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Autore: Hoel    27/08/2013    3 recensioni
E adesso [...] posso sentire i sussurri del tabarro, le sue maliziose confessioni e le immagini nitide di un passato inalterato dalla convenienza, dalle amarezze, dalle nostalgie e dai reciprochi rancori. [...] Perché il tabarro, nella sua dualità quasi femminile, avvolge e protegge chi vi si rifugia, ma allo stesso tempo nasconde e svela in un teatrale svolazzo le nefandezze che ipocritamente non si vogliono vedere, che non devono essere viste. [...]
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Un viaggio a ritroso nel passato, per non dimenticare, per non tacere e, ovviamente, per potervi un poco spettegolare.
[MadaHashiMada; altre coppie seguiranno ...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Hashirama Senju, Izuna Uchiha , Madara Uchiha, Tobirama Senju, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
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B’jour a tutti!

Voilà una nuova storia della sottoscritta, l’ennesimo mio esperimento di stile di scrittura (adoro sperimentare, oh yes) e trattando di un tema che sinceramente adoro: le saghe familiari. Sì, mi piace molto spettegolare sulle vicende di una o due famiglie, raccontarne gli altarini e intrecciare le storie di quasi ciascun componente e il fandom di Naruto me ne offre due di molto interessanti … *risata maligna*

Ovviamente, essendo un’AU, ci saranno delle inesattezze sull’IC e, proseguendo, delle vere e proprie modifiche temporali per cercare di conciliare manga e fic. Ai puristi chiedo già venia.

Inoltre, chiedo di essere pazienti per i primi capitoli di questa storia, che potrebbero parere molto confusionari, ma che in realtà sono essenziali per capire l’intera vicenda, insomma, gettano le basi, introducono l’intero intreccio. In ogni modo, una piccola dritta ve la concedo, ovvero che la prima parte della storia si svolge nell’Ottocento, pur essendo narrata a ritroso, nel Novecento. Man mano che proseguiamo, nelle note introduttive vi fornirò di ulteriori informazioni atte a non scandalizzarsi troppo per i contenuti, che, cogli occhi di noi, uomini e donne del XXI secolo, potremmo concepire come indigeribili. Tuttavia, non scriverò nel dettaglio scene troppo forti, le lascerò in innuendo come mio solito.

Vi saranno, soprattutto nella prima parte della storia, molti elementi del “magico”: non aspettatevi, però, robe alla Harry Potter o Twilight o abracadabra, per “magico” intendo il sovrannaturale della superstizione, delle credenze popolari e talvolta ancora pagane legate ai cicli della natura, alla linea labile tra la realtà e la fantasia.  Ma non compariranno troppo spesso, né saranno così intrusive. Forse. *seconda risata maligna*

Bien, non credo di aver altro da dire, se non di augurarvi buona lettura e ringrazio in anticipo coloro che leggeranno questo mio nuovo sghiribizzo di fanwriter!

Bisous,

 

 

 

 

 

 

H.

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“L’Amore non invecchierà nei ricordi”

(“A Celtic Tale”, M. & J. Danna)

 

 

 

 

 


 


Antifona d'Ingresso.


Colui che fin dalla tenera infanzia ho sempre appellato il  Benefattore  – e che solo in queste straordinarie quanto tremende circostanze scopro essere mio cugino primo – mi nascondeva spesso, nelle notti in cui l’insonnia cronica m’impediva di bearmi del giusto riposo, sotto un tabarro enorme, pezzato di stoffe di ogni sorta e dai diversi colori, un savio testimone dei tempi perduti e di molteplici storie zittite, che mio cugino estrapolava dall’ingarbugliata matassa dell’oblio, delineandole con pennellate linguistiche estremamente vivide, sebbene sconnesse nella linea temporale. E quando io gli ricordavo in uno stizzito rimprovero di mantenere una certa logica negli eventi, la mia Sharazade si schermiva, adducendo come spiegazione che lui non poteva controllare i ricordi del tabarro: essi gli venivano presentati così, a seconda del suo capriccio.

“Inoltre”, aggiungeva, infilando la testa dentro il rigido bavero rialzato. “Non puoi riordinare le divagazioni di un tabarro vissuto per oltre duecento anni!”

E adesso, che sono in esso avvolto per celarmi ancora una volta dalla realtà beffarda e crudele, posso sentire i sussurri del tabarro, le sue maliziose confessioni e le immagini nitide di un passato inalterato dalla convenienza, dalle amarezze, dalle nostalgie e dai reciprochi rancori. Aspettando qualsiasi fine mi sia stata riservata assieme a lui e al mio neonato nipote, ascolto di nascite, di amori, di pazzie, di morti assurde e logiche e di odi tremendi in questo monologo incredibile; ascolto di nomi ora a me noti ora nuovi, che però possiedono la vaga famigliarità delle anime incatenate nel processo della metempsicosi. E anche coloro che io dovrei conoscere, mi appaiono, grazie ai tocchi romanzeschi di questa pittura da aedo, personaggi dai contorni eroici e al contempo banali, figure eterne che la vita reale aveva svilito e maltrattato, annientandoli, e che la memoria caparbia del tabarro mi restituisce epurate dai pregiudizi della storia a chiunque abbia voglia di ascoltarlo.

Perché il tabarro, nella sua dualità quasi femminile, avvolge e protegge chi vi si rifugia, ma allo stesso tempo nasconde e svela in un teatrale svolazzo le nefandezze che ipocritamente non si vogliono vedere, che non devono essere viste.

L’eco dell’ennesimo bombardamento mi distrae per un istante dai fenomenali racconti del tabarro e allora io lo stringo, chiudendo gli occhi e invocando la sua protezione dall’apocalisse che si sta scatenando al di là della sua stoffa variopinta, che divora simil Saturno i suoi stessi figli, ghermendoli anzitempo e trascinandoli a sé. L’immagine della morte che mi trascinava all’inferno mi ha perseguitando da molti mesi, specie dopo l’arresto di mio fratello, del suo amico e della sorella gemella di quest’ultimo e del loro conseguente, seppur in diversi luoghi e modi, decesso. Lo vedo chiaramente, l’inferno, così com’era dipinto sulla parete dell’entrata interna nella chiesa di Santa Lucia, un affresco pennellato dall’allucinata fantasia di un anonimo seicentesco, dove il Cristo e la corte celeste osservavano leggermente scocciati il bailamme d’anime dannate scatenatosi sotto i loro santi piedi, una vera bolgia di torture così macabre che oggigiorno si sarebbero potute additare come le perversioni sadiche del pittore, il tutto sotto lo sguardo pasciuto da libidinoso magnaccia di un satana che rassomigliava piuttosto ad un dio Pan biscottato dal sole caraibico. Nel mezzo, gli angeli ineffabili sollevavano le anime per la gola, per la pancia, per le ascelle e qualsiasi altra parte del corpo dove le loro forche arrivassero, come i contadini facevano ammucchiando i covoni di fieno. Questo, signori, era l’inferno che da piccoli ha spaventato ogni generazione di Mokuton, nel distretto di Konohagakure. Nessuno ne è stato esente, nemmeno io che spesso mi sono dichiarato insensibile alle suggestioni perverse di un pittore di cui s’ignora perfino il nome. Eppure, poiché io le torture le ho vissute e ad esse sono, grazie al Benefattore, sopravvissuto, non posso non ripensare a quegli angeli campestri che inforcano le anime malvagie e nel delirio del dolore e del refrain: “Dov’è il tuo complice?” oppure “Chi sono i tuoi compagni?”o “Dove si trova la vostra base segreta?” o “Dicci chi è il capo!” e dei miei “No, no, no, no” senza senso, perché ad un certo punto neppure io sapevo che cosa stessi negando e per che cosa stessi soffrendo come un cane, nella confusione generatami dal cervello scombussolato dalle scariche elettriche, in quel torpore della memoria fatta a brandelli, ebbene in quell’istante l’inferno della chiesa di Santa Lucia s’animava ai miei occhi forzatamente ciechi e le facce insulse di quei manichini seicenteschi assumevano i più nitidi contorni di mio fratello e dei due marchesini deceduti, mentre la grande statua della vergine martire – ora me la ricordo – coi suoi occhi strappati e offerti grondanti di sangue e nervi alla nostra vista, si trasformava nel prozio, la cui morte relegò il nonno nella pazzia e nella torre campanaria, dove visse e morì fino a qualche giorno or sono ridendosela letteralmente come un matto.

“Non preoccuparti”, mi conforta colui che scopro essere mio cugino, cingendo col braccio il sottoscritto e il piccolo Menma. Forse sto tremando sotto il tabarro, non so, non sapevo potesse leggermi nei pensieri, anche se più volte ha dimostrato questa sua valentia. “Sopravvivremo. Non sussiste altra scelta; lo dobbiamo ai nostri morti.”

Perché queste parole mi suonano così famigliari? Le ho già sentite? Qualcuno prima di me le ha già sentite? Il tabarro freme, annuisce.

Ho paura di morire, cugino, di morire impiccato col filo di ferro o magari davanti ad un plotone d’esecuzione, dopo avermi nuovamente  torturato fino a rigirarmi i muscoli e frantumarmi le ossa. Per gli invasori si è tutti seguaci del Dittatore, anche chi ha sofferto per causa sua, come successo a te, a me. Inoltre, poiché so di aver molto peccato, pur nei miei idealismi, temo follemente di finire all’inferno prima di poter fare ammenda, nell’inferno barocco della chiesa di Santa Lucia di Mokuton, distretto di Konohagakure.

E ancora mi risponde il tabarro, o meglio, per spazzare via questi miei timori spirituali evoca dal suo magazzino incantato una donna, la mia bisnonna, eterna e serena nel suo abito rosso pomodoro dai bordi lordi di fango, le babbucce di corda ai piedi e i capelli color melanzana raccolti da una cuffietta un po’ scolorita, un tempo giallo canarino. Sta accarezzando la zazzera arruffata di un ragazzino che mi assomiglia vagamente- questo io vedo – un moccioso dalle gote infiammate per l’ennesimo rimbrotto moralistico del vecchio prete e magari pure per uno schiaffo ammonitore.

“Ma chi ti credi di essere, miser puer?”, tuonava l’anziano, mulinando avanti e indietro il braccio scimmiesco,  che pareva più lungo del solito a causa del bastone puntato contro il petto del preadolescente. “Solo perché ti concedono di giocare e studiare col padroncino, tu pensi di essere un suo pari? Peccato di superbia, stultus infelixque, peccato di superbia! Servo sei nato e servo creperai, così come fece tuo padre e  suo padre prima di lui e come faranno i tuoi figli e i loro figli, in saecula saeculorum. Questo è il destino per cui Domine Iddio ti ha fatto nascere e contestarlo è sovversione, il chaos, la fine dell’ordine! E tu vuoi che l’infernus – e indicava dalla porta l’incubo metafisico dell’anonimo – venga in terra? È questo ciò che vuoi, miser puer? Allora, che rispondi?”, s’inumidì le labbra secche dal tanto parlare, stringendole piccato alla vista dello sguardo sì basso del ragazzino, ma affatto penitente come s’aspettava: al contrario, la bocca  serrata caparbiamente dimostrava una voglia matta di protestare, di piangere e mandarlo a quel paese  a suon di sacramenti. “Oh, Kiyora? Com’è che non risponde? Ma capisce? Benedetto Signore, questo è un indemoniato! Hai capito, Madara? Sei un indemoniato, un saraceno, un miscredente e finirai all’inferno, lo sai? All’inferno!” e indicava quella demoniaca mietitura, che aveva turbato i sonni del giovinetto fin dai tempi della sua nascita.

Ecco: la bisnonna si alzò dalla seggiola in fondo alla stanza intonacata di bianco e santità raffazzonata, avanzando verso il figlio ritto davanti al prete, non dissimile da un eretico al tribunale dell’inquisizione. “Sì, reverendo, ha capito. È testardo, mica scemo”, dichiarò lei, allargando le braccia coperte dallo scialle verde smeraldo. Subito, il ragazzino l’abbracciò, celando il volto nel suo ventre rigonfio di donna incinta per non tradire le lacrime amare dell’umiliazione. “E tu sciocchino, di che ti preoccupi? La vita è già un inferno”, sentenziò sardonicamente solenne, sorda alle invettive del parroco che bollava anche lei come indemoniata, per la parcondicio, perché se la cagna è ammalata, il cucciolo è moribondo. “Esatto, un fottuto inferno. Per questo, da morti, si va tutti in paradiso.”

I passi di mio cugino pongono fine a questa prima dissolvenza, mi par d’essere quasi la Piccola Fiammiferaia, solo che al posto di fiammiferi io accendo ricordi, ma sempre con essi mi scaldo. Però non desidero perderli, non mi accontento di quell’effimero calore destinato a svanire al singolo rumore della realtà omicida. Il silenzio regna sovrano, ergo non c’è nessuno, ergo mi azzardo a stendere una mano oltre il tabarro – com’è fredda e tagliente l’aria! – e reperisco un pezzettino di carta, un lapis lo trovo nella mia tasca, quel che mi serve per fissare questi ricordi, queste vite che mi confortano nell’ora del buio assoluto.

Ora mi puoi dettare, tabarro. Non importa l’ordine, purché tu non taccia mai, mai e poi mai, finché non tornerà il Benefattore e ci stringeremo in un misero trifoglio umano. Schiarisciti la gola, ma non farmi morire d’inedia; solo un pazzo darebbe ascolto ad un mantello, ma denunciare i propri parenti e amici alla polizia segreta è cosa da pazzi, accettare e seguire le vanità del Dittatore è stata la pazzia per cui si pagherà amaramente, così come pazzia sono state le atrocità compiute in nome di alti ideali per celare i vili tornaconti personali, e pazzia, sì, la più grande pazzia è di nascondersi da coloro che dovrebbero essere i liberatori e che invece distruggono più dei pazzi di questo maledetto paese, quindi non mi si giudichi pazzo se io scrivo questi racconti sostenendo di averli sentiti da un tabarro. Ci sono pazzie peggiori, la mia è solo eccentricità di fuggitivo e chissà, forse un giorno Menma, cresciuto libero dalle nostre ombre, troverà queste carte e potrà giudicare obiettivamente, l’unico sano poiché troppo piccolo per impazzire via contagio.

L’antifona d’ingresso è finita, scriviamo in pace per scacciare l’angoscia.

Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

To be continued …

  
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