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Autore: La neve di aprile    25/08/2013    1 recensioni
Era inevitabile del resto, si disse stringendo una sigaretta tra le labbra.
Vista la situazione in cui si era cacciato, non c'era altro che potesse fare e se lo faceva, era per ragioni che andavano al di là della sua comprensione.
Non era mai stato particolarmente maturo e non se n'era mai fatto un cruccio, ma se riusciva a leggere del rimprovero persino negli occhi verdissimi di Axl, allora aveva superato ogni limite.
Finse di non pensarci o di non essere turbato, soffiando fuori una nuvola di fumo che s'increspò nell'aria incandescente dell'estate, prima di lanciare il mozzicone ancora acceso oltre la balaustra del minuscolo terrazzino che lo ospitava.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Duff McKagan, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Avvertenza!

 
 
 
Cronologicamente parlando, questo racconto frutto della mia fantasia non è fedele alla storia dei Guns n' Roses quanto Hand in Glove, dove ho volutamente cercato di seguire quelle che secondo me sono state le tappe fondamentali del gruppo attraverso gli anni.
Si svolge a partire dal maggio 1985, in un universo parallelo dove i nostri prodi eroi si conoscono già tutti e suonano assieme da un po': nella realtà il loro primo concerto assieme fu il 6 giugno '85 al Trobadour, dopo una sola giornata di prove assieme a Slash e Steven chiamati all'ultimo minuto per sostituire Tracii Guns e Rob Gardner. Subito dopo questo concerto, il gruppo partì per l'Hell Tour verso Seattle e dintorni.
La mia licenza poetica consiste nell'anticipare quel primo fatidico concerto a qualche mese prima rispetto a quanto è accaduto nella realtà e nel rimandare il tour ad un momento imprecisato più avanti nel futuro.
 
Nella speranza di non avervi confuso troppo le idee, mi limito a ricordare che no, purtroppo non possiedo i Guns n' Roses nella loro formazione originale, non è mia intenzione offenderli in alcun modo con queste mie fantasie tardo-adolescenziali e non ci guadagno nulla.
 
 

 – Chiara.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

CENTER OF ATTENTION
I
Era inevitabile del resto

           
 
 
LOS ANGELES,  maggio 1985.
 
Il cielo sopra L.A assumeva sfumature d'inferno quando il sole iniziava a calare oltre la linea frastagliata dei grattaceli, accedendo le nubi basse sull'orizzonte di riflessi scarlatti e sanguigni.
Era il colore perfetto del peccato, lo stesso che aveva letto sulle labbra della ragazzina che quella notte molto tardi -o mattina molto presto, a seconda dei punti di vista- si era impegnata ad aggrovigliare le lenzuola del letto gentilmente offerto da uno dei tanti alberghi della città assieme a lui.

Ubriaca abbastanza da perdere ogni inibizione, lucida abbastanza da essere perfettamente consapevole di quello che stava facendo, si era rivelata una compagnia migliore di quello che aveva pensato quando l'aveva abbordata ad un ennesimo festino organizzato nella cantina di Slash. Aveva caracollato con grazia invidiabile su tacchi sottili come steli, addosso un abito dagli orli arricciati ben sopra le ginocchia nude e un sorriso talmente innocente da non poter essere altro che una sfida ad ogni buon senso – non poteva essere davvero così ingenua da fiondarsi tra le sue braccia senza crescere di uscirne dopo una misera chiacchierata.
L'aveva lasciata ancora addormentata, le mani raccolte al seno e i capelli scompigliati sul cuscino, senza neppure ricordare come si chiamasse.
Era inevitabile del resto, si disse stringendo una sigaretta tra le labbra.
Vista la situazione in cui si era cacciato, non c'era altro che potesse fare e se lo faceva, era per ragioni che andavano al di là della sua comprensione. Non era mai stato particolarmente maturo e non se n'era mai fatto un cruccio, ma se riusciva a leggere del rimprovero persino negli occhi verdissimi di Axl, allora aveva superato ogni limite.
Finse di non pensarci o di non essere turbato, soffiando fuori una nuvola di fumo che s'increspò nell'aria incandescente dell'estate, prima di lanciare il mozzicone ancora acceso oltre la balaustra del minuscolo terrazzino che lo ospitava.
“Finirà che darai fuoco a qualche macchina, se continui a non spegnerle.”
La voce di Hannah lo colse di sorpresa, strappandogli una smorfia che si sforzò di nascondere dietro un sorriso gentile.
“Non sei tu quella ambientalista?” le fece notare, aggrottando le sopracciglia nel tentativo di non fissare troppo la ragazza che gli scivolò accanto, impegnata a non guardarlo negli occhi. “Una macchina in meno per la causa!”
Teneva le mani appoggiate su un ventre inequivocabilmente rotondo, le dita abbandonate in una carezza distratta alla vita che andava crescendo dentro di lei e con gli occhi seguiva il via vai delle macchine dieci piani più sotto, lungo la strada che correva scura verso il cuore della città.
“Sei tornato tardi, stamattina” disse invece, sollevando finalmente lo sguardo verso di lui che, impassibile, si ritrovò ad affogare nel grigio limpidissimo dove il suo volto si rifletteva apatico, privo s'espressione.
Tornato tardi era un eufemismo fin troppo gentile per poter descrivere l'ora improponibile in cui era sgusciato oltre la soglia del minuscolo appartamentino, arricciando il naso per l'odore intenso del caffé che dal cucinino si allargava di stanza in stanza, invitante. Ma lei non aveva detto nulla e lui neppure, così si era infilato nell'oscurità della sua camera da letto e si era abbandonato all'oblio di un sonno senza sogni. Come sempre.
Era inevitabile del resto.

Duff sbatté le palpebre, scacciando via qualche ricciolo soffice dalla fronte pallida.
“Lo so, abbiamo provato fino a tardi.” mentì, secondo uno schema che si ripeteva immutato ormai da tre mesi e mezzo, aggrottando la fronte in un dispiacere che non sentiva come suo.
Hannah inclinò il capo sulla spalla destra, scoprendo la linea delicata del collo baciato dal sole. Un minuscolo tatuaggio, un fiorellino di cui non ricordava mai il nome, occhieggiò nerissimo verso di lui, senza che i capelli raccolti in uno chignon disordinato lo nascondessero nella loro ombra.
“Bene”, schioccò secca, accogliendo la bugia senza battere ciglio, “Vuoi qualcosa da mangiare?” chiese dopo un attimo, sbirciandolo oltre la spalla lasciata nuda dalla spallina della canottiera che indossava.
“No, sono già in ritardo, mi stanno aspettando” declinò il bassista, allontanandosi dalla ringhiera con uno scatto rapido. Al contrario, lei si ritrasse con le movenze sinuose di un gatto, lasciandogli spazio per rientrare nella penombra del minuscolo salottino stipato di mobili fino ad esplodere.
Sentì il suo sguardo troppo pulito minacciare di perforargli la schiena mentre raggiungeva l'ingresso, tanto da inciampare negli ultimi passi e rischiare di andare a sbattere contro la porta chiusa.
Impaziente, se la sbatté alle spalle, desiderando solo di potersi perdere nella notte e nel sapore acre di un bicchiere di whisky da quattro soldi.
Non ne poteva più di quell'assurda situazione.

 

 
Hannah rimase da sola, per l'ennesima volta, nel silenzio di una casa che non sentiva come sua.

Si era trasferita lì quando non aveva più trovato amici disposti ad ospitarla, troppo a disagio davanti alla sua gravidanza o semplicemente più disperati di lei per poterla ospitare a scrocco. Non le piaceva vivere alle spalle degli altri, ma non aveva scelta: come aveva imparato sulla sua stessa pelle, nessuno aveva voglia di assumere qualcuno che tempo due mesi non sarebbe più stato in grado di vedere le punte dei propri piedi o di stare in piedi per almeno otto ore di fila senza sentirsi svenire per la fatica.
Da quando i suoi genitori l'avevano cacciata di casa non era stata in grado di fare altro che vagabondare di porta in porta, in cerca di un divano dove dormire in cambio della promessa di una gratitudine che prima o poi si sarebbe  trasformata in qualcosa di più concreto. 
Da Seattle a Los Angeles il passo era stato breve, ma una volta finito l'elenco di amiche e di conoscenze occasionali a cui chiedere un angolino, non aveva avuto scelta e si era trovata costretta a cercare Duff.
Duff.
Lo aveva conosciuto qualche anno prima, a scuola.
Due anni avanti rispetto a lei, lo aveva sempre associato allo sguardo indolente con cui si rivolgeva al mondo e ad un'immancabile sigaretta tra labbra arroganti, sfrontate come la lingua che celavano dietro un sorriso tagliente.
Lo trovava bello, con quei capelli clamorosamente tinti e i vestiti scelti sempre un po' a caso, secondo un gusto personale che lo aveva reso una sorta di leggenda tra i corridoi della scuola, incubo di professori svogliati e sogno proibito di ragazzine troppo trasognate per poter effettivamente pensare di avvicinarlo.
Ma bello non era abbastanza per lei, che guardava altrove e cercava qualcosa che potesse portarla via dalla città dei ferry boat e della pioggia, verso lidi più scintillanti - sognava New York da quando aveva cinque anni, i suoi grattaceli lucidi e le strade brulicanti di vita; era il centro del suo mondo e dei suoi progetti.
Che Duff McKagan la sera prima si fosse fatto Jane, l'ambitissima capo-cheerleader, sbattendosela letteralmente sul cofano della sua automobile sgangherata era l'ultimo dei suoi interessi, all'epoca, e se mai le avessero detto che tempo un anno si sarebbe ritrovata incinta nel suo appartamento avrebbe riso così forte da farsi venire le lacrime. 
Era rimasta sorpresa quando lui le aveva parlato per la prima volta, chiedendole cosa andasse a cercare nella grande mela. Già il fatto che lui sapesse di questo suo interesse l'aveva fatta sentire insolitamente lusingata, spingendola ad abbassare le difese per confidargli di come sognasse di diventare giornalista.
Lui aveva sorriso, riempiendosi la bocca di fumo, e poi aveva annuito tra sé e sé - come se tutto rientrasse nei confini di un disegno più ampio già programmato, che lui misteriosamente poteva contemplare dall'alto della sua popolarità.
Le aveva detto che anche lui puntava a New York, una volta finita la merdosissima scuola del cazzo, ma per andare ad esibirsi al CBGB con un gruppo tutto suo.
A quel punto era stata lei a sorridere cortesemente, riavviando una ciocca di capelli all'epoca ancora tristemente costretti in una improponibile permanente, annuendo compita un paio di volte senza avere la più pallida idea di che altro dire per non lasciar morire la conversazione.
Senza trovare nulla, aveva accolto il silenzio e il saluto svagato arrivato un attimo più tardi come un congedo inevitabile e l'aveva guardato andare via nel sole di una mattinata insolitamente luminosa per la stagione convinta che non si sarebbero mai più trovati così vicini.
Era inevitabile del resto.
Non si erano mai più parlati da allora e quando Duff era riuscito ad ottenere il tanto agognato diploma, erano entrambi troppo distanti per poter trovare un punto d'incontro. Fu per caso che finirono a letto assieme.
Era un'insipida notte di metà novembre, il cielo incupito da una totale assenza di stelle e la Luna troppo sottile per poter colorare d'argento il mondo -la luce dei lampioni si riversava giallognola sul retro del locale dove lui l'aveva trovata mentre teneva i capelli ad un'amica a caso e storceva il naso per l'odore disgustoso del vomito.
Le facevano male i piedi e la testa le girava per i drink che aveva bevuto più per sete che per il bisogno d ubriacarsi che sembrava cogliere la maggior parte dei suoi coetanei ad ogni nuovo sabato sera; e iniziava ad essere stanca di dover rimanere in quel vicolo lurido a scandire paroline incoraggianti senza nessuna voglia. Voleva andarsene a casa e infilarsi sotto le coperte dopo un bel bagno bollente, null'altro.
Duff, al contrario, non aveva nessuna intenzione di tornarsene a casa.
Stava festeggiando, le spiegò strascicando le parole in una parlata quasi incomprensibile, perché tempo quattro giorni al massimo e avrebbe salutato quella fognosa città per abbracciare il sole dorato di Los Angeles.
E New York?Aveva chiesto lei, sinceramente stupita, tanto da lasciar andare i capelli dell'amica che crollò nel suo stesso vomito con un gemito esausto. L'aveva guardata con un disgusto talmente assoluto che lui aveva fischiato, ammirato, sogghignando sotto i baffi.
New York, scoprì qualche minuto più tardi, dopo averla sollevata e infilata in un taxi a forza, era passata.
Superata, dimenticata, finita.
La città degli angeli era il nuovo cuore pulsante della musica, della vera musica, e lì lui era diretto. Si era ritrovata a pendere dalle sue labbra come un cucciolo bisognoso d'affetto, stordita dalla luminosità del suo sorriso e catturata dallo scintillio che d'un tratto aveva fatto capolino nei suoi occhi scuri, magnetici, irresistibili: avrebbe fatto qualsiasi cosa, per trattenere quello sguardo su di sé, e quando lui le aveva proposto una birra aveva accettato.
Aveva accettato anche quando lui, stringendole la vita, l'aveva trascinata via dalla ressa fino al minuscolo monolocale dove viveva assieme ad altre tre coinquilini, opportunamente spediti via a suon di minacce - col senno di poi avrebbe ricordato quella notte come uno strano miscuglio di sensazioni che non sapeva gestire, un bisogno che le faceva prudere la punta delle dita d'impazienza mentre lui le sfilava la maglietta e indugiava a baciarle la pancia con un sorriso pigro, soddisfatto.
Non che fosse la sua prima volta, ma si era sentita come se si approcciasse al sesso in un modo completamente diverso. Un gioco di valori assoluti, di combinazioni chimiche sconosciute che si erano accese di respiro in respiro, annebbiando ogni sua esperienza passata.
Si era lasciata rivoltare, aveva infranti i limiti fisici del suo stesso corpo che si modellava come creta sotto le dita di lui e alla fine, quando era crollata esausta sul suo petto sudato, una bizzarra sensazione di tepore le era esplosa dentro. Persino Duff si era trattenuto dal fare commenti, limitandosi ad accarezzarle distrattamente i capelli prima di alzarsi e rivestirsi.
L'aveva preso come un segnale, lei che si sveltine sapeva poco o nulla, e un attimo più tardi aveva fatto lo stesso, senza trattenersi dall'osservare come persino sulla sua maglietta sembrava essere rimasto impresso l'odore di lui, inconfondibile come un marchio che si sentiva bruciare addosso, in ogni singolo punto dove era stata baciata e morsa.
Aveva persino sorriso, dandogli dell'impudente, quando sulla soglia della stanza le aveva strappato un ultimo, estenuante, languido bacio, consapevole del fatto che se fosse durato un solo attimo di più sarebbe stata lei a spingerlo indietro, incapace di controllarsi. Era tutto un gioco, per lui, dove seduzione e abbandono non erano che due fasi concatenate e necessarie per non annoiarsi mai, per non perdere mai, per non soffrire mai; un gioco a cui lei non aveva mai giocato fino a quella notte. Quando poi grossomodo due mesi più tardi aveva scoperto di essere incinta, lui era ben che lontano da Seattle e lei nei guai fino al collo, tanto da guardare all'intensità di quelle poche ore con occhi completamente diversi.

Hannah sospirò silenziosamente, cogliendo il suo riflesso sulla superficie lucida del mobiletto da giardino che usavano come dispensa: quasi non si riconosceva più. La pancia rotonda diventava più grande di giorno in giorno e spostarsi a piedi per la città era un incubo che tendeva a rimandare sempre più frequentemente.
Si lasciò cadere cautamente sul vecchio divano sfondato in un angolo, quello che era il suo letto, preparandosi ad un ennesima serata di solitudine e cercando di non pensare al momento in cui Duff sarebbe rientrato portandosi addosso l'odore dell'ennesima spogliarellista rimorchiata per gioco.
Il solo pensiero la faceva star male, più di quanto fosse disposta ad ammettere.
Un bambino non può crescere un altro bambino: non ricordava più che le avesse detto quella frase, ma niente sembrava più azzeccato per descrivere le sue preoccupazioni. Lei per prima era una bambina, neanche vent'anni e incinta, come avrebbe potuto farcela da sola? Non riusciva a trovare un lavoro che fosse uno e tutti i suoi amici si erano improvvisamente dileguanti all'orizzonte, lasciandola sola con un ragazzo che sembrava aver scelto semplicemente di ignorare la sua presenza. Non aveva un posto dove andare, non aveva nessuno con cui parlare.
Duff si limitava ad allungarle lo stretto indispensabile per non farla morire di fame, le parlava a malapena e si vedevano si e no per dieci minuti al giorno, un intervallo di tempo nel quale erano troppo impegnati ad ignorarsi reciprocamente per trattenere i fiumi di rancore che scorrevano impetuosi tra i loro pensieri.
Se uno di loro due avesse osato rompere un argine, la piena sarebbe stata così violenta da spezzarli entrambi. Non ci sarebbero stati superstiti, il loro era un equilibrio troppo fragile per poter sostenere un colpo del genere, e non poteva permettersi di perdere l'ultima persona che, nonostante tutto, le fosse rimasta.
Abbracciò un cuscino, ascoltando il silenzio dell'appartamento riecheggiare attorno a sé. Non si era mai sentita tanto sola e patetica in tutta la sua vita.

 

 
“Hai lasciato di nuovo Hannah a casa?” fu la domanda con cui Izzy lo accolse, le sopracciglia inarcate sopra gli occhi chiarissimi. Duff poteva leggere, nel verde malinconico che lo fissava senza pudore, un rimprovero tacito che non sarebbe mai stato pronunciato ad alta voce e che proprio per questo non poteva sopportare.

“Ciao anche te, Stradlin” ribatté sarcastico, passandogli accanto.
I riccioli neri di Slash fecero capolino oltre lo stipite della porta di quello che avrebbe dovuto essere un cucinino, troppo fitti per lasciar intravedere gli occhi d'inchiostro del chitarrista.
“Ciao, McKagan” lo salutò laconico, mentre il bassista si accendeva la prima sigaretta della serata. “Rose è in ritardo, al solito, prenditi pure tutto il tempo del mondo per rispondere a Izzy.” gli consigliò, apparentemente disinteressato, trattenendo a fatica un sorriso pungente.
“Mi chiedo di chi siate gli amici, se i miei o i suoi” si lamentò, infastidito, passandosi una mano tra i capelli biondi.
I due si scambiarono un'occhiata che non passò inosservata.
“D'accordo, d'accordo, ritiro la domanda” brontolò imbronciato, schiacciandosi contro una parete dipinta con una vernice bianca da quattro soldi e abbracciando affettuosamente il suo basso.
“Duff, noi siamo amici tuoi” iniziò a dire Izzy, insolitamente sobrio nonostante l'ora “Ma quella povera ragazza metterà al mondo tuo figlio. Un po' di compassione da parte nostra la merita, se non altro perché è costretta a tenersi nella pancia una minuscola copia di te.”
“Prova a offrirgliela di persona, la tua compassione, e vedrai come ti stacca la testa a morsi dal collo” sibilò cupo, senza alzare gli occhi dalle corde dello strumento che pizzicò timidamente con la cura di un amante premuroso.
“Sai, se tu la portassi qui ogni tanto potrei anche pensare di farlo!”
“Non è certo un cane che devo portare fuori di casa tre volte al giorno.”
“Per non parlare del fatto che non ci è stata data la possibilità di scegliere se essere amici tuoi o suoi.”
“Stronzo come sei non ci guadagnerebbe ad essere amica tua, Stradlin.”
“Duff, lasciatelo dire, ma sei senza cuore. Sono pronto a giurare che vuoi più bene a quel basso che a tua madre” lo schernì Slash, lasciandosi cadere di peso sul divanetto accanto a Izzy. Entrambi i chitarristi rimasero immobili a fissarlo, giudici inflessibili di un processo che non aveva voglia di affrontare, e la sua unica scelta fu quella di rimanere zitto e inghiottire lo scontento, sperando ardentemente che Axl si facesse vivo in fretta per mettere fine a quella tortura.

Quando Hannah si era presentata alla porta di casa sua, la faccia stravolta e visibilmente incinta, sul momento aveva pensato ad uno scherzo. Solo quando lei gli aveva annunciato, con una serietà che andava ben oltre i suoi diciassette anni e mezzo, di aspettare suo figlio, aveva realizzato di non avere motivo di dubitare delle sue parole. La sincerità con cui lei aveva parlato, immobile sull'uscio di casa con le spalle ben dritte e la linea fragile della schiena nascosta da una massa di capelli color cioccolato, era assoluta.
Certo, ricordava quell'unica notte che erano stati assieme, quando l'aveva trovata dietro un pub da due soldi e per qualche strano motivo la sua espressione insofferente l'aveva attratto. Aveva scorto qualcosa, in lei, forse niente più di un bagliore nei suoi occhi chiari o l'ombra di un sorriso sulle labbra morbide, il presentimento che nascondesse qualcosa dietro quell'aria svogliata insospettabilmente cheta e tanto era bastato a farli agire d'impulso. Sarebbe partito nel giro qualche giorno, cosa gli cambiava sbattersi una ragazzina in più?
Non andava in cerca di nulla che non potesse concedergli qualche ora di oblio e Hannah, come lei gli aveva ricordato di chiamarsi quasi tre mesi dopo il loro incontro, era l'occasione che cercava.
L'aveva accolta, che altro avrebbe potuto fare?
Non era un mostro di maturità ma sapeva leggere la stanchezza sul volto delle persone, e quella ragazzina gracile che gli stava davanti con gli occhi lucidi di emozioni coraggiosamente trattenute aveva un'aria veramente esausta. Non aveva voluto abbracci, non aveva voluto promesse, non aveva voluto nulla che non fosse un posto dove stare fino a quando il bambino non sarebbe nato. Poi, gli aveva detto, lo darò in adozione e sparirò dalla tua vita.
Duff, che tutto avrebbe voluto tranne che prendere decisioni in merito ad un bambino che non aveva ancora realizzato essere suo, si era limitato ad accettare tanta determinazione come un dono del cielo: avrebbe fatto qualsiasi cosa per tirarsi fuori da quella situazione nel modo più indolore possibile e cedere il divano ad Hannah per qualche mese era ben poca cosa se messa a confronto con l'idea di trovarsi ad affrontare genitori infuriati, un matrimonio combinato e un figlio da accudire da qui per il resto dei suoi giorni, fino a quando un infarto non lo avrebbe stroncato alle soglie dei settantacinque anni. Il solo pensiero, del resto, gli faceva accapponare la pelle per il disgusto.
Solo che poi erano cominciate le prime complicazioni, i primi silenzi imbarazzati, il bisogno -suo- di evadere e quello speculare -di lei- di trovarsi ovunque tranne che li.
Si irritava quando al mattino il bagno erano occupato, il rumore dei conati e l'odore di vomito che strisciava sotto la porta lo disgustavano; vederla uscire traballante su quelle gambette magre con il volto più verde che bianco e negli occhi una muta richiesta d'aiuto non lo impietosivano ma lo facevano uscire dai gangheri fuori misura.
Si era abituato alla stanchezza di lei, mettendo da parte quello che l'istinto invece gli aveva suggerito e  dando per scontato che fosse nata stanca e basta, e si chiese perché dovesse sopportare il trascinarsi dei suoi passi nelle notti insonni o l'eco dei singhiozzi che il cui cuscino in cui tentava di soffocarli non nascondeva: neanche a lui piaceva quella situazione, ma non si piangeva addosso. Aveva fatto quello che doveva, accogliendola, che lei la smettesse di fargli pesare la situazione.
 
Era ancora immerso nelle sue riflessioni, quando Axl fece il suo trionfale ingresso alle spalle di Steven.

“Allora, signori, cominciamo?” chiese, arricciando le labbra in una piccola smorfia annoiata.
“Stavamo aspettando te, caprone” lo insultò Izzy, sorridendo dolcemente.
Il cantante si limitò ad omaggiarlo con la delicata visione del suo dito medio sinistro.
“Bell'anello, William, è nuovo?” lo elogiò il chitarrista, senza perdere il colpo.
Duff, che non aveva nessuna voglia di sorbirsi le loro schermaglie verbali, si staccò dalla parete con un colpo di reni e passò tra i due, raggiungendo l'angolo dove avevano accatastato gli amplificatori per collegarne uno al basso: lo strumento suonò una nota radiosa quanto il suo umore, facendo vibrare il pavimento sotto le suole dei suoi stivali.
“Iniziamo o no?” si limitò a dire, gli occhi scuri e gonfi di fastidio.
“Hai litigato con Hannie?” s'informò Steven, aggrottando la fronte. Il bassista alzò gli occhi al cielo, e Slash - da qualche parte nel minuscolo appartamento - sghignazzò.
“Perché diavolo pensate che il mio umore abbia in un qualche modo a che vedere con il mio rapporto con Hannah?” sbottò, irritato.
“Che rapporto, di grazia?” il batterista sbatté le palpebre dalle folte ciglia bionde, gli occhi azzurri così spaesati da non lasciare dubbi sull'assoluta buona fede della sua domanda.
Slash ululò la sua peggiore risata sguaiata, facendo presente a chiunque nel giro di due piani quanto trovasse divertente la domanda.
Izzy sogghignò, velenoso, e inforcò gli occhiali da sole distogliendo lo sguardo.
Axl, dal canto suo, si limitò a guardarsi le unghie mangiucchiate e lo smalto sbeccato con aria annoiata, prima di riprendere a parlare.
“Se non ci sono obiezioni, a questo punto io direi che possiamo iniziare, a meno che qualcuno non abbia altro da chiedere al nostro futuro paparino.”
Prima che Duff potesse sputargli in un occhio o saltargli alla gola, Steve alzò una mano, incerto.
“Si, Adler?” la squisita dolcezza di cui era intrisa la domanda del cantante era qualcosa di assolutamente terrificante che avrebbe distolto chiunque dal proposito di solo respirare più rumorosamente del dovuto: ma il biondo non sembrò cogliere il pericolo nello sguardo che cercò di strappargli il cuore dal petto, sorridendo vivacemente all'amico.
“Sapete già se è un maschio o una femmina?”

 
Erano da poco passare le due, quando lo scricchiolio della porta d'ingresso che si apriva fece sobbalzare Hannah, strappandola al sonno in cui era scivolata. Duff la trovò così, rannicchiata sul divano, inondata dalla luce e dai colori tremuli di una squallida trasmissione notturna -piccola, minuta, il volto abbandonato sul bracciolo meno sfondato e una cascata di capelli scuri che si riversavano oltre la curva pallida di un braccio. Teneva le labbra schiuse su chissà quale parola, gli zigomi ricamati dall'ombra delle ciglia scure che si sollevarono nel preciso momento in cui lui si sorprese a sorridere, prima che la tristezza inaudita dell'argento che le colorava gli occhi si affacciasse oltre gli echi confusi di un sogno scappato via frettolosamente.

“Oh” le scappò di dire, sollevandosi a sedere con un movimento impacciato dalla pancia rotonda. La canottiera che indossava si era sollevata sopra l'ombelico, rivelando una striscia di pelle bianchissima che un tempo era stata tesa e piatta come un tamburo, e che ora era tesa e rotonda come un pallone: si affrettò a coprirsi, imbarazzata dallo sguardo di lui che non accennava a lasciarla andare
“Mi hai spaventata” si giustificò dopo un attimo, strofinandosi una mano sul volto, sui rimasugli di mascara sbavato.
“Scusa.” le fece eco lui, laconico, attraversando la stanzetta per raggiungere il balconcino.
“Non fa niente.”
La nota allegra di quelle tre parole era la prova lampante di come la solitudine la stesse logorando, si disse silenziosamente posando i piedi nudi sul pavimento freddo e appiccicaticcio. Avrebbe parlare persino con un gatto, se questi le avrebbe promesso di miagolarle in risposta; qualsiasi cosa pur di non sentirsi così terribilmente abbandonata.
“Come sono andate le prove?” si sentì chiedere, bloccando con orrore un sorriso sul nascere. Una fiamma guizzò nel buio, una nuvoletta di fumo rotolò nell'aria tiepida e si schiantò contro il suo viso.
“Da quando in qua ti interessa?”
Avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa, Duff lo sapeva.
Avrebbe potuto dirle che erano andate bene nonostante le domande inopportune sulla sua inopportuna gravidanza, oppure di come Axl continuasse imperterrito ad atteggiarsi a primadonna spadroneggiando su tutto e tutti.
Avrebbe potuto essere gentile e raccontarle di come Steven lo implorasse di conoscerla, ma di tutte le opzioni era stata la prima ad essere scartata perché implicava organizzare un incontro ed era troppo geloso dei suoi amici per condividerli con chiunque, persino con una ragazzina incinta che alle due del mattino lo supplicava per quattro chiacchiere nonostante la stanchezza.
C'era un mondo intero di cose che avrebbe potuto raccontarle, e per capriccio aveva scelto di accusarla di qualcosa di cui non aveva colpa. L'indifferenza nei suoi confronti.
Tra tutte le infinite possibilità che dopo la sua domanda gli si erano spalancate davanti, lui aveva scelto la più sbagliata: sapeva che l'avrebbe ferita e l'aveva fatto consciamente - stupidamente -, poteva leggere la sorpresa e una sottile sofferenza incupirle gli occhi chiari mentre le lebbra, un attimo prima schiuse in una vaga aspettativa, si stringevano in una linea severa. Se solo si fosse arrabbiata, si disse sentendo le dita scrocchiare nella violenza della stretta in cui lei le costringeva, se solo si fosse arrabbiata, se solo avesse reagito, se solo... Non sapeva cosa avrebbe fatto, in quel caso.
Non ne aveva la più pallida idea, ma sarebbe stato un qualcosa da cui partire.
Era più bravo a costruire rapporti basati sulle macerie di una devastazione furiosa, che non dalla pacifica noncuranza che avevano scelto di riservarsi l'un l'altra. Persino essere gentile sarebbe stato più facile, che non portare avanti quella farsa.
Ma non ci riusciva, questo era il problema: era furibondo con lei, per essergli piombata tra i piedi, per essersi imposta in casa sua, addirittura per essere rimasta incinta come se i bambini non si facessero in due, e non era fisicamente in grado di riservarle nulla di diverso da quel gelo oltraggioso.
Quasi consapevole di quel suo desiderio, Hahhah rimase in silenzio. Non disse nulla.
Incassò il colpo con grazia impareggiabile e gli diede le spalle, cercando il telecomando per spegnere la televisione.
“Buona notte” gli augurò secca come uno schiaffo, tornando a stendersi sul minuscolo divano dove aveva accettato di dormire nonostante i dolori atroci alla schiena che l'accompagnavano al risveglio.
Non gli aveva mai rinfacciato nulla, non gli aveva mai chiesto nulla più di quell'ospitalità e così avrebbe fatto quella notte e tutte le notti a seguire. Litigare non era una possibilità che sembrava essere in grado di contemplare. La discussione era chiusa.
Ma quale discussione? Si chiese Duff amareggiato, trattenendo l'impulso di tirare un calcio ad un muro.
La notte attorno a lui, silenziosa, sembrava guardarlo con lo stesso disappunto che aveva letto negli occhi di Izzy qualche ora prima. Sbirciò alla sue spalle, nella stanzetta buia dove non si sentiva neppure il rumore dei respiri della ragazza.
Una ragazza che portava in grembo suo figlio, un figlio che neppure lei aveva voluto.
Doveva ricordare, il più delle volte, che non era l'unico a vivere quella situazione orribile, e non era neppure lui quello che aveva visto il suo corpo cambiare da un mese all'altro, trasformandosi nell'incarnazione di un incubo infernale da cui non c'era via d'uscita.
Magari se se lo fosse tatuato addosso, il messaggio sarebbe stato più chiaro.
“Hannah...?” chiamò dopo un attimo, dando le spalle all'infinità di grattaceli che sfidavano il buio.
Silenzio.
“Hannah...” insistette, incrociando le braccia al petto.
Un fruscio nervoso gli fece capire che doveva essersi messa a sedere, in un modo o nell'altro.
Ma ancora nessuna parola.
“Non fare la stronza, Hannah.” disse seccato, pronunciando il nome della ragazza per la terza volta nel giro di cinque minuti - più di quanto avesse mai fatto in sua presenza da quando l'aveva accolta, in realtà.
La vide emergere nella luce fioca di un lampione troppo vicino, fantasma vomitato da un passato remoto, muovendosi con passi lenti e felpati verso di lui, troppo concentrata nel tentativo di capire le sue intenzioni per nascondere una diffidenza naturale che lo colpiva in ondate violente ad ogni nuovo sguardo. 
Quando si fermò, incrociò le braccia al petto e aggrottò la fronte, invitandolo a parlare.
Il tutto in un fastidiosissimo e assolutamente meraviglioso silenzio.
“Fanculo, tu vuoi proprio farmi incazzare eh?” l'aggredì suo malgrado, sputando rabbia e saliva oltre la balaustra del balcone. L'alcol che aveva buttato giù prima di tornare a casa gli annebbiava i pensieri, dando sfogo ad una rabbia tanto intensa da fargli tremare le mani.
La ragazza seguì la traiettoria perfetta dello sputo, indugiò sul vuoto che si spalancava oltre le sbarre di ferro scrostato e quindi tornò a fissarlo, insistente. Ostinatamente muta.
Duff avvertì con precisione insospettabile il sangue ribollirgli nelle vene, pompato ad un ritmo violento che minacciava di sfondargli il petto; a lei non sfuggirono i suoi occhi scuri mentre si accendevano di una furia che la fece deglutire rumorosamente.
Vide le piccole narici di lei fremere in uno spasmo involontario, un tremito che contagiò dopo qualche attimo le nocche delle dita e rimbalzò di vertebra in vertebra lungo la linea delicata della schiena, scuotendola in un brivido troppo vistoso per poter essere nascosto. Aveva paura di lui, una paura tale da inchiodarla lì e costringerla oltre ogni buon senso a non distogliere lo sguardo, a perseverare in quella che sembrava aver deciso essere una punizione sufficientemente fastidiosa da farlo arrabbiare e ricordargli -a ragione- che in quella situazione ci erano finiti assieme.
Agghiacciata, quasi non si accorse di quell'alito di vento che le accarezzò il volto senza donarle alcun conforto.
“Cosa vuoi che ti dica?” riuscì finalmente a scandire, dopo un tempo che ad entrambi parve infinito “Non so più cosa dirti, ho esaurito le mie risorse Duff. Se ti va posso ricordarti di nuovo che neanche a me piace trovarmi sepolta in questa merda e che più di evitare di farti pesare la mia presenza in ogni modo non posso fare molto? Ho smesso di parlarti perché sembra ti dia fastidio persino il suono della mia voce, se vuoi che mi scusi per averti chiesto delle prove, beh... scusami.”
Il bassista rimase in silenzio, guardandola spogliarsi di ogni rabbia per vestire, in cambio, le sfumature cupe di una rassegnazione quasi dolorosa.
“Se non dico niente, è perché non c'è niente da dire. Non far finta di non saperlo.” gli ricordò con una smorfia, guardandolo con un'intensità tale da fargli tremare l'anima “Posso tornare a dormire, adesso?”
Vergognandosi come un cane, Duff distolse lo sguardo e lei, dopo un ultimo sospiro, gli diede le spalle. 

 
Tre giorni più tardi, realizzò Hannah, non si erano ancora rivolti la parola.

L'aria era così elettrica, quando erano vicini, che poteva sentire i capelli rizzarsi sulla nuca e la pelle formicolare dolorosamente per la troppa tensione. Erano in uno stato di tale agitazione che il caffé era scomparso qualche giorno prima dai ripiani della cucina e Duff aveva volontariamente deciso di ridurre l'esorbitante numero di birre che era solito bere in una giornata. Come se la maggiore lucidità potesse in un qualche modo evitare loro di esplodere in una pioggia di frammenti che non sarebbero stati in grado di ricostruire.
Ma neanche quando si ritrovavano da soli riuscivano ad avere un attimo di pace: nel silenzio forzato di un appartamento troppo piccolo, persino l'innocuo gocciolio del rubinetto del bagno riusciva a far saltare ad Hannah i nervi dopo i primi dieci minuti, tanto che quando il padre di suo figlio rientrava a tarda notte, fuori da ogni grazia divina per i commenti di quelli che un tempo - perché decisamente adesso non lo erano più - considerava suoi amici, doveva mordersi la lingua per non dire o fare qualcosa di estremamente stupido e ritrovarsi a passare la notte all'addiaccio.
Duff, dal canto suo, non si privava del piacere perverso di sfoggiare il suo malumore come un prezioso gioiello, un diamante raro che esibiva in ogni momento e a volte senza pretesti validi, solo per il gusto di farlo.
Si sentiva stupido, ogni tanto, a prendersela perché non aveva portato giù la spazzatura – specie perché sapeva fin troppo bene come quei dieci piani di scale stavano diventando una vera e propria impresa, per lei - o perché la sua maglietta pulita si era asciugata tutta stropicciata l'unica volta che era stata lei a lavargliela.
No, non si stava affatto comportando bene e ne era consapevole: solo non riusciva a smettere e ascoltare l'eco delle sue lamentele isteriche gli sembrava più sopportabile che non convivere con il silenzio ostinato di lei, trincerata dietro una barriera insuperabile nella sua totale assenza di suono.
Si stupì, quando lei s'intrufolò nella sua camera per sedersi sul bordo del letto.
Colse il movimento con la coda dell'occhio, una chiazza di colore che sfondò i margini del suo campo visivo facendosi via via più precisa nella vicinanza: indossava una canottiera nera, troppo ampia per le spalle minute, che le ricadeva floscia sul seno acerbo per poi tendersi dove il ventre s'ingrossava impietoso, poco più sotto, e dei vecchi pantaloni sdruciti.
“Ho bisogno di uscire” gli disse, tenendo lo sguardo basso sulle mani raccolte in grembo. Lo smalto giallo, sulla punta delle dita, era sbeccato da giorni.
“Mh” fece lui, dubbioso, continuando a fissare il suo riflesso in uno specchio scheggiato e controllando lei di tanto in tanto. La vide sollevare il volto, una luce bellicosa in quegli occhi troppo chiari e troppo grandi, promettendo una guerra lunga e faticosa di schermaglie verbali e frecciate intrise di veleni letali.
“Mi piacerebbe venire con te, questa sera” propose invece con ferma dolcezza, stracciando ogni pronostico di aggressività “Starò buona, lo giuro, mi metto in un angolino e non fiato per tutto il tempo. Duff, ti prego, ho bisogno di uscire.”
“Mi preghi?” ripeté lui incredulo, una palpebra sfumata di nero e l'altra ancora struccata, voltandosi per guardarla.
Hannah ricambiò il suo sguardo con quella sua insolitamente adulta fermezza, annuendo.
Sembrava dubitare della sua voce, delle sfumature che avrebbe assunto andando contro la sua volontà e il suo desiderio di aria fresca, tanto da scegliere di affidarsi al suo corpo, che più di chiunque altro l'aveva tradita accogliendo una goccia di vita scappata dal nulla appena sei mesi prima.
Duff raddrizzò la schiena, valutando la situazione: portarsela dietro significava muoversi con una palla al piede attraverso la città e sopportare i commenti degli altri per molto, molto, molto tempo. D'altro canto, lasciarla a casa era una cattiveria bella e buona, un insulto alla maturità di quell'offerta di pace che gli stava tacitamente offrendo chiedendo aiuto.
“Solo alle prove, poi in un modo o nell'altro te ne torni a casa” concesse dopo un vergognoso minuto di riflessione “Non mi va di averti tra i piedi tutta la sera”
Si sentì quasi in dovere di aggiungerlo, guardandola trattenere un sorriso vittorioso mentre si alzava in piedi e tornava verso il soggiorno. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era che iniziasse a credere quello fosse abbastanza per fare di loro due amici, eppure l'idea di vedere come si sarebbe comportata nella baraonda che seguiva sempre le loro prove lo incuriosiva.
Sarebbe stata una serata interessante, nel bene e nel male.

“Non mi ricordo come ti chiami”
“Izzy, mi chiamo Izzy” si presentò per l'ennesima volta il chitarrista, alzando gli occhi al cielo e distogliendo lo guardo dalla rossa che si sventolava la faccia con aria annoiata, sottolineando con apparente casualità l'ampia scollatura della maglietta che indossava.
Incrociò lo sguardo di Hannah, qualche metro più in la, seduta davanti un tavolino sgangherato con il volto che affondava nel palmo della mano destra e le lesse addosso la sua stessa insopportabile noia.
Era da quando avevano finito le prove, ossia nel momento in cui si erano presentate le ragazze, che lei era lì da sola.
Senza dire una parola alla sua interlocutrice, la liquidò e si avvicinò all'altra.
“Ti annoi?” le chiese, lasciando che una sigaretta dondolasse pericolosamente da un angolo delle sue labbra sottili.
“Vuoi una risposta sincera o una risposta che ti permetta di tornare dalla tua amica senza troppi rimorsi?”
Il ragazzo fischiò sommessamente, ridacchiando.
“Sei tagliente, ragazzina”
“E tu non mi hai risposto, ragazzino”
“Facciamo che tu non mi chiami ragazzino e io ti rispondo, che dici?”
“Facciamo che tu non mi chiami ragazzina e io non ti chiamo ragazzino, allora”
Rimasero in silenzio per qualche attimo, scrutandosi con attenzione.
Ma proprio nel momento in cui Hannah iniziava a maledirsi per l'infelice uscita che minacciava di scacciare via l'unica persona venuta a parlarle nel giro di ore, il chitarrista si abbandonò ad una risata sguaiata.
“Tu” le disse indicandola con dita sottili ornate di anelli d'argento “Tu sei una forza, ragazzina.”
Stupita, rimase così interdetta da non avere nulla da obbiettare persino sul nomignolo.
Si strinse nelle spalle magre, fingendo indifferenza e approfittandone per guardare di nuovo verso la sala: nella baraonda di risate e chiacchiere, tra capelli assurdamente cotonati e abiti vergognosamente volgari, non riuscì a scorgere che Duff, proteso verso una moretta visibilmente ubriaca, intento a sfoggiare il suo sorriso migliore. Lo stomaco si strinse in una morsa dolorosa, costringendola a distogliere lo sguardo con una smorfia.
“Che c'è, te la sei presa?” la voce di Izzy disperse i suoi pensieri, richiamando la sua attenzione.
“Mh?”
“Ti ho chiesto se te la sei presa, ma a questo punto direi che in realtà non l'hai proprio sentita la domanda..”
“Scusa” chinò il capo, le spalle curve e un tono così mortificato da spezzare il cuore “Sono solo stanca e..”
“E...?” la incitò lui gentilmente, posandosi i gomiti sulla plastica appiccicaticcia del tavolino per potersi sporgere verso di lei.
Pallido, gli occhi chiari offuscati da qualche bicchierino di troppo e il respiro caldo che le solleticava la pelle, trasudava la stessa sicurezza intrigante che aveva visto in Duff la sera che ci era finita a letto, mitigata da una gentilezza che non sapeva spiegarsi se non come una sua sensazione distorta dalla disperazione in cui stava affogando.
“E niente, gli avevo promesso che non gli sarei stata tra i piedi” concluse con una stretta di spalle, arretrando inconsapevolmente.
“Ma tu non gli stai tra i piedi!” la voce indignata di Steven piovve dall'alto, ruvida come una manciata di sabbia lasciata cadere nel vento.
Nell'inseguire il suono delle parole sollevò il volto, ritrovandosi a fissare due occhi azzurri disarmanti, incorniciati da folte ciglia bionde, e un'espressione talmente sdegnata da farla sorridere.
“Presumo intendesse qualcosa di più letterale, come non trovarmi fisicamente nel raggio di dieci chilometri dalla sua regale presenza.”
“Che stronzo” commentò il batterista, lasciandosi cadere sulla sedia accanto alla sua.
“Ho smesso di farci caso.” si strinse nelle spalle lei, intercettando lo sguardo scuro di Duff e distogliendo rapidamente il suo, imbarazzata.
“E sono pronto a scommettere che l'hai fatto il giorno in cui ha imparato a raccontare bugie credibili” la stuzzicò Izzy, senza guardarla, soffiando una nuvola di fumo che nascose la sua espressione sorniona per qualche attimo.
“Come?”
“Oh, lascia perdere Izzy, è bravo a mettere in fila belle parole che ti confondono e che lo fanno sembrare un gran figo, ma la triste verità è che non ha la più pallida idea di quello che sta dicendo.” minimizzò il biondo, sporgendosi verso l'amico un attimo più tardi “Me la dai una sigaretta, per favore?”
“Non dovreste fumare in faccia ad una signora incinta.” gridò Duff dall'altro lato della stanza, senza neppure chiedersi il perché, mentre corrugava la fronte in un fastidio che gli prudeva sulla punta delle dita.
Cosa diavolo voleva Stradlin da Hannah?
“E' incinta?!” squittì la moretta davanti a lui sbattendo le ciglia impiastricciate di mascara, le labbra scarlatte aperte in una perfetta O di stupore che non bastava a mascherare il sottile disgusto che le offuscava lo sguardo avido.
“E' stupida?!” le fece eco Izzy, in una perfetta e crudele imitazione che costrinse Hannah a soffocare una risata dietro una mano premuta sulla bocca. Il bassista fece una smorfia, imbarazzato dalla compagnia che si era scelto e che liquidò con qualche parola biascicata senza convinzione, scivolando minaccioso verso il tavolino dove Steven si era accucciato, posando un'orecchia contro la pancia rigonfia di Hannah e chiedendole se per caso la creatura già scalciasse.
“No, non ancora.” rispose lei, tesa, alternando gli occhi chiari tra il batterista e il biondo che li raggiungeva.
Il panico affogò nel nero delle pupille dilatate mentre contava mentalmente i passi anche ancora mancavano al momento in cui si sarebbe fermato davanti a lei e avrebbe detto qualcosa, qualcosa di estremamente sgradevole con ogni probabilità, per ricordarle come non fosse la benvenuta nel suo mondo.
Incassò il capo tra le spalle in cerca di una protezione che non sarebbe bastata a proteggerla, socchiudendo gli occhi in due fessure sottili, quando lui la sorprese scegliendo si rivolgersi all'altro biondo con una smorfia.
“E' troppo presto perché scalci e, ripeto, nessuno di voi due dovrebbe fumarle in faccia. È...”
“Incinta, lo sappiamo” Izzy lo fissò senza dargli il tempo di finire la frase.
C'è una nota di insinuazione, nella sua voce, che gli avvelenò il sangue di nuovo fastidio.
“…Stavo per dire poco sano, ma sì. Il concetto è quello.” concluse con un sibilo, scoccando ad Hannah un'occhiataccia che non meritava di ricevere.
Lei si crucciò, senza protestare, e lo stridio della sedia sul pavimento appiccicaticcio precedette di qualche frammento di secondo il momento in cui la vide alzarsi per fronteggiarlo. Fu un attimo, un istante brevissimo in cui già s'immaginò la sua piccola mano destra sollevarsi e tracciare un arco nell'aria prima di schioccare sorda contro il suo volto in uno schiaffo sonoro.
Un attimo, un istante, una briciola di tempo infinitamente piccola che avrebbe potuto dare una ragione diversa alla rabbia che gli gonfiava il petto - ingiustificata, inopportuna - del desiderio di urlare e smuoverla dall'assoluta quieta con cui gli sta in piedi davanti.
Perché era così piccola, così magra, un'accozzaglia di linee e spigoli fragili che sarebbe bastato un nulla per mandarla in frantumi, e nel grigio sconvolgente che si portava negli occhi già poteva leggere il pianto che ne sarebbe sfociato. Ne sentì il sapore inebriante tra le labbra schiuse, oltre il retrogusto di birra e fumo, e voleva addentare la sua misera vittoria prima che la serata si sciogliesse in un arcobaleno di percezioni distorte destinate a morire in un agognato oblio.
“Ho capito, vado a casa.” dichiarò invece con una stretta di spalle, soffiando sulle braci scoperte della rabbia del suo coinquilino senza neppure guardarlo digrignare i denti.
C'era un incendio, in Duff, una frustrazione che gli montava in petto come una marea e sradicava ogni brandello di lucidità dai suoi pensieri, tanto che nel momento in cui realizzò di essersene andato era già davanti ad un'ennesima ragazza con mezza bottiglia di birra nello stomaco a cullare il suo ego ferito.
Ferito da cosa, non avrebbe saputo dirlo.
Era stato lui a dirle che non la voleva tra i piedi, e lei quello aveva fatto, non avrebbe potuto prevedere che vederla tra i piedi degli altri gli avrebbe dato pure fastidio.
Non gli importava, in realtà, non gli importava di nulla - o almeno di questo cercava di convincersi, ignorando lo sguardo di compatimento di Izzy e l'indignazione oltraggiosa di Steven che sembrava volergli ricordare ad ogni occasione di come il suo comportamento gli avesse impedito di scambiare più di quattro parole in croce con Hannah.
Non gli importava dello sguardo che lei gli aveva rivolto - cristallino, consapevole, sprezzante e al tempo stesso mite - prima di varcare la soglia dell'appartamento e farsi inghiottire nella notte rumorosa della metropoli; preferiva fingere di non averlo proprio visto perché troppo occupato a farsi vezzeggiare rozzamente da un'ennesima ragazzina in cui si sarebbe smarrito senza motivo per qualche ora al massimo, prima di raccattare i pezzi di una furia esplosa brutalmente e tornarsene a casa anche lui.
Solo.
Arrabbiato più di prima, ferito dalle schegge impazzite di quella stessa furia a cui non dava né nomi né ragioni ma che continuava a cullare con la tenacia di un bimbo viziato. Un po' per principio, un po' per orgoglio, aveva disseminato il suo animo di semi furibondi che non germogliavano, no, lo dilaniavano con radici intessute di spini e veleni senza antidoto.
Era inevitabile del resto, si disse stringendo il gomito della giovane e spingendola verso la stessa soglia che Hannah aveva varcata neanche mezz'ora prima.
Era inevitabile, lo sapeva, ma non poté fare a meno di notare come - nell'aria tiepida della notte - il profumo di lei sembrasse galleggiare placidamente a ricordargli che non poteva scappare, non per sempre, non ancora.


 

[ ... ]


 


Ah, a quanto pare chi non muore si rivede.
Io ci riprovo, nella speranza di riuscire a scrivere qualche riga con una frequenta meno imbarazzante dell'ultima volta.

 

   
 
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