AGLI ORDINI, MIO CAPITANO!
Ottantacinquesimo
giorno dalla grande battaglia di Marineford.
Erano davvero passati
tre mesi? No, non poteva essere trascorso tutto quel tempo.
Quando
rimanevo in silenzio e mi concentravo riuscivo ancora a sentirli.
Riuscivo ad udire le urla, i lamenti di morte, il cozzare delle spade
in battaglia, i rombi dei cannoni e il calpestio degli stivali dei
marines sul duro cemento della baia.
Non parevano essere così
lontani, quel giorno infausto avrebbe potuto essere ieri.
Eppure
qualcosa mi diceva di appartenere ormai ad un altro tempo, così
vicino e così distante, così diverso da quello in cui si consumò
la strage. Perché quella che era stata progettata come la comune
esecuzione di un pirata, si era trasformata in una delle pagine più
tremende della storia umana. Nessuno avrebbe mai dimenticato l'ansia,
il tremore per ciò che sarebbe successo, la paura per le conseguenze
a cui avrebbe portato l'avventatezza del Governo.
Quella stessa
mattina, le poche ore che precedevano l'inizio del disastro,
chiunque avrebbe potuto percepire qualcosa nell'aria: tutto era teso,
in trepida attesa di qualcosa d'importante, qualcosa che, si diceva,
avrebbe cambiato le sorti del mondo intero. Il tempo stesso pareva
essersi fermato, o aver rallentato la sua corsa per godere degli
ultimi istanti di pace prima del caos, per assistere alla tragedia di
quegli uomini pronti a morire sul campo di battaglia.
I nostri
pirati erano forti, determinati a combattere fino alla fine per
l'unità della nostra famiglia, per raggiungere qualcosa che ci era
stato portato via con la forza.
Ace.
Portuguese D. Ace.
Non solo il comandante della Seconda Flotta
della ciurma, non solo uno dei nostri combattenti più forti, non
solo una pedina del gioco verso il One Piece, ma un amico, l'amico
più leale, più coraggioso, più allegro e, sì, anche più stupido
che potessimo mai trovare.
Perché aveva sbagliato. Aveva
sbagliato per amore di tutti noi, per l'affetto che provava verso il
Babbo e la rabbia nei confronti di Marshall D. Teach. E l'aveva
inseguito. Da solo, per dimostrare al mondo che lui valeva, che
poteva vendicare l'amico ucciso e fermare almeno un poco il dolore al
cuore per non essere stato in grado di impedirlo, per non aver potuto
fare niente contro un nemico grande come la morte, o meglio un uomo
che ha portato la morte in mezzo a noi. Una morte tanto inaspettata
quanto crudele, lacerante.
Satch.
L'amico di tutti, al pari di Ace. L'uomo che nella ciurma era in
grado di portare un sorriso a chiunque, la persona più buona che
conoscessi ci era stata portata via in una notte di tempesta, colpa
di un destino che si era divertito a giocare con i desideri e le
avidità dell'uomo.
Ci provammo. Tentammo di salvare ciò che
ancora ci rimaneva dopo quella tragedia, non sapendo che il vero
disastro doveva ancora arrivare. Se solo avessimo potuto vedere cosa
sarebbe successo, a cosa avrebbero portato le azioni di Ace, le
nostre decisioni prese per avere giustizia, allora avremmo
risparmiato al mondo quel giorno tremendo, e ci saremmo risparmiati
tutto quel dolore, la perdita di Satch, di Ace, del Babbo e di
centinaia dei nostri uomini, così coraggiosi, così leali da non
pensarci due volte prima di correre in soccorso di un nostro
fratello.
Se n'erano andati, ci avevano abbandonati senza che noi
potessimo fare nulla.
E la guerra non è una cosa da prendere alla
leggera. Non si può vedere i propri compagni ed i propri amici
morire senza sentire un dolore sordo al centro del petto, un male che
sembra poter uccidere all'istante, letale. Non si può combattere,
non si può uccidere l'uomo che sta di fronte guardandolo dritto
negli occhi, perché allora egli non sarà più un nemico da
eliminare, ma solo un uomo come gli altri, con una vita, degli
affetti, con la stessa, comune voglia di vivere e togliersi dalle
mani quelle armi dispensatrici di morte per guardare il cielo ed
essere felice d'esistere.
Perché nessuno al mondo gioisce
veramente nello spezzare le vite di altri uomini, così come nessuno
gioì quel cupo giorno in cui migliaia di soldati e pirati cessarono
per sempre di esistere, quel giorno in cui nemmeno il Sole osò
mostrarsi ed elevarsi al di sopra dei nuvoloni grigi che ricoprivano
interamente il cielo.
E mentre i miei compagni morivano sotto gli
attacchi dei Marines e fiotti di sangue si spargevano sul suolo di
pietra, una cicatrice si stava formando piano sul mio cuore, e faceva
male. Un male che non avrei mai immaginato, un male che non provai
nemmeno gli anni precedenti alla mia entrata nella ciurma, quando ero
solo, quando pensavo che niente e nessuno avrebbe mai potuto donarmi
la felicità. Ma l'avevo trovata, l'avevo trovata nel Babbo, nelle
risate dei miei fratelli, nell'amicizia con Satch, Ace, Vista e tutti
gli altri.
E in quel momento la guerra me la stava rubando di
nuovo. Quel senso di oppressione un tempo così conosciuto stava
tornando, impossibile da bloccare, fuggente come un fumo nero e denso
che s'infiltra dentro il corpo, si solidifica, prende possesso del
petto ed impedisce di respirare chiudendosi in una morsa d'acciaio. E
la cicatrice andava formandosi, lo stiletto incideva il cuore creando
un taglio profondo a mano a mano che i miei occhi vedevano i miei
amici essere colpiti, urlare di dolore, cadere a terra e chiudere per
sempre gli occhi.
Chi mai può sopportare un peso così grande e
portarlo dentro per tutto questo tempo?
Chi è in grado di
resistere, superare la vista delle peggiori brutture del mondo e
continuare a vivere, a combattere?
Non ebbi nemmeno il tempo per
piangere la loro scomparsa. La guerra era in atto e il comandante
della Prima Flotta doveva lottare, doveva battersi e dimostrarsi più
forte dei nemici, più forte del destino.
La morte del Babbo,
quello fu il vero colpo al cuore, il punto più doloroso in cui lo
stiletto colpì.
Ace era mio amico da tanto tempo ed io tenevo a lui più che ad un
mio fratello di sangue, ma Barbabianca mi aveva accolto nella sua
famiglia moltissimi anni prima, nel momento più buio della mia
vita.
Mi aveva ridato la speranza, mi aveva offerto un posto dove
stare, avevo acquisito dei fratelli e per tutto quel tempo ho sentito
di aver trovato il mio posto nel mondo. Vederlo morire sotto i colpi
dei marines e di Teach è stata l'esperienza più tremenda di tutte.
Nessuno di noi riuscì a trattenere le lacrime quando ci parlò, non
c'era membro della ciurma che voleva lasciarlo solo a combattere e
morire.
Aveva creato una famiglia, una vera, grande famiglia ed
ora, soli senza più un padre, noi tutti ci sentivamo perduti. Io più
degli altri, perché oltre all'immenso dolore che la sua perdita
aveva provocato, mi ero trovato a dover affrontare le responsabilità
che l'essere il nuovo capitano comporta. Ho visto i miei fratelli
guardarmi con gli occhi di chi non sa più dove andare e cerca
qualcuno che lo guidi. Ma nemmeno io, il membro più riflessivo e
calmo del gruppo, avevo più una chiara idea di cosa fare.
Con
Babbo a fianco tutto sembrava più semplice, lui aveva sempre una
meta, una qualche destinazione da raggiungere. Era una di quelle rare
persone capaci di rassicurare solo con lo sguardo, quello amorevole
di un padre che si preoccupa per i propri figli.
Oh, come sarei
riuscito ad eguagliarlo?
Non sarei mai stato alla sua altezza, non
avevo le capacità per capitanare una ciurma di migliaia di pirati,
lui era unico.
Avrei dovuto sciogliere la ciurma? Non potevo
nemmeno pensarci.
Scegliere un altro capitano? Ma chi tra di noi
avrebbe avuto la forza d'animo per prendere il mio posto in quel
momento?
Sarei stato solamente un vigliacco. Babbo aveva voluto
che ci fossi io al comando, avrei deluso le sue aspettative e
costretto un altro membro ad addossarsi i carichi, le responsabilità,
il pesante compito di avere in mano la sorte di tutti i nostri
fratelli. No, era meglio che fossi io a soffrire, dovevo dimostrarmi
forte per l'affetto che provavo verso loro e verso nostro
padre.
Mentre il Sole dell'ottantacinquesimo giorno dalla
battaglia di Marineford sorgeva, io sedevo sulla balaustra della Moby
Dick e guardavo l'alba rischiarare l'enorme postazione dove Babbo era
solito sedere per guardare il mare e bere sake.
Aspettavo di
vederlo arrivare per contemplare il nuovo giorno, circondato
dall'allegria dei nostri uomini e dall'insistenza delle infermiere
preoccupate, aspettavo di vedermi al suo fianco con addosso la solita
aria calma ed annoiata, guardandomi attorno alla ricerca del sorriso
scanzonato di Ace che parlottava con gli altri comandanti. Un nodo si
formò nella mia gola e cercai di trattenere le lacrime che ogni
giorno finivano per uscire dai miei occhi, quando mi resi conto che
ero solo. Satch, Ace, il Babbo se n'erano tutti andati.
Nemmeno
un'ombra si aggirava per il ponte a quell'ora, mentre solo tre o
quattro mesi prima esso sarebbe stato colmo di persone in continuo
movimento ed un allegro vociare avrebbe dato inizio ad una nuova
giornata di sole. Ma in quel momento nemmeno i gabbiani osavano
avvicinarsi alla nave stridendo, quasi non volessero rompere il
silenzio di lutto ed infelicità del suo equipaggio.
Ormai ogni
membro della ciurma preferiva dormire, almeno per quanto ci
riuscisse, fino a quando il Sole si faceva abbastanza alto nel cielo,
piuttosto che uscire dalla propria stanza ed affrontare di nuovo la
consapevolezza della morte del Babbo, le quotidiane notizie sul
giornale da parte del Governo. I titoli continuavano a ribadire la
vittoria della Marina militare, la devastante sconfitta e la
scomparsa della nostra ciurma. Per tutti quei mesi le nostre navi si
erano tenute a dovuta distanza dalle grandi isole e dalle rotte
commerciali e sotto mio ordine ci limitammo alle obbligatorie soste
per i rifornimenti di cibo, acqua e molti liquori.
Eravamo tutti
provati dalla dura battaglia e distrutti per la perdita dei nostri
compagni e di nostro padre.
Chiunque mi guardasse lo faceva con
speranza, quasi fosse sicuro che io avrei trovato la strada, la
soluzione che mettesse fine a tutto quel dolore. Sembravano volermi
dire "Ti prego, fai che finisca."
Ma come potevo io
avere in mano la chiave per guarirli, se in prima persona non sapevo
come uscire da quel lungo tunnel nero che mi circondava da tre
mesi?
No, non ci sarei mai riuscito, ecco tutto. Babbo aveva
sbagliato, non ero in grado di fare il capitano, non ne avevo le
capacità ed anche io mi ero illuso pensando di poterlo fare. Dovevo
solo reggere ancora, dovevo solo sopportare tutto quel dolore, anche
se era troppo. Tutto era diventato troppo grande, troppo difficile
per me.
E mentre la familiare morsa d'acciaio riprendeva a
stringermi il petto, una lacrima scese finalmente dal mio
viso.
Angolo
dell'autrice:
Cheers
everyone! :)
Tra due giorni festeggio il mio primo anno di
iscrizione su EFP, ed ho pensato di cominciare a scrivere la nuova
fanfiction su One Piece che avevo in progetto da tanto.. Che dire, è
uscito questo qui. Mi piace molto scrivere questi generi; seguo One
Piece da una vita e penso che la battaglia di Marineford abbia
sconvolto e rattristito me quanto voi, così ho deciso di parlare di
Marco la Fenice, che adoro come personaggio. Spero di aver delineato
bene la figura, perché è così che mi immagino approssimativamente
i suoi pensieri ed i suoi tormenti.
Avviso che per troppi impegni,
mi sono fermata agli episodi immediatamente prossimi a Marineford, e
per non sbagliare qualcosa nella storia ho dovuto documentarmi sui
successivi avvenimenti della Ciurma di Barbabianca. Su Internet le
notizie non erano chiare, ma se Marco alla fine non fosse diventato
capitano ditemelo pure :)
Questa storia era stata pensata
inizialmente come una One Shot, ma alla fine ho deciso di
trasformarla in una Long che sarà comunque corta, potrà avere due
capitoli come cinque, ma non penso andrà oltre.
Ringrazio tutti
voi che avete letto questo fino alla fine.. Detto questo, incrocio le
dita e spero in un vostro parere positivo ;)
Ginko