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Autore: Be my Sherlock    28/08/2013    12 recensioni
Non durò ancora molto, l’intervista: si esaurì in noiosi discorsi politici che esaltavano la grandezza del presidente Snow o della loro nazione.
«Signore e signori ancora un grande applauso a Seneca Crane, il nostro Capo Stratega quest’anno e si spera per molti anni ancora!»
I due uomini si alzarono in piedi e si strinsero la mano, mentre il pubblico esplodeva. Seneca si mise a ridere e quasi non si sentì, coperto dalle urla assordanti del pubblico di Capitol City presente in studio quella sera. Caesar rivolse al pubblico uno dei suoi sorrisi migliori, aspettando che si calmasse. Poi parlò e lo disse come se fosse la cosa più entusiasmante di sempre. e forse per buona parte di Capitol City lo era davvero.
«Felici Hunger Games. – il pubblico pendeva dalle sue labbra. –
E che la settantatreesima edizione abbia inizio.»
-
Ecco a voi la settantatreesima edizione.
Genere: Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Caesar Flickerman, Seneca Crane
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Non aver paura del 
buio.

 

 


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Capitolo secondo:

Dove si nasce ma non come si muore. 


 


 Parte prima:
Sono stato destinato a questa fine.

 
 



Si sa dove si nasce, ma non come si muore.
 E non se un'ideale ti porterà dolore.
{“I cento passi” – Modena City Ramblers

 
 


 Hèloise Liliane Vain, tributa del Distretto 1, osservò con attenzione l’arena di quell’anno: un castello dall’alto soffitto, sostenuto da travi e con scale – che, da lì, non poteva vedere – da ogni lato. I muri massicci in mattoni sostenevano quattro stendardi di diversi colori. Pensò che la tuta di quell’anno fosse proprio strana: pantaloni grigi – gonna per le ragazze, camicetta bianca e maglione grigio. Il tutto coperto da una giacca nera. Ogni gruppo di sei tributi, notò poi, aveva una cravatta diversa: sei scarlatta e oro, sei verde e argento, sei gialla e nera e, gli ultimi sei, blu e bronzo. Abbinamenti, per altro, che non stavano né in cielo né in terra. Notò che la sua era verdargento e si chiese perché: in fondo, con i suoi occhi azzurri sarebbe stato molto meglio il blu – nonostante l’argento facesse risaltare la chioma chiara. Guardando gli altri tributi, vide che, oltre al suo compagno e alla ragazza del 2, anche la ragazza del 7, il ragazzo del 9 e Mitchell – un nome così non si dimenticava – vestivano i suoi stessi colori.
  Dopo un paio di attimi in cui i suoi occhi color del cielo studiarono l’ambiente intorno, la sedicenne scosse la testa, raccolse la chioma bionda in una coda – perfetta – e iniziò a dirigere tutta la sua concentrazione verso la Cornucopia – situata al centro di una grande sala con quattro clessidre appese ai muri e un tavolo, che guardava verso l’uscita, parallelo ad uno di essi – pronta al bagno di sangue che stava per iniziare. Rivolse un sorriso rapido a Yara, Jeremiah e Jace, facendo capire loro che quello sarebbe stato il momento in cui farsi valere, in cui far scommettere ogni singolo capitolino sui Tributi Favoriti di quei Settantatreesimi Hunger Games.
 Hèloise cercò con gli occhi un’arma nella bocca della Cornucopia, prima di trovarla poco sotto di essa: un arco argentato e luccicante con faretra coordinata. La ragazza ghignò alla vista di un’arma tanto perfetta. Le sue iridi saettarono in direzione del suo compagno di Distretto. Jonathan Christopher rispose con un’espressione interrogativa. «Coprimi.» mimò con le labbra Hèloise e un cenno del capo dell’altro le dimostrò che aveva capito.
 Quell’arma era la sua salvezza: l’avrebbe fatta diventare la vincitrice perfetta, che non s’era mai sporcata le mani di sangue. Sposando, poi, Louis Carter, suo promesso e vincitore dei precedenti Giochi, sarebbero stati la famiglia perfetta, con dei bambini perfetti allevati alla perfezione.
 
 Kaya non chiuse gli occhi nemmeno un momento: studiava l’arena attentamente, cercando di individuare qualche zaino particolarmente invitante o qualche arma non troppo rischiosa da prendere in modo da non morire. Si voltò più volte a destra e sinistra per trovare la via di fuga più sicura in modo da poter cercare cibo ed acqua senza problemi. Si sentiva sbagliata, con quella divisa indosso. Tutto ciò che riusciva a pensare era che non avrebbe mai capito cosa passava nella testa del Primo Stratega quando aveva incaricato qualche suo subordinato di disegnarla. Insomma: mandare dei ragazzi nell’arena vestiti in quel modo era oltre ogni umana concezione. Però lei ce l’avrebbe fatta: per Tamara, per rivedere tutti i suoi fratelli, per portare, finalmente, un po’ di ricchezza nella loro vita e per poter curare Niyol. Inoltre, essendo una vincitrice, sarebbe stata a Capitol City più spesso e le sarebbe risultato più semplice sapere i piani della nazione ed iniziare una rivoluzione. Finalmente suo padre Ephestus avrebbe potuto sfogare il suo carattere battagliero, e suo fratello Ares con lui.
 Sì: quella vittoria sarebbe stata la cosa migliore per tutti.
 Tentò di alzare le maniche di maglione e giacca in modo di avere almeno le braccia libere di muoversi, pronte a combattere. Una voce – quella di Ceasar Flickerman –, però, la costrinse a fermarsi: «Signore e signori, che i settantatreesimi Hunger Games abbiano inizio! E, Kaya cara, tuo fratello Niyol è appena morto di polmonite.»
 
 Sessanta secondi.
 Kaya non poteva crederci: suo fratello, quello per cui avrebbe combattuto, era appena morto. I suoi occhi si riempirono di lacrime per la prima volta in vita sua: Kaya non aveva mai pianto, le era stato insegnato a trattenere ogni emozione in modo che nessuno potesse capire cosa le passasse per la testa. Kaya doveva solo essere forte e determinata. Eppure il suo animo era caduto in pezzi, anche se lei non singhiozzava. Si sentì le gambe pesanti, ma si costrinse a restare in piedi.
 Con poco successo.
 Cinquanta secondi.
 Johnny ed Hellie cercavano di mantenere un contatto visivo il più possibile: non si sarebbero lasciati andare, men che meno in quell’occasione. Ad Hellie, però, capitava di distogliere lo sguardo da quello del compagno per guardare il ragazzo del 7, Tim. In realtà, lui non si chiamava davvero Tim, ma somigliava così tanto al macellaio del Distretto 6 – Timothy, appunto – da essersi guadagnato quel nomignolo dai due alleati. Søren allontanò il proprio sguardo dalla ragazza non appena lei guardò lui: non credeva possibile che il suo cuore battesse così forte per una piccola pazza come lei. Eppure era così, ma il diciassettenne cercava ancora di negarlo. Rivolse le iridi a Jude, situata a circa quattro tributi da lui.
 «Tutto bene?» mimò con le labbra.
 Lei annuì.
 Quaranta secondi.
Abe rivolgeva sguardi di fuoco ad Ariadne, così precaria sulla piattaforma da sembrare una foglia in autunno. Ma lei pareva sicura: guardava fiera davanti a sé, dal lato opposto della Cornucopia. Sua madre era una Capitolina: nonostante lei fosse così magra, i suoi concittadini l’avrebbero aiutata. Sua madre, che aveva sempre approvato il suo modo di vivere capitolino senza mai approvare davvero lei.
 Poi, dopo la vittoria, sarebbe diventata una modella, come sognava da quando aveva dodici anni e aveva iniziato a dimagrire. Da quel giorno, tutti le erano stati a debita distanza. In effetti, l’unico che l’aveva amata davvero nella sua vita, era stato Abe.
 Ma vincere precludeva la sua morte.
 Ariadne rabbrividì.
 Trenta secondi.
 Mitchell guardava gli altri tributi con finta aria di sufficienza. Aveva paura, certo: il Distretto 12 non vinceva mai. Eppure si sentiva convinto delle proprie capacità: era intelligente, un buon ladro ma, soprattutto, era bello al di sopra di ogni cosa. Ne era consapevole e sapeva anche che la Capitale non si sarebbe mai lasciata sfuggire un ragazzo immagine come lui. Nonostante li detestasse, era pienamente a conoscenza che la sua vita fosse nelle loro mani. Si preparò a correre dal lato opposto del bagno di sangue: se gli fosse servito qualcosa più avanti nei Giochi avrebbe potuto tranquillamente rubarlo – o, meglio, prenderlo in prestito – a qualche suo compagno di avventura – o, meglio, sventura. Le sue iridi dello stesso colore del ghiaccio si posarono sulla compagna di Distretto, Daffodhil: andavano nella stessa scuola, l’unica del Distretto, e Mitch l’aveva vista cambiare quando Lizet, la sorella della ragazza, era morta. La sua maggior preoccupazione era diventata la salute del padre, l’uomo che era diventato la sua vita. Sapeva che la paura della ragazza era per lui e non per sé.
 O, almeno, se lo aspettava.
 Venti secondi.
 Gli occhi azzurri della ragazza del 4 si mossero involontariamente verso Sacha: lei non s’era mai fidata dei ragazzi in generale, ma con lui era diverso. Nonostante fosse uno come in giro ce n’erano tanti – sarcastico, calmo di quella calma che fa salire i nervi – con lui, Ambra si sentiva a suo agio come con nessun altro. Si costrinse, però, a non guardarlo: non poteva fargli capire che aveva fatto scattare qualcosa in lei.
 Ambra non gliel’avrebbe data vinta, come non l’aveva mai data vinta a nessun altro, prima.
 Sacha non si rese mai conto dell’occhiata della ragazza.
 Nello stesso momento, altre due paia di iridi si guardavano senza esitazioni: Raph teneva d’occhio Xena, Xena teneva d’occhio Raph. In parte, il loro era sicuramente un comportamento involontario: quando si lavorava a coppia, nella banda, non bisognava assolutamente perdere il contatto visivo col compagno, o sarebbe stata la fine. Che cos’era quella se non una delle loro “missioni”, in cui Raph non doveva fare altro che mietere ventidue vittime e morire?
 Era esattamente quello, perciò era sicuro che ce l’avrebbero fatta: in fondo, ce la facevano sempre. Nella sua mente balenò un pensiero.
 No: io non ce la farò mai.
 Dieci secondi.
 Le attenzioni di Leon erano tutte dedicate al viso di Paz. Era così bella, e gli somigliava così tanto. Non lo aveva mai notato da quando la conosceva perché era stato istruito ad odiarla, perché simbolo di una debolezza di suo padre, Carlos. E il sindaco non poteva avere debolezze.
 Eppure, lei gli somigliava maledettamente: stesso mento, stessi capelli chiari, stesso taglio sottile degli occhi.
 Stesse qualità che anche Leon aveva ereditato.
 Nonostante tutto ciò che il padre aveva inculcato nella sua mente, Leon pensava che Paz fosse carina: una creatura indifesa che aveva solo bisogno di essere protetta. Durante gli allenamenti, il ragazzo aveva imparato ad apprezzare il suo carattere quasi ingenuo, che si entusiasmava per ogni cosa.
 «Abuela dice che faccio così perché amo troppo la vita.»
 Leon non mise mai in dubbio quella frase perché era perfettamente nello stile di sua nonna.
 Cinque secondi.
 Mentre Yara, i capelli ramati sciolti intorno alle spalle, puntava un set di pugnali da lancio a pochi passi da lei, qualcosa esplose riempendo la sala di fumo. Yara tossì, non riuscendo a respirare a causa della polvere alzata dall’esplosione. La ragazzina vide tutto nero prima di sentirsi tirare verso il basso. Le mancò l’aria, pensò che fosse finita.
 Non lo era.
 Ma nessuno lo sapeva ancora.
 

***

 
 Jeremiah si coprì la bocca con la mano. Aspettò un paio di secondi prima di riaprire gli occhi, vedendo il timer che continuava ad essere fermo al numero cinque. Si guardò intorno, scoprendo che sei piattaforme erano rimaste vuote.
 Contò sulle dita chi c’era e chi mancava.
 Alla sua destra, Hèloise; tre tributi a sinistra, Jace.
 Yara dov’era? Il suo cuore mancò un battito quando vide che la sua compagna mancava. Dov’era? Cosa ne avevano fatto di lei?
 Vide delle macchie rosse sulle armi, esattamente davanti ai sei cerchi di metallo vuoti. Brandelli di carne ovunque non promettevano nulla di buono. Fu solo quando il tempo riprese a scorrere che il ragazzo ricominciò a contare le assenze: dei tre bambini ce n’erano solo due, il rosso dell’8 era sicuramente finito con Yara; la famigliola di Distretto 6 e 7 era tutta intera; notò che mancavano entrambi i ragazzi dell’11, la tizia col fratello morto e anche il biondino; il tizio bellissimo del Distretto 12… chi altro mancava? Controllò tutte le piattaforme fino a che non lo notò: il ragazzo del 9 si guardava intorno con fare frenetico.
 Ecco chi era la sesta: la sua compagna di Distretto.
 Jeremiah rise di gusto, una risata sguaiata e inquietante. Voleva fare in modo che gli altri lo temessero, anche se il primo ad aver paura era lui.
 Il timer segnava zero.
 

***

 
 La prima a correre verso la Cornucopia fu Mia Becket, Distretto 10: aveva visto un set di coltelli che avrebbe fatto divinamente al caso suo. Con quelli in mano sarebbe quasi sicuramente riuscita a sopravvivere. Ciò con cui non aveva fatto i conti era che anche Jace puntava quei coltelli. La ragazza arrivò alla fodera dov’erano contenute le armi. Si preparò a scappare più veloce che poteva, zigzagando qua e là in modo che risultasse più difficile colpirla. Ma non conosceva il favorito del Distretto 1, che aveva tutt’altre intenzioni che dargliela vinta.
 «Hèloise! – urlò alla compagna che aveva una lama vicino ai piedi nonostante non fosse ancora arrivata al Corno d’Oro. – Hèloise, passami la spada!»
 «Cosa?» urlò l’altra di rimando senza capire appieno il significato della frase del sedicenne.
 «Hèloise, ti ho detto di lanciarmi quella cazzo di spada!»
 La bionda si chinò, afferrò l’elsa dell’arma e la lanciò al compagno, ignorando tutti gli altri tributi tra di loro. L’arma vorticò in aria un paio di secondi, prima che Jace l’afferrasse con maestria, senza tagliarsi un dito. Dopo di che, Jace iniziò a correre come un forsennato dietro Mia. Lei saliva una delle massicce scale di pietra e lui, silenzioso, le andava dietro. Senza far rumore. Attraversarono corridoi immensi di un castello altrettanto grande, sapeva che non si sarebbe perso: bastava guardare in giù e, da qualunque piano, si rivedeva lo spiazzo prima della stanza in cui era collocata la Cornucopia. Così corsero, giocando al gatto e al topo in mezzo a quell’arena di morte. Fino a che la giovane, stanca e sfinita, non si trovò davanti ad una porta chiusa con lucchetto, al terzo piano.
 «Andavi da qualche parte?» domandò Jonathan Christopher facendola girare. Ebbe appena il tempo di leggere il terrore nel volto della sua vittima – e bearsene –, che la testa di Mia Becket, diciassette anni, rotolò a terra, mozzata di netto dal resto del corpo, sporcando le mattonelle marmoree di sangue rosso.
 Il primo cannone di quell’arena sparò per lei.
 Jace strappò dalle mani della morta il suo set di coltelli e tornò indietro, pronto a dar manforte ai compagni.
 Accanto alla Cornucopia – nella Sala Grande di cui nessuno sapeva ancora il vero nome –, cinquanta smeraldi ticchettarono in una delle quattro clessidre.
 
 Jeremiah, svegliato dalla sua specie di trance, corse verso la Cornucopia alla ricerca della sua arma. Sapeva benissimo che gli Strateghi, dopo la sua fantastica sessione privata, l’avrebbero inclusa tra le armi contenute nella bocca del Corno d’Oro. Girò in tondo per due volte, prima di inciampare in un piccolo zaino, rosso, bianco e nero, che non aveva mai visto. I suoi occhi si illuminarono quando lo aprì e vi trovò dentro un set di freccette rosse e blu.
 Lesue freccette.
 Le stesse che usava da quando aveva quattordici anni e aveva smesso di andare in Accademia. Suo padre, Joseph, non le aveva mai approvate. Jeremiah non l’aveva mai ascoltato, continuando a fare di testa sua. Quando era morto, lui e Jenna non l’avevano detto a nessuno: avevano continuato ad incassare la pensione come se nulla fosse. La sua vita era diventata una pacchia: faceva tutto ciò che voleva. Scopava con Jenna, giocava a freccette, scopava di nuovo con Jenna, giocava a carte, beveva qualcosa, mangiava e si scopava di nuovo. Non faceva “niente di produttivo”, come avrebbe detto il padre, dalla mattina alla sera, eppure il suo tenore di vita era lo stesso di sempre, se non migliore. Era riuscito perfino a comprare un set di freccette con le punte in argento, più taglienti e che aderivano meglio al bersaglio.
 Bersaglio che, quella volta, era costituito da Daffodhil, tributa del Distretto 12. Era stata intelligente, la ragazzina: invece di avventurarsi nel Bagno di Sangue aveva iniziato a scappare, allontanandosi verso l’uscita della sala. L’unica cosa a cui non aveva fatto caso era che il dare le spalle ai Favoriti era una brutta, pessima idea.
 Jeremiah Donnel gliel’avrebbe dimostrato.
 Si molleggiò sul ginocchio destro, prendendo la mira con la mano sinistra e tenendo un occhio chiuso per riuscire ad essere più preciso. Prima che Dhil fosse troppo lontana, la freccetta si staccò dalle dita del diciassettenne per andare a conficcarsi nel collo della tributa. Un mugolio accompagnò gli ultimi attimi di vita di Daffodhil Sunshine, soffocata dal suo stesso plasma: la carotide recisa le riempì la gola di sangue, rendendola incapace di respirare. Gli occhi azzurri della quindicenne si inondarono le lacrime, mentre sputava rosso. Si diceva che, se avesse continuato a buttare fuori il sangue, allora ce l’avrebbe fatta: sarebbe sopravvissuta e avrebbe potuto continuare a combattere per tornare a casa dal padre. Si sforzò di muoversi: le sue braccia e le sue gambe impiegarono tutte le energie rimaste per strisciare verso l’uscita, per allontanarsi da quel bagno di sangue e riuscire, con qualche sostegno, ad alzarsi in piedi. Leon Carstairs, scappando, non la vide e le calpestò il collo, facendo affondare l’arma nella carne ancora di più, riempiendosi il cuore d’orrore quando la consapevolezza di averla uccisa si fece strada in lui.
 Mentre il cannone sparava, cinquanta rubini scarlatti e venticinque smeraldi caddero in altre due delle quattro clessidre – gli smeraldi in quella dove già si erano adagiati precedentemente –, ponendo fine alla seconda vita che si spezzava in quei Settantatreesimi Giochi della Fame.
 
 Jace stava scendendo le scale di corsa per tornare nella Sala Grande, la spada ancora in mano, insieme al set di coltelli che aveva sottratto a Mia. Non lo avrebbe mai ammesso, ma quell’arena lo inquietava non poco: c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quel luogo, partendo dalle fiaccole ai muri – che i tributi avrebbero tranquillamente potuto usare per arrostire eventuale cibo –, continuando con le uniformi e finendo ai sei tributi scomparsi. Non che a lui importasse qualcosa: in fondo, erano solo sei avversari in meno da ammazzare. E Jace li avrebbe ammazzati tutti, pur di tornare a casa ed essere coperto di gloria. L’unica per cui, forse, si sarebbe dispiaciuto era la sua compagna, Hèloise: in quei giorni a Capitol City, il loro rapporto s’era, diciamo, stretto. O infiammato, che dir si voglia: Jace, infatti, provava una radicata quanto insensata ossessione per quella biondina così perfetta. Sapeva che si sarebbe dovuta sposare a breve, e poco gli importava: non era nemmeno certo che uno dei due sarebbe potuto uscire dall’arena vivo, quindi tanto valeva provarci con lei. Comunque, durante la settimana antecedente ai Giochi, non aveva mai avuto l’occasione per azzardare un bacio o qualcosa di simile, dato che Louis le faceva da mentore.
 In quel momento, però, Louis non avrebbe potuto fare nulla per dividerli o punirlo.
 Immerso nei suoi pensieri, non fece caso ai due ragazzi che scappavano dalla Sala Grande verso la scala da cui arrivava lui. L’unica cosa in grado di centrare l’attenzione sui due tributi davanti a lui fu il colpo che gli arrivò sul braccio. Non urlò: il taglio non era profondo e Jace aveva una sopportazione del dolore più alta del normale, dati gli anni in Accademia. Cadde a terra, più per la sorpresa che per altro. Davanti a lui, in piedi, stavano Abe e Ariadne, i tributi del Distretto 5. Nella testa del Favorito, però, non balenò neppure l’idea di usare le armi che trovava a portata di mano.
 «Colpiscilo!» disse Ariadne, quasi urlando. Abe pareva paralizzato: lo doveva fare, certo, ma non aveva mai ucciso nessuno. Era proprio questo a frenarlo: Abe non era un sanguinario; solo un ragazzo che si trovava in una situazione più grande di lui.
 Stava alzando l’accetta – arma che aveva imparato ad usare durante l’addestramento –, quando un calcio del Favorito del Distretto 1 – che aveva lasciato cadere la spada alcuni gradini più in alto – lo colpì sotto il mento, facendogli mordere la lingua. Il quindicenne sputò sangue, mentre la compagna stordiva l’avversario con un colpo ben assestato sulla tempia. Non conosceva l’anatomia umana, quindi era stata la fortuna a fare da padrona. Mentre Jace era steso a terra, la testa dolorante posata sul terzo gradino della scala, la sua visione delle cose divenne sfocata: tutto ciò che riusciva a distinguere erano due forme umane che lo sovrastavano. Riuscì a dedurre che una delle due stava alzando un’ascia, pronto a colpirlo e mettere fine alla sua vita.
 Eppure, Jace non riusciva a muoversi: i suoi muscoli parevano pietrificati, l’unica cosa che percepiva era l’acuto dolore alla fronte.
 Chiuse gli occhi, convinto che fosse finita.
 Sentì qualcosa di caldo calargli addosso. Un tonfo accanto a lui gli fece capire che anche la compagna del ragazzo era caduta. Pochi secondi dopo, quando spalancò le palpebre, vide il viso sorridente di Jeremiah davanti a sé.
 Due cannoni spararono.
 «Che hai fatto?» domandò, muovendo le labbra piano.
 «Li ho colpiti. – rispose con la massima semplicità Jeremiah. – Li ho colpiti con due coltelli.»
 «Tu non eri quello che, in arena, i coltelli non li avrebbe mai usati?» sorrise il biondo.
 «Ti stavi facendo ammazzare, pirla, e io mi trovavo in mano solo quelli. Dovresti esserne orgoglioso.»
 Jeremiah afferrò la mano di Jace, aiutandolo a mettersi in piedi. Jonathan Christopher aveva ancora i muscoli indolenziti, ma ora non si doveva preoccupare di eventuali avversari: c’era Jeremiah con lui.
 «Tieni questi.» gli disse, porgendogli spada e set di lame. Il diciassettenne si legò intono alla cintura la fodera in cui erano contenuti i coltelli e prese l’altra nella mano che non sosteneva Jace.
 Centoventicinque rubini si versarono nella clessidra a loro designata: cinquanta per le due uccisioni, altri venticinque perché proteggere un amico è un atto di coraggio, e il coraggio è una virtù.
 Una volta arrivati nella stanza della Cornucopia, l’unica cosa che attirò le iridi di Jace fu il tributo del Distretto 10, chino su un arco, dietro le spalle di Hèloise.
 
 Xena era sola, Raph era scappato.
 No, si disse la bimba, era sparito. Raph non l’avrebbe mai lasciata sola.
 La dodicenne era riuscita a recuperare due coltelli e un’ascia dai corpi, ormai senza vita, dei ragazzi del Distretto 5, prima di correre alla cieca su una scala. I gradini in marmo erano pesanti da salire ma Xena ce l’avrebbe fatta: sarebbe arrivata in un posto lontano dal mondo, in cui sarebbe potuta sopravvivere aspettando il ritorno di Raph. Avrebbe combattuto, certo, ma Raph le mancava terribilmente. Anche lei, così cinica e sempre pronta a discutere, si sentiva sola, senza Raph che era sempre stato il suo compagno, la sua spalla, il suo braccio destro, che dir si voglia.
 Xena correva, il fiatone le impediva di andare veloce quanto avrebbe voluto. Ma lei andava avanti: lo faceva perché si era offerta, perché il suo istinto di sopravvivenza le diceva di farlo, perché Raph avrebbe voluto che lo facesse.
 Continuava a pensare a Raph mentre superava velocemente un piano e poi un altro ancora, continuando ad osservare le fiaccole che stavano appese ai muri. Rendevano quel posto caldo, accogliente. Ma in quel posto ventitré di loro sarebbero morti.
 L’unica cosa che allontanò la bambina dai suoi pensieri, quando si trovava a metà della scala tra terzo e quarto piano, fu l’allegra comitiva davanti a sé, che le bloccava la strada: Xena riconobbe senza troppa difficoltà i due ragazzi del 6 e del 7. Avevano qualche strano legame che li univa, ed era quello che aveva colpito la ragazzina. Eppure, Xena non ci pensò due volte prima di tirare il coltello in direzione di uno dei due ragazzi: quello con le ossa sporgenti, lo scopamico della pazza.
 Pazza che, non appena, sentendosi osservata, si voltò, vide il coltello volare verso il compagno. Senza esitare, tirò Johnny a sé, facendo in modo che l’arma lo colpisse di striscio ad una spalla, e non in mezzo alla schiena come la tributa del Distretto 8 aveva programmato. Helena osservò con tutto l’odio che aveva la ragazzina e le si lanciò addosso, pronta ad ucciderla perché voleva far male a Johnny.
 E nessuno – nessuno – avrebbe mai fatto del male a Johnny fino a che Hellie lo avrebbe protetto.
 «Non devi toccarlo!» urlò, correndole incontro.
 Xena non si scansò neppure quando la tributa del Distretto 6 le arrivò davanti al viso: si limitò ad estrarre il secondo coltello dalla tasca interna della giacca e a posizionarlo all’altezza del ventre dell’altra.
 Hell nemmeno s’accorse di quello che stava accadendo che un dolore lancinante le attraversò la pancia. Urlò con quanto fiato aveva in gola, attaccando la dodicenne con le unghie e con i denti, e non in senso figurato: Helena iniziò a mordere l’avversaria nei primi punti di pelle scoperta che si trovava vicina, le tirò i capelli tanto forte da strapparli, prima di graffiarle il volto. Xena decise di farsi attaccare e non opporre resistenza: faceva tutto parte del suo piano. La giovane tributa, infatti, aveva l’unico scopo di raggiungere la ringhiera che delimitava le scale.
 Quando lo fece, nulla le poté impedire di colpire l’avversaria con un calcio esattamente dove l’aveva precedentemente tagliata.
 La ventenne perse l’equilibrio, precipitando di sotto. Atterrò davanti alla Sala Grande, una macchia di sangue le si allargò intorno al cranio.
 Il cannone sparò.
 «No! – l’urlo di Johnny tagliò l’aria, le lacrime che minacciavano di scendere. – Tu l’hai uccisa!» stava per scendere le scale verso la ragazzina, quando Søren lo prese sulle spalle, portandolo via di peso. Non era un tipo a cui piace aiutare la gente, ma Helena era appena morta. Morta per salvare Johnny, la cui corazza di arroganza s’era appena distrutta lasciando posto al dolore.
 Non avrebbe avuto senso che il ragazzo si impegnasse in un combattimento che non avrebbe mai potuto vincere: ci  sarebbe stato altro tempo e, Søren lo giurò sulla propria vita, quella dodicenne l’avrebbe uccisa lui stesso.
 Ma quello non era il momento.
 «Tranquillo, ragazzo innamorato: il prossimo sarai tu!» urlò la dodicenne in tono di scherno all’altro prima di tornare al terzo piano e sparire in mezzo ad un corridoio.
 «Fammi scendere! – strillava Johnny, le lacrime agli occhi. – Fammi scendere, lei ha ucciso Hellie!» sbatté i pugni forte sulla schiena dell’altro, che non lo lasciò nemmeno per un secondo.
 Nel suo cuore, Søren lo sapeva: lo stava facendo per il suo bene. Era quello che avrebbe fatto anche Hellie.
 «Penso sia meglio andare.» s’intromise Judith-Anne, dando una pacca sulla spalla al compagno.
 «Lo penso anche io.» sentenziò l’altro, ricominciando a correre verso l’ultimo gradino.
 Sotto i loro piedi, la scala si mosse: fece un giro vorticoso prima di tornare a posarsi su un lato del quarto piano che non avevano mai visto.
 «Lasciami!» continuava ad urlare Johnny, ormai incapace di ragionare.
 Søren non lo lasciò mai.
 Nel frattempo, cinquanta rubini ticchettarono in una clessidra già mezza piena. Anche venticinque zaffiri blu caddero in una clessidra ancora vuota, perché anche l’altruismo era una grande virtù.
 
 Gabriel non aveva smesso di guardare l’arco adagiato accanto alla Cornucopia nemmeno per un secondo. Quell’arma era la sua salvezza, l’oggetto che gli avrebbe permesso di tornare a casa per proteggere Louis, Elizabeth e sua madre Allyson da Nick, suo padre, che, in assenza del figlio maggiore, li avrebbe picchiati, ubriaco come ogni sera.
 Fu per questo motivo che corse con tutta la velocità che le sue gambe gli permettevano per raggiungere la faretra argentata.
 Corse forte a perdifiato, senza curarsi che Hèloise lo stesse guardando, perché lei era una perfetta favorita, e quell’arco era suo.
 I capelli biondi del sedicenne gli coprirono gli occhi solo per un secondo, mentre prendeva l’arco e virava per tornare indietro, allontanandosi da quel bagno di sangue. Il secondo che permise alla giovane Vain di colpirgli la pancia con un pugno, facendolo cadere a terra (nonostante fosse una che odiava il contatto fisico, era stato l’unico modo per fermare l’avversario).
 Gabriel si voltò verso di lei, la mano aperta alla ricerca di una parte qualsiasi del corpo dell’altra da colpire, con l’unico fine di allontanarla e poter scappare.
 La chioma della Favorita del primo Distretto venne catturata dalle dita del tributo del 10, che la scaraventò a terra con forza, facendole sbattere la testa.
 In pochi secondi, tornò in piedi, arco e faretra in mano, pronto a scappare. Non aveva fatto i conti con Hèloise, che non si dava per vinta così facilmente.
 Combattendo contro il forte dolore al cranio, la sedicenne afferrò la caviglia destra dell’altro, facendo in modo che cadesse, rompendosi il setto nasale contro il pavimento. Il sangue scese caldo dalle narici del ragazzo, che portò istintivamente una mano a pulirsi.
 Gesto che gli costò la vita perché, toccandosi il naso, permise ad Hèloise di recuperare una freccia dalla faretra argentata che Gabriel portava in spalla. Le faceva schifo il sangue, odiava colpire la gente da distanza così ravvicinata, eppure pareva l’unico modo per liberarsi di quell’avversario scomodo.
 Così la prese, e la conficcò nel collo del ragazzo, spingendo leggermente di più perché si conficcasse nel pavimento, trapassando anche la cravatta gialla e nera, facendo sgorgare il plasma da quella ferita come fa l’acqua da una sorgente. In pochi secondi, la faccia e tutto il resto del corpo le vennero imbrattati di rosso.
 Con la freccia ancora sporca in mano, la ragazza sputò in faccia al tributo, strappando l’arco dalla sua presa, resa ferrea dal rigor mortis.
 Sollevando la testa, Hèloise guardò con disgusto il compagno di Distretto che pareva aver assistito allo scontro. Jace si stupì: non pensava avrebbe mai visto la ragazza in quello stato, completamente ricoperta di sangue, dalla fronte, alle mani, alle labbra. Era buffa, il tutto accentuato dall’espressione schifata sul suo viso. Era bella, molto: in effetti, Hèloise era sempre splendida.
 Mentre cinquanta smeraldi cadevano in una clessidra tutt’altro che vuota, Hèloise si passò le mani sul maglione, scoprendole più sporche di prima. Senza pensarci due volte, tolse giacca e maglione, rimanendo solo con gonnellino, cravatta e camicia slacciata a metà.
 Jonathan Christopher dovette trattenersi dallo sgranare gli occhi davanti al corpo perfetto della compagna, che lo prese sotto braccio – tentando di pulirsi ulteriormente, ma questo lui non lo sapeva.
 O forse sì.
 «È inutile che tenti di imbrattare la mia giacca di rosso.» rise il ragazzo, scoccando un’occhiata di fuoco alla compagna.
 Un sorrisetto nervoso colorò il viso della sedicenne, prima che desse una pacca sul fianco dell’altro, ghignando.
 «Lo faccio solo perché il rosso ti dona maledettamente!»
 Da che erano fianco a fianco, Hèloise si trovò stretta tra le braccia di Jace, che le avvolgevano le spalle con fare rassicurante. I loro nasi si sfiorarono, mentre gli occhi glaciali di Hèloise si riflettevano in quelli celesti del compagno.
 Non potevano baciarsi, non in quel momento e non in quel posto. Insomma, quello era tutt’altro che perfezione!
 Eppure, quando le labbra di Jace toccarono le sue cercando qualcosa di tutt’altro che casto, Hèloise si lasciò trasportare da quella sensazione, lasciando che le loro lingue si toccassero praticamente subito.  Le mani del ragazzo scesero lungo i suoi fianchi fino a stringerli, avvicinandola sempre di più ai propri. Hèloise inarcò la schiena, strusciandosi ulteriormente contro il corpo del compagno.
 «Se continuate così, penso mi farete vomitare.» saltò fuori Jeremiah che, seduto dietro di loro, lanciava freccette usando come bersagli i quattro stendardi appesi al muro. Quando i piccioncini decisero, finalmente, di smettere di pomiciare, la visione del diciassettenne risultò quasi comica: due biondi con la pelle delicata, gli occhi azzurri e il viso praticamente rosso negli stessi punti – soprattutto sulle labbra – che si guardavano con un sorriso ebete e smielato dipinto in volto.
 Se non fosse stato certo del contrario, avrebbe scommesso la testa che quei due erano incestuosi. Gli occhi iniziarono a pizzicargli quando ripensò a Jenna, sua sorella, la seconda ragazza che avesse mai amato in vita sua. La ragazza che aveva tradito un miliardo di volte in quei giorni, pensando a Yara. Le palpebre iniziarono a tremargli.
 Lanciò un’ennesima freccetta per distrarsi, prima di voltarsi nuovamente verso gli altri due Favoriti. Li trovò mano nella mano, rivolti di spalle rispetto a lui.
 Non sentì mai ciò che Hèloise disse al compagno.
 «Andiamo a vedere se c’è un bagno, Jace: ho bisogno di ripulirmi.»
 
 
 
 
 

Parte seconda:
Non doveva andare così.

 


 

Non sembra che tu abbia realizzato che posso farcela da solo.
E se cadrò, porterò tutto con me.
È così facile, dopo tutto.


Alcuni dicono che stiamo meglio senza sapere il significato della vita:
sono sicuro che non lo scopriranno mai.
È troppo tardi.
{“Some say” – SUM41



 
 
Gli occhi chiari di Belfagor scrutarono i corpi dei suoi protetti: la prima brutalmente decapitata, il secondo trafitto da una freccia.
 Una risata isterica gli scosse il corpo: erano dei deboli e, come tali, anche quell’anno erano morti il primo giorno.  Non erano abbastanza per quei giochi, lo aveva saputo fin dall’inizio.
 Eppure era ciò che la gente diceva anche di lui.
 “I ragazzi del 10 non vincono mai, perché lui dovrebbe tornare? Ce ne siamo finalmente liberati, ve lo dico io!”
 Perché lui, nonostante tutti i problemi mentali, si era offerto e aveva vinto – e loro no?
 Senza pensarci, spense la tv, accese una sigaretta e prese a fumare.
 Presto sarebbe stato di nuovo a casa.
 
 Haymitch bevve un sorso mentre Daffodhil veniva prima colpita dalla freccetta del Favorito del 2 e poi travolta dalla paura del tributo del 9, che l’aveva calpestata senza neppure accorgersi che fosse lì.
 Ripensò a Brock, suo padre. L’uomo che aveva lavorato con il giovane Haymitch quando ancora non aveva vinto. Ricordò di aver saputo della frana in miniera e di essersi dispiaciuto per la perdita dell’amico.
 Però non avrebbe mai potuto far nulla per salvare Dhil: lui non aveva fatto altro che dirle di scappare, e lei aveva semplicemente seguito le sue istruzioni.
 Evidentemente, la fortuna non era stata a suo favore.
 Il quarantenne aprì una nuova bottiglia di vodka, speranzoso: in fondo, Mitchell era ancora vivo, e, essendo un tributo del Distretto 12, quello pareva un buon traguardo.
 
 «Ma porca troia.» imprecò Electra Marbel, la mentore trentacinquenne di Ariadne.
 Era morta, nonostante tutto quello che aveva fatto per tenerla in vita. Lei e Tim Marks, il collega, avevano venduto agli sponsor “gli sventurati amanti del Distretto 5” e anche “la Capitolina trasferitasi”, ma non pareva aver funzionato.
 Erano stati uccisi da un favorito, e presto i loro corpi sarebbero tornati nel Distretto, insieme ai due vincitori.
 Tirò un pugno al muro talmente forte da sentire qualcosa nella mano che andava storto.
 «Non serve che ti distruggi le mani. – rispose il ventitreenne dal ciuffo blu, allontanandola dal muro e facendo segno al senzavoce di portare una garza. – Abbiamo fatto del nostro meglio, ma non è bastato.»
 Nonostante non fosse mai andata d’accordo con i ragazzi, Electra si sentiva maledettamente a proprio agio con Tim, soprattutto per via dei suoi modi di fare… leggermente effemminati. Fu forse per questo che, quando lui si avvicinò con la pomata, lei storse leggermente il naso ma non gli impedì di aiutarla.
 Tim pensava che il suo attaccamento ad un tributo fosse maledettamente stupido: è vero, i sentimenti sono umani, ma sapeva fin dall’inizio che non sarebbero mai sopravvissuti entrambi, e che anche le probabilità di vederne vincere uno erano scarse. Lui aveva imparato dai suoi genitori – e mentori – a tenere le distanze, a disconoscere un tributo anche se era tuo figlio (o era maledettamente carino, come Abe quell’anno). Electra, invece, pareva rivedere in loro i propri figli, e l’istinto materno agiva per lei.
 «Va meglio?» domandò il ragazzo.
 L’altra annuì.
 L’accompagnò ad accomodarsi sul divano e si mise accanto a lei. Era maledettamente comodo, ma quel color prugna non si poteva vedere.
 «Ora che facciamo?» la voce della maggiore suonò come una pallottola nel petto di Tim, così inaspettata e realista.
 Un groppo gli salì in gola, ma non gli impedì di rispondere come credeva: «Facciamo come ogni anno: torniamo a casa, li seppelliamo, poi piangiamo tutte le nostre lacrime.»
 
Rafe Donald aveva ormai spento la televisione. Non riusciva più a guardare gli occhi di Johnny, inquadrati dalle telecamere.
 Gli occhi di Johnny che aveva perso la sua Helena.
 I sensi di colpa gli logoravano l'animo. Perché lei era riuscita a salvarlo ma lui non aveva potuto ricambiare? Le lacrime gli bagnarono le guance prima che potesse rendersi conto di cosa stesse davvero accadendo. Rivedeva ancora il capo sporco di sangue della ragazza ogni volta che chiudeva gli occhi. Non era la prima volta che una sua protetta moriva, certo, ma quella era diversa: ricordò il vispo viso della bimba che l'aveva aiutato a scappare dai pacificatori con Emma, le rughe d'espressione che le increspavano la pelle.
 «Non serve.»  sussurrò una voce alle sue spalle.
 «Cosa non serve, Mary?» chiese di rimando il ventiseienne guardando l'esile figura dell'ex protetta che stava in piedi sulla soglia senza entrare. Era sempre stata così magra e bassa, Mary, che era stato un miracolo – o un assurdo colpo di fortuna –, riuscire a farla vincere.
 Nonostante il suo corpo la facesse sembrare più giovane della sua età, la ventiduenne aveva una saggezza che in pochi Rafe aveva mai trovato.
 «Piangere. Sapevi bene che, se ne volevi salvare uno, l'altro doveva morire. È sempre così. – i suoi occhi si fecero lucidi. – So a cosa pensi: ho dei figli anche io. Ma ti prometto che lo salverò.»
 Il viso dell'altro si contrasse in un sorriso, quando corse ad abbracciare con delicatezza la collega: pareva sempre così delicata, come se con un po' di forza di troppo avessi potuto spezzarla.
 «Grazie, Jared.» rispose, usando il suo secondo nome maschile sapendo che lei l'odiava.
 «Mi sto solo sdebitando con te, Donald.»
 Ma gli occhi attenti di Rafe avevano già colto un'altra figura bionda alle spalle di Mary.
 Abigail Scarlett Reth, la storica accompagnatrice vestita perennemente a lutto del Distretto 6, guardò la nipote stringere quello che nemmeno dieci anni prima era stato il suo protetto, prima di andarsene senza che nessuno potesse avere il tempo di fermarla.
 Rafe, comunque, non lo avrebbe mai fatto: conoscendola, sapeva che quel genere di momenti non erano il suo forte. Lasciò che la mano di Mary gli carezzasse i capelli ramati mentre Abby scappava dall'amore come aveva sempre fatto, fin da quando si era trasferita dal Distretto dei Trasporti a Capitol.
 Ciò che non sapeva, però, era che mai prima di quel momento l'accompagnatrice era stata felice di avere una famiglia.
 
 
 
 
 
 

Parte terza:
Sarai forte, andrai avanti.

 
 



Tempo di scappare dalle grinfie di un nome:
no, questo non è un gioco; è solo un nuovo inizio.

Non credo nel destino, ma alla resa dei conti:
è tempo di pagare.
 
Sapevate che sarebbe arrivato: questa è guerra.

{“Escape” – 30 Seconds to Mars

 
 


 Xena era corsa al terzo piano dopo aver fatto cadere Hell dalle scale.
 Sapeva che l’avrebbero cercata e, in qualche modo, l’avrebbero trovata. Ma lei non aveva paura: era agile, forte, addestrata. Inoltre aveva l’ascia rubata dal corpo del ragazzo del Distretto 5. Aveva tutto, apparentemente. Eppure, dentro di sé, si sentiva inspiegabilmente sola. Così tremendamente sola, senza Raph. Non sia mai che lo ammettesse, per carità: la bellicosa Xena, Principessa Guerriera, non avrebbe mai nemmeno avuto l’intenzione di parlare pubblicamente di quel suo stato d’animo.
 Se torna, si ritrovò a pensare, gliela faccio pagare cara. Se torna.
 E se fosse morto?
 Lo avrei dovuto uccidere lo stesso, si disse, io devo vincere perché mi sono offerta e sono forte.
 Tutte quelle sensazioni così strane si andavano affollando nella testa della bambina, che girava per i corridoi di quel castello inconsapevole sul da farsi. Studiò mentalmente tutti i punti di vantaggio e svantaggio che quel posto offriva: aveva sperimentato che i passi rimbombassero mentre scappava dall’ira di Johnny; era facile cadere dalle scale – che, incredibilmente, parevano muoversi di propria volontà! – alla prima spinta e spesso i corridoi erano lunghi e senza incroci, quindi scomodi per sfuggire da un inseguimento. In compenso, però, le torce parevano ardere di un fuoco che non si sarebbe mai spento (si ripromise di prenderne una per cucinare un eventuale pasto), c’erano migliaia di stanze e un’area enorme in cui nascondersi.
 Camminò piano per circa trecento metri, quando le gambe iniziarono a farle male: era abituata a correre per lunghe distanze, ma l’adrenalina accumulata poco prima pareva essersi depositata nelle ginocchia, rendendole pesanti. Fu per questo motivo che ignorò le macchie rosse davanti ad una porta sbarrata – c’era appena stato il bagno di sangue: sicuramente qualche malcapitato era morto proprio in quel corridoio –, colpì il massiccio lucchetto che bloccava la stanza con la sua ascia ed entrò, richiudendosi l’ingresso alle spalle.
 Mosse un paio di passi incerti, guardando l’alto soffitto e studiando attentamente il pavimento fatto di mattonelle in pietra. Fino a che non le vide più, sostituite da una grossa zampa nera. Indietreggiò, tornando davanti all’entrata per osservare meglio la creatura e stringendo di più la presa sull’arma. Osservò meglio la testa dell’essere, o, meglio, le teste: quella bestia, infatti, aveva tre enormi musi dotati di zanne e orecchie a punta. Sembrava un cane in tutto e per tutto, solo ingrandito e geneticamente modificato.
 Provò ad uscire ma, con suo immenso orrore, trovò il chiavistello chiuso dall’esterno.
 Si voltò di nuovo verso la bestia e, mentre quella si ergeva in tutti i suoi tre metri di altezza, sovrastandola, Xena ebbe il tempo di vedere la medaglietta dorata che gli pendeva dal collo.
 Recitava il nome Fluffy.
 
 Julian passeggiava lentamente, studiando e memorizzando anche il più insignificante dei particolari. Arrivato al quarto piano aveva svoltato due volte a destra e una a sinistra ed era sbucato in un corridoio un po’ più spazioso degli altri. Non sembrava esserci traccia di elettricità in quel castello: i corridoi erano illuminati da torce appese al muro e in tutte le aule che aveva visitato non c’era neanche un computer. Questa non era sicuramente una cosa che andava a suo favore.
 Julian, infatti, quando viveva ancora nel Distretto 3, era un vero e proprio hacker. Il suo passatempo preferito era scovare i segreti più nascosti di Capitol City, e ci riusciva. Oh se ci riusciva. A quanto pareva i Capitolini si fidavano un po’ troppo dei loro congegni elettronici, o forse non avevano mai pensato che qualcuno proveniente da uno dei Distretti avrebbe potuto creargli così tanti problemi. Conosceva meglio la Capitale di sé stesso. E probabilmente era esattamente quello il motivo della sua presenza lì: era scomodo e dovevano eliminarlo.
 Come se non con gli Hunger Games, dove solo uno su ventiquattro sopravvive?
 Non avrebbero neanche destato sospetti, in questo modo. Arrivato in quello che dedusse essere il lato ovest del castello si trovò davanti una lustra porta nera, priva di maniglia e di serratura. Incuriosito cominciò a studiarla chiedendosi quali segreti potesse celare. Lui era un asso nello scovare segreti, ce l’avrebbe fatta anche stavolta.
 Infatti, poco dopo, il batacchio di bronzo a forma di corvo sulla destra della porta parlò, come se fosse stato vivo.  
 «Chi viene prima, la fenice o la fiamma?»*
 
 William Moser, del distretto 4, camminava ormai da più di un’ora nel castello. Aveva sceso e salito scale, imboccato decine di corridoi diversi, si era fermato in uno dei tanti bagni e adesso era sicuro di essersi perso. Al bagno di sangue non aveva preso niente: si era semplicemente avviato su per le scale. Non aveva armi o provviste, ma almeno era ancora vivo. La divisa – che gli calzava a pennello – e la cravatta gialla e nera lo facevano sembrare un piccolo damerino. Non gli dispiaceva starsene da solo: non avrebbe parlato comunque. Certo, gli sarebbe piaciuta un po’ di compagnia, e un alleato gli avrebbe fatto comodo.
 Immediatamente pensò a Hope ed Eric, i suoi migliori amici nel Distretto 4. Cosa stavano facendo in quel momento? Chissà se lo stavano guardando. Dopotutto erano praticamente tutto ciò che aveva: Hope era come una sorella e, per di più, era stata fondamentale per lui dopo che sua madre era morta salvandolo da un’alluvione. Eric, invece era l’esatto opposto di Will. Aveva lealtà e coraggio per entrambi e soprattutto gli era sempre stato fedele.
 Il tredicenne sbucò in un corridoio (dopo aver salito diverse rampe di infinite scale) con un solo pensiero fisso: fame. I cinque giorni prima dei giochi, nei quali si era abbuffato e aveva soddisfatto tutti i suoi desideri in fatto di cibo, non gli erano bastati: il suo stomaco reclamava, proprio come se digiunasse da giorni. Non poteva farci molto, comunque. Cercò di non pensarci, ma era un chiodo fisso, come se qualcuno gli continuasse a sussurrare le parole ‘fame’ e ‘cibo’in nelle orecchie.
 Nella parete tappezzata di quadri – che, incredibile ma vero, si muovevano – ne spiccava uno singolarmente strano. Un uomo dall’aria non particolarmente furba, interagiva con delle creature in tutù alte diversi metri. Non riuscì a trattenersi dal ridere, ma si fermò immediatamente quando si accorse che la sua risata era rimbombata in tutto il corridoio e, anche se sperò di no, nei corridoi vicini. Si tappò la bocca con le mani e riprese a camminare, con lo stomaco gorgogliante, un po’ più velocemente.
 Si fermò immediatamente perché qualcosa nella parete di fronte aveva attirato la sua attenzione.
 Will indietreggiò fino a schiacciarsi contro il muro: nella parete stava prendendo forma una porta. Una porta che prima non c’era, ma adesso sì. Era apparsa dal nulla. Il ragazzo era piuttosto deciso a non entrare: era sicuro che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto degli strateghi. Magari varcandola sarebbe arrivato dritto dritto nel posto in cui si nascondevano i favoriti e sarebbe morto. Poi però, ragionandoci su, arrivò alla conclusione che non avrebbe avuto senso spingerli ad uno scontro diretto quando erano entrati nell’arena poco più di un’ora prima.
 Con lo stomaco ancora gorgogliante decise di entrare e quando lo fece si sentì stupido per aver esitato: davanti a lui c’era un tavolo apparecchiato. Doppia porzione di ogni cosa: un pranzo per due persone. C’erano lasagne, del pollo e un invitante dessert.
 Will prese posto al tavolo e pensò che la fortuna era decisamente a suo favore.
 
 «Ora va decisamente meglio!» disse Hèloise, rimettendosi la camicetta e avvolgendosi la cravatta intorno al polso.
 Jace la guardo, strabuzzando gli occhi: si era stupito di aver trovato il bagno al primo piano, con tanto di servizi e acqua corrente. Per un momento si domandò cosa passasse nella testa degli Strateghi: l’acqua non era avvelenata, oppure la ragazza sarebbe già morta da un pezzo. Pareva essere illimitata, anche.
 Ci aveva messo poco a smettere di rimuginare sulla stranezza dell’arena, perché Hèloise ci aveva messo poco a spogliarsi e rimanere in biancheria. Gli aveva chiesto, poi, di rimanere di guardia, e di ammazzare chiunque provasse ad entrare. Lui, andando contro la propria indole ribelle ad ogni tipo di richiesta o ordine, era rimasto poggiato allo stipite della porta, in modo da poter sorvegliare il corridoio e sbirciare di tanto in tanto la compagna, china sul lavandino per pulirsi.
 L’avrebbe usata, come faceva sempre con ogni ragazza, avrebbe ottenuto ciò che voleva e se ne sarebbe liberato. Ma per ora si sarebbe solo divertito, perché Hèloise era davvero bella.
 In fondo, però, gli dispiaceva: forse, non era solo un rapporto di convenienza quello che li legava.
 Il soffitto grondava d’acqua in alcuni punti, come se dei tubi fossero stati bucati da qualcosa. Era una stanza fredda, dai colori freddi e un’atmosfera fredda, tappezzata di fredde mattonelle sui muri e sul pavimento. Solo una finestra illuminava a giorno. C’erano quattro toilette, separate da muri. C’erano anche quattro porte, alcune scardinate e altre bucate. Quattro lavandini sotto la finestra erano ormai arrugginiti.
 «Cosa guardi?» domandò la sedicenne, andandogli incontro con fare sensuale e seno semi scoperto.
 «Niente. – rispose lui, affrettandosi a distogliere lo sguardo. – Assolutamente niente.»
 Gli occhi azzurri della favorita studiarono il corpo del compagno – la giacca, la camicia, il gilet e la cravatta verde e argento.  
 «Meglio se torniamo da Jeremiah.» sorrise sorniona passandogli accanto e iniziando a scendere le scale.
 Sì, si sarebbe divertito molto, affetto o meno.
 
 Lalyn aveva salito così tante rampe di scale che ormai aveva perso il conto. Se si aggiungeva anche la cravatta bronzo e blu che le stringeva la gola, a momenti le mancava il fiato.
 Sentiva che salire era la cosa giusta: più in alto andava e più difficile sarebbe stato trovarla. E, per il momento, aveva bisogno di riposarsi un po’ e di riprendersi dalla scarica di emozioni e di adrenalina che il bagno di sangue le aveva provocato. Gli Hunger Games erano sempre stati una prospettiva invitante per la sedicenne – anche se non abbastanza da offrirsi volontaria – e, mentre il conto alla rovescia scorreva, era stata colpita da un’ondata di emozioni tale da farle tremare – anche se per un attimo solo – le ginocchia. Si era buttata nella mischia e, per farsi largo, aveva assestato dei ben piazzati pugni a un paio di tributi che non era neppure stata in grado di identificare.
 Aveva afferrato uno degli zaini più grandi e poi aveva cominciato a salire. Tutte quelle scale la riportarono irrimediabilmente indietro nel tempo, a quando aveva solo otto anni e viveva all’orfanotrofio, a quando tutto era iniziato. A quando aveva spinto giù dalle scale la donna che era venuta per l’adozione e a quando, la sera stessa, era stata allontanata dall’orfanotrofio e ospitata da un altro.
 A quando Oregon, un bambino che traeva particolarmente piacere nel prenderla in giro, aveva pronunciato quella frase, quella che era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. “Stupida orfana”, aveva detto. E lei lo aveva ucciso, facendolo cadere dal balcone del quarto piano.
 Ovviamente tutto ciò non lo aveva rivelato a nessuno, da quando era stata estratta: non voleva usare il suo passato burrascoso come mezzo per intenerire gli spettatori.
 Dopo quelle che sembrarono interminabili ore, Lalyn arrivò in quello che dedusse essere uno dei punti più alti del castello. Attraversò una porta, senza notare la targhetta alla destra di essa che diceva “guferia”. Quando fu dentro non poté frenarsi dal sussultare: era entrata in una stanza circolare, le pareti di pietra erano tappezzate da grandi finestre e da piccole insenature nelle quali riposavano decine e decine di gufi.
 Lalyn, pensando al peggio, si schiacciò contro la porta, pronta a ricevere un attacco da parte degli uccelli. Ma non successe niente. La metà di loro dormiva e l’altra metà non sembrava essersi accorta della nuova arrivata. A quanto pareva, quei gufi non erano ibridi. O comunque non avevano intenzione di ucciderla, altrimenti l’avrebbero già fatto. Lalyn tirò un sospiro di sollievo, poi si sedette sul pavimento tenendosi a debita distanza dagli animali. Esaminò, finalmente, il contenuto del suo zaino: diverse scorte di cibo, due bottiglie da un litro – entrambe vuote, una pergamena accompagnata da un calamaio – inutile, un pugnale e due coltellini da lancio. Non le era andata male, considerando che con i coltelli era piuttosto brava. Tutto merito di Heltar, comunque, l’unico che poteva definire ‘amico’ nel Distretto 3. Era lui che aveva acconsentito ad insegnarle a lanciare le lame e a combattere. Poi era morto negli Hunger Games e Lalyn non aveva più ricevuto alcun tipo di insegnamento.
 Non fino a qualche giorno prima, almeno, quando aveva potuto affinare le sue tecniche.
 La ragazza prese uno dei coltellini e lo esaminò rigirandoselo tra le mani; la punta era dieci volte più affilata rispetto alle lame con cui si era allenata in passato. Poi alzò la testa verso uno dei gufi davanti a lei.
 L’uccello la guardò, piegando la testa di lato, e lei sorrise. Un attimo dopo, la guferia ospitava un membro in meno. Lalyn esaminò compiaciuta il risultato di un lancio perfetto e guardò il gufo, morto prima che potesse rendersi conto di ciò che stava per accadere. La sedicenne si alzò e recuperò il coltellino.
 Poi si domandò ad alta voce, guidata dallo stomaco che brontolava: «Chissà se i gufi sono commestibili.»
 
 Era morta.
 La sua Hellie non c’era più.
 Adesso le sue erano solo parole senza valore, promesse infrante e giuramenti spezzati. Non l’aveva salvata e lei era morta. Il resto non contava. Come avrebbe potuto Johnny guardare le cose allo stesso modo? Come avrebbe potuto rialzarsi e andare avanti a testa alta? Mentre era seduto, le mani che reggevano la fronte, la cravatta rossa e oro che dondolava verso il basso, fissava le sue lacrime che bagnavano il pavimento di pietra. Vergil pianse un oceano di lacrime e non se ne vergognò, perché Helena era l’unica ragione per cui valeva davvero la pena piangere, apparire debole e non nascondersi. Helena era il centro del suo mondo e, senza di lei, niente avrebbe avuto più senso. Xena, la bambina del Distretto 8: era lei la responsabile e Johnny non l’avrebbe risparmiata, se l’avesse incontrata. E se non l’avesse incontrata, allora l’avrebbe cercata, trovata e poi punita.
 Søren, vedendo Johnny in quelle condizioni, si mise seduto di fianco a lui e gli poggiò una mano sulla spalla. Quello era stato un colpo duro anche per lui: Hellie aveva avuto un certo effetto sul diciassettenne, e lui non aveva mai pensato che qualcuno potesse fargli battere il cuore in quel modo. I giorni precedenti erano stati per Søren una guerra civile interiore: da un lato sentiva il disperato bisogno di proteggerla e, dall’altro, cercava di allontanarla bruscamente. Per questo si era chiuso in un guscio, un guscio nel quale Hellie era stata capace di farsi un buchino e penetrare sempre più a fondo. E adesso era assurdo pensare che quella ragazza dagli occhi neri e profondi fosse morta.
 I due ragazzi non avevano avuto un buon rapporto nei giorni precedenti: Johnny aveva paragonato Søren ad “un cane con una smorfia irritata”, cosa che non aveva di certo fatto piacere a quest’ultimo. Inoltre Johnny aveva dimostrato di essere piuttosto geloso nei confronti di Hellie e il rapporto che era nato tra la ragazza e Søren – che a lei piaceva chiamare Tim – lo preoccupava.
 Ma, in quel momento, accomunati dall’angoscia della perdita, i due si sentivano più uniti che mai.
 Jude, la diciassettenne del Distretto 7, compagna di Søren si mise a sua volta di fianco a quest’ultimo. Dopotutto i due avevano una finta storia da portare avanti. Il povero Søren, infatti, che proveniva da una famiglia omosessuale, non era stato influenzato dai genitori: lui era attratto dalle ragazze e da loro soltanto. E se non se ne fosse trovata una in fretta, gli disse lo zio Martin,  i suoi genitori avrebbero fatto di tutto per farlo diventare gay. Per questo montò la finta storia con Jude, quando i due avevano solo dodici anni.
 La ragazza accettò; in cambio, però, volle dei soldi.
 Jude si allentò la cravatta verde e argento e cercò di alleggerire un po’ la tensione.
 «Bel tatuaggio.» disse, ammiccando alla stella di David a sei punte sulla clavicola di Johnny. La povera ragazza, che non conosceva il significato di quel tatuaggio, provocò l’effetto contrario: Johnny si premette una mano sulla clavicola e si disperò, se possibile, ancora di più. Jude rivolse un’occhiata interrogativa in direzione di Søren, il quale la prese per mano e le spiegò: «Era il loro tatuaggio. Ce l’avevano entrambi e nello stesso punto.»
 Judith annuì e, quando calò di nuovo il silenzio tra i tre, pensò a Sacha che era sparito. Non aveva neanche partecipato al bagno di sangue. Era suo cugino e lei aveva promesso a sua madre che l’avrebbe protetto. Solo che non ne aveva avuto la possibilità: lo avevano fatto sparire insieme agli altri tributi. Chissà dov’era finito. Non poteva essere morto: Jude, in qualche modo, se lo sentiva.
 Scacciando i pensieri, esaminò il contenuto dello zainetto che era riuscita a rubare dalla cornucopia: un paio di scatole di biscotti, una pomata e una coperta. Non era molto, ma almeno era qualcosa.
 Jude non era l’unica a pensare a Sacha: Ambra passeggiava lungo i corridoi del castello pensando al ragazzo del Distretto 11.
 I primi giorni dell’allenamento non gli andava molto a genio: era così freddo e distaccato… Con il passare del tempo, però, tra i due era nato qualcosa e Ambra, adesso, si sentiva terribilmente in pensiero per il ragazzo. Si era in qualche modo innamorata della sua storia, dei suoi occhi color ghiaccio, della parlantina che lo prendeva quando era imbarazzato o emozionato. E sapeva che anche lui provava qualcosa per lei: glielo aveva dimostrato la sera dell’intervista, quando l’aveva attratta a sé e l’aveva baciata. Si erano promessi che si sarebbero riabbracciati dopo il bagno di sangue, ma non era stato possibile. Per questo Ambra avrebbe voluto uccidere gli strateghi, in quel momento. Magari con quel bel tridente che aveva preso al bagno di sangue.
 Stanca di camminare, Ambra decise che avrebbe varcato la prossima porta che avrebbe incontrato. In questo modo avrebbe potuto riposarsi ed esaminare un po’ meglio i graffietti che si era procurata al bagno di sangue. Nulla di serio, comunque.
 Qualche minuto dopo, la ragazza spinse la porta di una delle tante aule, ignara di ciò che si nascondeva dietro di essa. Quando entrò non fece subito caso alle tre sagome sedute con la schiena poggiata contro il muro: le notò solo quando i tre – che identificò immediatamente come Johnny, Søren e Judith – si alzarono in piedi di scatto. Ambra sussultò e strinse la presa sul suo tridente, fissando lo sguardo sulla cravatta di Søren che era blu e bronzo come la sua.
 «Ambra!» esclamò sorpresa Jude.
 
 J, dopo essersi ripreso dallo shock – sì: quell’aggeggio di bronzo aveva parlato davvero –, sorrise. Era un indovinello e a lui erano sempre piaciuti gli indovinelli. Il diciassettenne pensò un attimo all’uccello mitologico, famoso per il fatto di poter rinascere dalle proprie ceneri.
 Sì: sapeva la risposta.
 «Un cerchio non ha né inizio né fine»
 «Bella risposta» disse il corvo di bronzo.
 Poi la porta si aprì.
 J entrò senza esitare in una vasta e ariosa stanza, illuminata da splendide vetrate ad arco. Il soffitto era decorato con un affresco raffigurante il cielo notturno, punteggiato di stelle di bronzo. Sul pavimento di moquette blu poggiavano decine e decine di librerie e scaffali che straboccavano di libri e, difronte all’entrata, una splendida e maestosa statua di marmo levigato raffigurante una donna con un diadema in testa. Il bronzo e il blu erano i colori dominanti.
 Julian si guardò la cravatta, anch’essa bronzo e blu. Era nel posto giusto.
 
 Mentre tutti salivano, Leon era sceso. E ora, rifugiatosi in una delle centinaia di stanze presenti nel castello, si apprestava ad esaminare il suo bottino. La stanza era una vera e propria classe, con tavoli, sedie, armadietti, una libreria e strani oggetti che non aveva mai visto e che, a suo parere, non servivano a niente. Sugli scaffali c’erano decine di boccettine contenenti liquidi colorati e, su ogni tavolo, grandi calderoni di peltro, ottone o rame. Scappando dal bagno di sangue era riuscito ad afferrare uno zainetto, poi era uscito dalla stanza, aveva imboccato le scale ed era sceso in quelli che, pensò, dovevano essere i sotterranei. Aveva esplorato qualche stanza e, alla fine, aveva deciso di rifugiarsi in una di esse. Aveva scelto quella perché era la più buia di tutte e, con un po’ di fortuna avrebbe potuto mimetizzarsi nella penombra se qualcuno avesse deciso di venirlo a cercare. Nello zainetto che aveva conquistato al bagno di sangue non c’era molto: un paio di scatole di gallette, una bottiglietta da un litro (ovviamente vuota), un coltellino svizzero, una piuma e un pezzo di pergamena con cui non sapeva proprio che farci. Sospirò poco soddisfatto e si mise a sedere su uno dei tanti tavoli. Almeno aveva un coltellino, era pur sempre meglio di niente. Avrebbe volentieri preso qualcos’altro, ma la misteriosa scomparsa di Paz insieme agli altri tributi lo aveva mandato completamente nel pallone. Era partito con l’intenzione di ucciderla, ma durante l’allenamento era scattato qualcosa. Si era reso conto che l’odio che provava verso la sorellastra non era reale. Stando lontano da sua madre, che gli aveva fatto il lavaggio del cervello in tutti quegli anni, aveva capito che, in fondo, a Paz voleva bene. Se qualche giorno prima gli avessero detto che aveva intenzione di proteggerla anziché di ucciderla si sarebbe messo a ridere come un matto. Ma alla fine che colpe aveva Paz? Quella di essere la figlia illegittima del sindaco? Dopotutto non l’aveva scelto lei. E ora era sparita. Aveva tenuto lo sguardo fisso su di lei per tutto il conto alla rovescia. Poi era arrivato il fumo e Paz era sparita sotto al suo naso. Era letteralmente infuriato con il mondo intero. Si allentò la cravatta verde e argento: odiava portare cravatte. Era il figlio del sindaco del suo Distretto e le doveva portare spesso, ma non riusciva proprio a sopportarle. Per quale diavolo di motivo l’avevano vestito da studente? Poi realizzò: il castello, le classi, la divisa… Quell’anno l’arena era una scuola.
 
Presto si fece notte nell’arena e gli strateghi si apprestarono a mostrare i volti dei caduti del bagno di sangue di quell’edizione.
L’inno di Capitol City rimbombò in tutto il castello, riuscendo a penetrare anche nelle stanze più nascoste e negli angoli più remoti. I tributi si guardarono intorno, incerti sul punto in cui i volti sarebbero apparsi. Poi il fuoco si accese nei camini di ogni stanza, il soffitto – sia quello stellato della sala grande che quello in pietra dei corridoi – si illuminò. La prima ad apparire fu Ariadne dal Distretto 5 seguita dal suo compagno di Distretto Abe. I due avevano un rapporto più unico che raro, in questo modo, almeno, non avrebbero sofferto la perdita. Poi fu il turno di Helena, dal Distretto 6. Johnny vedendo il suo volto nel cielo realizzò che quella era l’ultima volta che l’avrebbe vista. I due ragazzi del Distretto 10, Mia e Gabriel, entrambi con i capelli biondi e infine Daffodhil Sunshine, la quindicenne del Distretto 12. Sei morti, un quarto dei tributi. E mentre i favoriti festeggiavano e Johnny si disperava, Leon tirò un sospiro di sollievo. Paz, almeno, non era morta.
 
 Jeremiah era ancora nella Sala Grande, seduto a tirare freccette agli stendardi colorati, quando l’inno risuonò, e alzò gli occhi per guardare il soffitto – cielo – in cui venivano proiettati i visi dei caduti. Quando Hèloise e Jace lo raggiunsero (e gli spiegarono la strana faccenda del bagno con acqua corrente, per di più potabile), fece notare loro che diversi tributi mancavano all’appello: al bagno di sangue non s’erano visti, e il loro volto non era apparso in cielo, non quella sera.
 I Favoriti fecero rapidamente due conti: mancavano sei tributi – i sei spariti poco tempo prima, durante il conto alla rovescia alla Cornucopia.
 
 
 
 

***

 
 
 
 
 
 Coriolanus Snow stava potando le rose bianche del suo giardino, quando vide il primo stratega arrivare davanti a sé, spavaldo, sicuro come non mai.
 «Allora, che ne pensa?» domandò il quarantenne all’altro.
 Il Presidente tagliò una rosa e gliela porse.
 «Sei stato brillante, Seneca. Come ti è venuta questa idea?» rispose, alludendo alla strana disposizione dell’arena.
 «Ho fatto un sogno, – disse semplicemente l’altro, – un sogno in cui venivo scaraventato di sotto.»
 Snow rise, di una risata fredda e gutturale: i tributi di quell’anno sarebbero stati alle prese con una delle arene meglio riuscite di tutte. «Pensi se ne renderanno conto?»
«Solo se vorrò dargliene modo.»
 
 
 
 


 


 

 


 


 


 



 




 


 


 
Note delle Autrici

Allora. Ci teniamo davveramente molto a farvi sapere che questo... "brusco salto nel tempo" era stato deciso già quando abbiamo deciso di fare un'interattiva. Indi, non odiateci. (Neppure perchè siamo dei troll).
Ora mi servono due righe per spiegare una cosa. Sei tributi - scelti da rangom. org - sono morti (Ariadne, Abe, Hellie, Mia, Gabriel e Daffodhil), e alla loro morte verrà dedicata una drabble/qualcosacheancoranonabbiamobendefinito non appena riusciremo a capire come organizzarci. Perchè sì, anche noi faremo una raccolta in cui parliamo dei morti.
Altri sei tributi, invece, quelli spariti a inizio capitolo (Yara, Raph, Paz, Kaya, Sacha e Mitchell) NON sono morti, come è stato sottolineato dalla mancanza dei loro volti in cielo. Indi, mentori care, rasserenatevi, chè la loro ora ancora non è arrivata (?) Niente, scoprirete la loro sorte nei prossimi capitoli.
Ma potete tirare ad indovinare.
Che gli è successo?
Per quale motivo sono spariti?
Perchè li abbiamo scelto proprio loro?
TIC TAC. Avete 24 ore per darci delle risposte su feisbuc o via mp di efp. Chi azzeccherà, guadagnerà per il proprio tributo (o per il proprio preferito, nel caso in cui il tributo sia morto) l'immunità per tre capitoli a partire dal prossimo. Ovvero tre capitoli in cui il tributo non potrà morire.
E niente, è evidente il crossover (ne abbiamo contati ben sei, che si riveleranno man mano che la storia va avanti), per questo lo abbiamo inserito nelle note. Ci sentiamo presto!
Arii, Marty e Adolf - la koala
 


ps. I titoli delle tre parti del capitolo vengono da "Crash", anch'essa dei SUM41



*© JK Rowling, Harry Potter e i Doni della Morte, pagina 540
  
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