto la finestra, ma so che lì il suono fastidioso di quella musica che per me equivaleva a rumore, era ancora più forte. Mi afferrai al davanzale e urlai con quanto fiato avevo in corpo:
«Abbassa la voce, imbecille!»
Ovviamente non accadde nulla, non che ci avessi sperato seriamente, ma mi sentivo appena appena meglio. Ma giusto un pochino.
Lo sguardo mi cadde sul libro aperto alla mia sinistra. Non potevo continuare i miei studi con quella tortura uditiva che faceva vibrare le pareti della mia stanza. Uscii dalla camera a grandi falcate, senza preoccuparmi di mettere addosso almeno un giubbetto o un cardigan di cotone. Afferrai le chiavi sul mobiletto all’entrata e aprii la porta d’ingresso, avanzando lungo il vialetto fino a raggiungere il cancelletto, quindi virai verso occidente.
 
Steve Robert Smith.
Conoscevo fin troppo bene l’artefice di quella situazione, colui che sarebbe dovuto essere arrestato per inquinamento acustico, semmai un tale reato si punirebbe con l’arresto. Per quel che mi riguardava, avrebbero potuto gettare via la chiave, magari nel fondo dell’oceano.
Le nostre famiglie erano vicine di casa da diversi anni oramai, i miei dicevano che erano brave persone, e questo io non l’ho mai messo in dubbio.
Ma lui … lui …
Le ragazze che conoscevo non facevano che ricordarmi quotidianamente di quanto fossi fortunata ad averlo come vicino di casa, di quanto avrebbero voluto essere al mio posto, di quanto fosse bello.
Bello? Ma chi? Lui?
Personalmente lo avrei legato ad un palo al centro della piazza e aizzato del fuoco, un po’ come si faceva durante i tristissimi secoli della “caccia alle streghe”, per il semplice e macabro piacere di vederlo bruciare.
 
Nello spazio antistante la casa della famiglia Smith, vi era parcheggiata una sola auto sportiva, bianco perla con le rifiniture nere. Che scempio! Si dice che sia la macchina a scegliere il proprietario e non viceversa. Beh, passandole accanto, quella sera, ebbi la conferma che quella massima diceva il vero. La guardai di sottecchi, quasi temessi che quel pezzo di ferro inanimato potesse muoversi o parlare e, per un secondo, ho avuto l’impressione che mi sorridesse di sbieco, con quell’aria beffarda tipica del suo autista. Non riuscivo a non pensare ad un vecchio romanzo di Stephen King, Christine, la macchina infernale, che avevo letto qualche anno addietro. Rabbrividii e mi affrettai verso lo zerbino.
Lì il suono della musica era assordante, incollai il dito sul campanello, ma ovviamente nessuno venne ad aprirmi. Ancor più irritata battei il palmo sulla porta, gridando qualcosa tipo:
«Ehi, ehi! Mi sentite?» e proprio al terzo colpo la porta si schiuse e mi parve di sentire un cigolio sinistro, cosa difficile data la situazione.
Aprii la porta e feci un passo avanti, voltandomi di scatto a guardare la macchina parcheggiata nel vialetto. Continuavo ad avere la sensazione che mi sorridesse. Scossi il capo ed entrai piano:
«Scusate, è permesso? C’è nessuno?» ma la mia voce, seppur alta, venne inghiottita dalle note violente che echeggiavano da parte a parte.
La casa era immersa nella penombra ed era fresca. Tutto era tenuto in ordine, gli oggetti sul mobile all’entrata, i fiori artificiali e colorati sistemati con garbo nei vasi, i quadri appesi ai muri sembravano seguire un ordine preciso. Avanzai ancora, sempre chiedendo se ci fosse qualcuno in casa, ma ancora una volta non giunse mai una risposta. Mi affacciai nella camera da pranzo, era enorme. Sulla sinistra, inchiodato alla parete come un quadro di Van Gogh, c’era un televisore a schermo piatto, avrà avuto diecimila pollici, un ampio divano ad angolo, di pelle lucida che la poca luce rendeva difficile decifrare il colore, forse bordeaux, forse vinaccio. Sul lato opposto c’era un tavolo di forma rettangolare, con sei sedie, al centro un cesto colmo di frutta di stagione così lucida che sembrava finta; un isola in formica bianca faceva da confine ad una cucina moderna e immacolata. Le tende a doppio velo erano color panna e il loro ondeggiamento era quasi impercettibile. Sapevo che oltre di loro c’era un ampio terrazzo, dove avevo visto spesso la famiglia al completo cenare o festeggiare i compleanni.
Andai oltre, ancora con quella musica insopportabile che mi stava sfondando i timpani. Una rampa di scala portava ai piani superiori. Mi poggiai al corrimano e lo sentii freddo, quindi guardai verso l’alto, quella parte di casa che non avevo mai visitato. Nonostante il volume alto, c’era una strana quiete. Di nuovo urlai:
«Scusate, c’è nessuno? Signora?» aspettai qualche secondo, poi salii il primo scalino, quindi il secondo e così via. Ricordo che una vocina nella mia testa mi diceva di andare via, ma vuoi la musica alta, vuoi la troppa curiosità o la forza che mi spingeva a salire quelle scale, finsi di non sentirla.
Davanti a me si srotolò un corridoio, lungo il quale vidi diverse porte chiuse, esclusa una in fondo, da cui spiccava un cono di luce. Avanzai, ancora una volta gridando, con la speranza che chiunque ci fosse in quella casa (pregai che fosse la signora dolce e gentile che sempre si complimentava con me quando la incontravo) mi rispondesse.
Ovviamente la mia voce, per quanto alta, fu sovrastata dalla musica.
La porta della camera da cui spiccava la luce gialla era socchiusa. Mi fu chiaro che quelle note rumorose provenivano dal suo interno. Bussai con le nocche chiuse a pugno:
«Mi scusi, signora?»  e con una lentezza esasperata lasciai scivolare la porta sui cardini, ma oltre di essa non c’era nessuno.
Corsi velocemente con lo sguardo le pareti tappezzate da poster di band a me sconosciute, atleti  più o meno famosi che alzavano coppe al cielo, foto che ritraevano ragazzini in divisa da football americano, sporchi di fango e sorridenti. Tra questi riconobbi lui, il padrone della stanza che avevo appena violato. Due mensole erano stracolme di trofei e coppe e medaglie, così tante che mi chiesi come facessero a non crollare sotto il loro peso. Lo schermo di un PC era acceso e immagini astratte, dai colori improbabili, si alternavano e mescolavano fra loro, a ritmo di musica. Quella dannata musica che mi aveva trascinato in quella situazione. La voce nella mia testa si fece più insistente.
Vattene. Vattene. Vattene.
Non me ne andai e, come poco prima mi ero sentita spinta a salire le scale, così mi sentii afferrare il volto per voltarmi indietro.
Un’altra porta era dischiusa, ma tanto bastò per cogliere un braccio nudo. Mi sporsi appena e lo vidi davanti ad un grosso specchio che lo ritraeva fino alla cinta dei jeans. Le dita delle mani si muovevano sapienti fra i capelli, acconciandoli con il gel, forse erano ancora bagnati. Il torso era nudo e glabro, la pelle abbronzata dal sole, e la posizione alzata delle braccia metteva in risalto la forma dei muscoli e l’incavatura delle scapole. Intravidi il bordo chiaro ed elastico della sua biancheria intima, nonostante i pantaloni, i quali, evidentemente, chiedevano di essere tenuti su da una cintura. Tornai a guardare la sua immagine riflessa nel vetro, totalmente preso dall’acconciatura non si era accorto di me. Lo vidi fischiettare, forse scandendo il ritmo della musica che, oramai, neanche sentivo più.
I nostri sguardi si incrociarono nel riflesso dello specchio e di scatto si voltò a fissarmi, a bocca aperta, le braccia lentamente scesero lungo il corpo. Io deglutii e mi sembrò che il cuore battesse un po’ più forte, seguendo il BOOM BOOM della musica.
Lo vidi muoversi verso di me e, quando spalancò la porta del bagno, un buon profumo di bagnoschiuma e dopobarba mi invase le narici.
Si avvicinò e ad una spanna dal mio viso urlò:
«Tutto bene?»
Tutto bene?
TUTTO BENE?
Mi stava prendendo in giro?
Mi sarei aspettata un «che ci fai qua?» o un «come sei entrata?», o meglio, ero pronta ad una domanda del genere, ma un «tutto bene?» non aveva senso. Non per me.
«La voce!» esclamai
«Come?» sentii l’indignazione crescere e il profumo emanato dal suo corpo mezzo nudo mi stava provocando un capogiro. Indietreggiai e indicai il computer nella sua stanza:
«La musica!» aggiunsi gridando
Si batté la mano sulla fronte e sorrise, quindi mi oltrepassò e mi schiacciai contro i battenti della porta per evitare che i nostri corpi si toccassero. Mi sudavano le mani e quella reazione alla sua presenza mi rendeva alquanto nervosa.
Finalmente la musica cessò, ma rimase quel mormorio sordo nella mia testa. Sapevo che me lo sarei portato con me fino all’indomani, un po’ come quando torni da una notte in discoteca e poggi la testa sul cuscino per dormire. Mi massaggiai le tempie con gli indici e chiusi gli occhi:
«Grazie» girai i tacchi e uscii dalla stanza, avevo una certa urgenza ad allontanarmi da lui, il motivo non lo conosco. In ogni caso mi seguì:
«Solo questo?» ero arrivata quasi a metà scalinata quando mi voltai a guardarlo, lui era ancora in cima alla rampa, ancora coperto solo dalla vita in giù:
«Si, solo questo! Ho perso mezz’ora di studio a causa tua e della tua … schifosa musica!»
«Credevo foste andati via per il week end, non ho visto la macchina parcheggiata»
«Io sono rimasta, sai com’è, avevo da studiare …» lasciai la frase a metà, anche se gli avessi risposto in aramaico antico, non ci avrebbe fatto caso. La sua attenzione era troppo concentrata su di me, e solo allora mi ricordai di avere addosso un prendisole assai corto e assai scollato.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena e ripresi a scendere, trattenendomi dal fare le scale a due a due. Mi seguì di nuovo, potevo sentire i suoi passi svelti:
«Visto che sei qui, posso offrirti un bicchiere di …»
«No, non puoi» ero già arrivata in giardino e quando respirai mi parve di non averlo fatto per ore. Il cielo si era scurito e verso il mare si alternavano lampi violenti, mentre un rombo di tuono fece tremare i vetri:
«Bel vestito» disse in tono beffardo e lo immaginai con le braccia conserte appoggiato al massiccio stipite della porta d’ingresso, con un sorrisino sul volto «April»
Mi sentii percorrere da un’onda di calore, oltrepassai il cancelletto e lo chiusi con forza, voltandomi a guardarlo. Non aveva le braccia conserte e la spalla contro lo stipite, ma era sull’uscio dell’ingresso, a trattenere la porta per evitare che la corrente d’aria la chiudesse, ma il sorrisino, quello c’era eccome:
«Mi chiamo June!» sbottai «Hai capito? J-u-n-e» scandii e me ne andai facendogli una linguaccia.
Dopo poco udii la porta che si chiudeva e mi chiesi se stesse ancora sorridendo. 


continua ...

  
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