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Autore: Carlos Olivera    29/08/2013    3 recensioni
Kyrador.
La più bella cosa che esiste al mondo.
Kyrador è il sogno di ogni uomo.
E' una pudica fanciulla che accende i desideri.
E' una veemente pantera che fa di te la sua preda.
E' una ricca vedova che promette molto ed esige il doppio.
Kyrador ti possiede.
Kyrador ha tutto ciò che puoi desiderare.
Può darti la felicità o condurti alla miseria.
Farti provare la gioia più sconfinata e il più assoluto dolore.
E' il piacere e l'agonia.
Il bianco e il nero.
La vita e la morte.
Semplicemente, Kyrador
Genere: Science-fiction, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

Chi mi conosce saprà che di solito le note le metto sempre alla fine del capitolo, ma in questa particolare occasione ho pensato fosse meglio fare qualche precisazione doverosa.

Questa breve storia, qui divisa per ragioni di lunghezza in cinque capitoli, la si può considerare una via di mezzo tra uno spin-off e uno slice of life della mia storia Tales Of Celestis.

In essa ho voluto raccontare uno spaccato di Kyrador, la città dove sono ambientate buona parte delle vicende della trama principale. Anzi, per essere più precisi ho voluto raccontare la città stessa tramite i suoi luoghi più simbolici ed importanti, ma anche le sue contraddizioni, le sue molte facce e i suoi stessi abitanti, incarnando il tutto nelle vicende quotidiane di 5 diverse persone.

Per poter leggere questa storia non è necessario conoscere la vicenda principale, volendo anzi che costituisca una sorta di “presentazione” al vero Tales Of Celestis, ma sono sufficienti poche brevi informazioni, che comunque saranno via via enunciate nel corso della vicenda.

Ecco, penso di aver detto tutto.

Vi lascio alla lettura. Perdonate la lunghezza forse eccessiva, ma ho cercato di tagliare il più possibile.

A presto!^_^

Carlos Olivera





 

 

 

Chi cerca di realizzare il paradiso in terra,

sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile inferno.

(Paul Claudel)

 

 

1

 

 

Sorgeva il sole su Kyrador, sulla più bella città di Celestis.

Per i suoi tre milioni di abitanti iniziava una nuova giornata. Una giornata come tante altre, con i suoi ritmi, i suoi eventi quotidiani, la sua routine.

Ally detestava svegliarsi al mattino, e ogni volta ci volevano le cannonate per riuscire a farle sollevare la testa dal cuscino.

Sua madre dovette chiamarla quattro volte dalla cucina prima di ricevere una confusa risposta d’assenso, e puntuale come ogni mattina si ripeté il rituale della corsa dei cento metri. L’autobus per la scuola elementare passava alle otto e undici precise, e perderlo voleva dire arrivare in ritardo quasi di sicuro, con inevitabile nota di biasimo.

«Sono in ritardo!» esclamò la bambina rischiando di capitombolare dalle scale.

Giusto il tempo di un bicchiere di succo, una fetta di pane, un bacio a mamma e papà e Ally era in strada.

«Bene, dovrei farcela.» disse tra sé correndo verso la fermata.

Così, una volta tanto, poté permettersi di rallentare il passo, e di godersi almeno un po’ la quiete della prima mattinata in quel pacifico e ameno quartiere residenziale, lontano dai grattacieli e dai palazzoni del centro, una tranquilla via costellata di amene casette a due piani con giardino, staccionata e anche qualche piscina.

Il caldo non era eccessivo, benché fosse ormai quasi estate; una piacevole brezza giunta dalle montagne aveva spazzato via la bruma della prima alba, pulendo l’aria e riempiendola allo stesso tempo di una delicata fragranza di pino, che andando a mescolarsi con la salsedine portata dal mare generava un aroma che avrebbe ridato energia anche al più incallito dei pigroni.

Laggiù, in lontananza, si intravedeva il centro della città, bellissimo, arroccato sulla sua collina come un’acropoli, puntellato di grattacieli e scintillante di bianco.

Solo in quel momento Ally si ricordò cosa vi fosse in programma quel giorno. Era lì che lei e la sua classe erano diretti, al museo nazionale delle scienze e della storia, e di colpo le venne voglia di correre nuovamente, tanto la eccitava il pensiero di ciò che avrebbe visto.

Con il cuore che batteva forte per l’attesa Ally giunse alla fermata dell’autobus trovandovi tutti i suoi amici, tutti impazienti come lei. Meracle, la sua compagna di banco, era al settimo cielo; la scienza e la storia antica di Celestis erano la sua grande passione, e anche se ormai conosceva a memoria il museo dove erano ospitati i resti delle prime navi coloniali giunte sul pianeta quasi quattrocento anni prima ad ogni nuova visita c’era sempre qualcosa da scoprire.

E poi il museo era così bello.

Chi lo aveva costruito aveva voluto farlo somigliare ad una culla, un lettino rovesciato dalla forma vagamente pentagonale che custodiva i ricordi della prima infanzia di tutti coloro che vivevano non solo in quella città, ma nel mondo intero.

«Vedrai, ti piacerà un sacco.» disse Meracle all’amica appena ebbero preso i propri soliti posti a bordo del pulmino «Dentro è così maestoso, e così straordinario. Pensa, ci sono persino alcuni resti delle prime navi coloniali, e persino una ricostruzione in scala interamente visitabile».

Meracle era andata avanti a decantare le meraviglie del museo dal giorno in cui si era saputo della gita, e ormai aveva finito per contagiare anche Ally, che non vedeva l’ora di poter vedere tutte quelle magnificenze con i suoi occhi.

 

Abbandonato il tranquillo quartiere residenziale in cui le due ragazzine vivevano con molti loro compagni l’autobus imboccò la circonvallazione sopraelevata che come un anello cingeva il centro cittadino, accogliendo le innumerevoli arterie stradali che arrivavano sia da altre parti della città sia dall’esterno.

Da lassù, molti palazzi che prima sembravano enormi ora apparivano piccini piccini, fili d’erba sopra cui camminare che spuntavano da un pregevole giardino di strade più basse, parchi e giardini, popolato di persone, animali e altre innumerevoli forme di vita.

Sembrava quasi di volare, tanto la strada arrivava in alto, e per lei fu un po’ come provare quell’emozione per la prima volta, anche se solo con gli occhi della fantasia.

Volare era un privilegio riservato a pochi.

Troppo poche le tratte sufficientemente lunghe da rendere necessario l’uso di un aeromobile.

Come minimo bisognava fare un salto di due o tre nazioni, altrimenti lo spazio era insufficiente per le manovre effettuate dagli aerei, che prima salivano velocissimi fin quasi a lambire lo spazio profondo e subito dopo riscendevano verso il basso, dritti verso la destinazione. Agli occhi di chi stava a bordo sembrava di non essersi neanche mossi, ma in realtà erano state percorse diverse migliaia di chilometri, impossibili da percepire nitidamente, il che, a detta di chi l’aveva provata, rendeva solo l’esperienza più entusiasmante e fuori dall’ordinario.

Coi treni, quelle rapide frecce che percorrevano da un capo all’altro ogni punto del pianeta tracciando un’intricata ma molto ordinata rete di rotaie, si arrivava dappertutto, e in tempi brevissimi. Niente di paragonabile ai vecchi treni terrestri, che a leggere le cronache e gli archivi al confronto dovevano sembrare tante tartarughe appesantite dal loro guscio.

Delle aeronavi da crociera poi, un viaggio che si faceva una volta nella vita e che restava nell’anima, neanche a parlarne. Tanto quelle che viaggiavano attraverso i continenti quanto quelle che esploravano lo spazio avevano costi proibitivi, e solo i più ricchi potevano permettersi più di una crociera.

Molti dei loro genitori lo avevano provato, magari in occasione della luna di miele, sfruttando gli sconti riservati ai novelli sposi, e forse anche per questo molte delle compagne di scuola di Ally non vedevano l’ora di sposarsi: volevano a tutti i costi provare quelle emozioni meravigliose.

Vedere l’oceano stellare, oppure Celestis dall’alto, fin oltre le nuvole, era qualcosa che sfidava la loro immaginazione al di là ogni limite, cosa assai difficile per una mente come la loro, che con le meraviglie del loro tempo conviveva praticamente tutto il giorno tutti i giorni.

Purtroppo, il centro cittadino era tutt’altra cosa, essendo anche mattina presto.

Lasciata la circonvallazione all’uscita quattordici, l’autobus si ritrovò ben presto imbottigliato in un colossale ingorgo.

«Piccolo contrattempo.» disse la maestra Maifang affacciandosi dal sedile con quel suo sorriso un po’ infantile «Ma non temete, arriveremo comunque in anticipo. Intanto, per far passare il tempo, perché non riproviamo il coro per la recita della settimana prossima?».

Quasi subito Ally si chiamò da parte.

C’erano troppe cose da vedere per avere tempo e voglia di cantare.

I palazzi attorno a lei, se un attimo prima le erano sembrati minuscoli, ora invece facevano sembrare lei solo una formichina, un essere piccino di fronte all’imponenza degli edifici più alti di tutta la città.

Ogni grattacielo era più alto di quello accanto, in una sorta di scala armoniosa che di tetto in tetto arrivava fino alla Marble Tower, la mitica sede centrale dell’Agenzia, il cuore del centro cittadino come di tutta Kyrador, anzi, del mondo intero.

Di tutti gli edifici era sicuramente il più bello, con quella sua forma richiamante una lancia conficcata a testa in su nel terreno, quello scintillio omogeneo di vetro traslucido, quelle pareti bianco brillante che le davano il nome, e in cima quel possente stemma in oro e krylium, grande da solo come la casa di Ally, che come un gigantesco occhio sembrava voler sorvegliare ogni cosa, silenziosamente ma senza fallo.

 

Per puro caso l’autobus era stato costretto a fermarsi proprio ai piedi del Sunset Building, probabilmente il solo edificio del centro cittadino capace di rivaleggiare in grazia e bellezza con la Marble Tower.

Grazie al soffitto trasparente del veicolo Ally poté ammirarne appieno l’eleganza, la linea slanciata che si protendeva verso l’alto descrivendo una curva su uno dei suoi lati, tale da farlo sembrare, a paragone dei molti palazzi rigidi e squadrati che lo circondavano, un cavallo bianco in una mandria nera.

Sulla cima, terminante in una curva pronunciata, si allungava da quest’ultima una larga piattaforma circolare, sorretta da quattro possenti colonne diagonali, che altro non era se non il leggendario Sunset Café, un locale tra i più esclusivi di tutta la città.

Tutte le mattine, al sorgere del sole, la cupola vitrea che solitamente lo avvolgeva veniva abbassata, dando modo ai commensali di poter godere della spettacolare vista dei primi raggi di luce che sbucando da oltre le montagne si incuneavano tra i palazzi per arrivare fino a lì, creando un effetto come a specchio che sfruttando le vetrate e i lucernari degli edifici circostanti inondava il locale di un bagliore quasi sovrannaturale.

Era un ambiente riservato a pochi, dove anche solo consumare una bibita poteva arrivare a costare lo stipendio di una giornata, figuriamoci farlo accomodati ad uno dei piacevolissimi divani di morbido tessuto rivolti verso il mare o a qualcuno degli eleganti tavoli circolari in legno scuro coperti da tovaglie di pura seta bianche come le nuvole.

Il caffè era particolarmente frequentato alla mattina presto, dato il gran numero di uffici e sedi diplomatiche che popolavano tanto i palazzi circostanti quanto lo stesso Sunset Building, che oltre alle sedi centrali di molte importanti aziende ospitava anche l’ambasciata di Fhirland.

Lo stesso ambasciatore Klose era solito recarvisi quasi ogni mattina con la moglie e i due figli.

L’ambasciatore, un uomo che si era fatto a solo, aveva cercato di inculcare il culto del duro lavoro in entrambi i suoi figli, ma se il maggiore Christofer aveva recepito il messaggio, ed era ormai ad un passo dal diventare un suo collaboratore, la minore Pam era per lui una inesauribile riserva di preoccupazioni.

Benché fosse già all’ultimo anno di liceo, quella ragazza non aveva mai lavorato un giorno della sua vita, e spesso, troppo spesso per un uomo nella sua posizione, si era messa nei guai con i suoi atteggiamenti.

Tra i due era uno scontro continuo, e quando andava bene si ignoravano a vicenda, come quella mattina.

L’ambasciatore si sentiva in parte responsabile per quella situazione. Pam era nata in un momento in cui la sua carriera stava subendo una rapida svolta, che lo avrebbe portato da anonimo politico di provincia a figura di spicco del proprio Paese a livello internazionale, e per riuscire ad arrivare a quel punto si era trovato costretto a trascurare spesso la famiglia.

Per Christofer non era stato un problema, abituato com’era a vivere lontano da casa per frequentare prima il collegio e poi l’accademia di magia, ma Pam doveva aver avvertito molto questa mancanza, che ora sfogava comportandosi in modo impulsivo e talvolta immaturo.

«Forse è il caso che ti sbrighi.» la rimproverò l’ambasciatore vedendo che Pam esitava a finire la colazione «O farai tardi anche questa mattina.»

«Hai così tanta fretta di liberarti di me?» sibilò la ragazza chiudendo svogliatamente la finestra per messaggi olografica del comunicatore montato sul suo orologio.

«Io non farei lo spiritoso, signorina. Fra due mesi ci saranno gli esami, e sai meglio di me che se non li passi potrai scordarti l’ammissione all’accademia di magia.»

«Dai quasi per scontato che io voglia frequentarla. Non ti viene neanche in mente che potrei avere altre ambizioni?»

«Per esempio? Andare a ragazzi e locali notturni?

Sono stanco di doverti venire a prendere nelle stazioni di polizia, signorina. O passi gli esami, e con un voto che non sia la solita sufficienza, o ti avverto che per te le cose potrebbero farsi davvero complicate.

Spero di essere stato chiaro».

Pam rispose all’ultimatum alzandosi stizzita dal tavolo facendo quasi cadere la sedia.

«Come vuoi.» disse recuperando la giacca e lo zaino «Tanto è la tua specialità. Valutare la gente solo in base a quanto ti gratifica. Stupida io a pensare che con me fosse diverso perché sono tua figlia.»

«Non osare rivolgerti a me con questo tono. Pam!» ma ormai la ragazza se n’era già andata.

 

Pam lasciò il Sunset Building incamminandosi nel traffico cittadino.

La giornata si preannunciava soleggiata, e così molti avevano lasciato a casa la macchina ripiegando sui mezzi pubblici, e anche se questo non impediva al centro di essere comunque congestionato dal traffico il caos sui marciapiedi era se possibile anche migliore.

I palazzi erano così alti che a meno di non avere il sole a picco le strade, soprattutto la mattina presto, erano perennemente avvolte nell’ombra, e anche se i combustibili fossili o inquinanti erano ormai un ricordo ci pensava l’aria viziata per la troppa gente ad appesantire l’atmosfera.

Alle volte quella parte della città riusciva ad essere davvero invivibile.

Un po’ discostate rispetto al centro cittadino vero e proprio si innalzavano tre colline non troppo alte, i soli avvallamenti di quel territorio dominato invece da vasti appezzamenti pianeggianti che scivolavano placidamente verso il mare, e in cima ad una di queste vi era la Scuola Superiore Alloway, così chiamata in memoria del comandante della Nave Coloniale Aurora che aveva toccato terra proprio nel luogo in cui sarebbe sorta un giorno Kyrador.

Non era particolarmente ripida, ma ciò nonostante doverla risalire tutte le mattine o quasi era uno dei tanti motivi per i quali Pam aveva sempre detestato quella scuola, e poco importava che Angin Street, il grande viale pedonale che da una strada laterale del centro sbucava proprio davanti ai cancelli dell’istituto, fosse tra i più apprezzati della città.

Ciottoli bianchi e rossi coprivano il selciato, descrivendo piacevoli motivi geometrici, due file di aiuole disposte l’una di fronte all’altra ospitavano bassi alberelli, e ai piedi dei molti lampioni trovavano spazio confortevoli panchine per riposare o godersi la tranquillità.

Vetrine di negozi, pasticcerie e altri locali adornavano il tutto, rendendo Angin Street una delle mete favorite di turisti e vacanzieri, ma anche semplicemente di abitanti alla ricerca di un luogo dove trascorrere il tempo libero.

Pam era seriamente intenzionata ad andare a scuola, se non altro per evitare nuove noiose discussioni con suo padre, ma il caso volle che proprio ad un passo dai cancelli incontrò Shirley e Marie, le due sole persone che potesse davvero definire amiche, le quali a loro volta quella mattina avevano molta poca voglia di entrare in classe.

A quel punto la ragazza prese la sua decisione.

«Al diavolo tutto.» sbottò dando un calcio alla elegante cancellata «Andiamo a farci un giro, ci state?»

«Vuoi marinare la scuola anche oggi?» domando Marie, che per quanto insofferente al protocollo e alla noiosa routine scolastica come Shirley teneva non poco al proprio futuro

«Perché, voi no? Personalmente oggi tutto mi fa gola tranne ascoltare l’ennesima lezione di storia.»

«Hai litigato di nuovo con tuo padre?» le chiese Shirley

«Non mi và di parlarne. Allora, siete con me o no?».

Le due ragazze esitarono un momento, ma poi come al solito si lasciarono convincere e seguirono la loro amica nel suo ennesimo colpo di testa.

Mentre scendevano lungo la strada che avevano appena percorso nel senso opposto, le loro strade si incrociarono con quella di uno dei più curiosi e strani personaggi che la città avesse mai offerto; calzoni bianchi, camicia bluette a quadretti, panciotto imbottito color cuoio, portamento leggermente curvo ma ugualmente elegante, mani dietro la schiena ed espressione gentile, affabile, resa ancor più apprezzabile da una non troppo rada chioma argentata.

Lo chiamavano Signor Loyde, come un personaggio di una popolare serie per bambini cui assomigliava, visto che, tra quelli che lo conoscevano o avevano sentito parlare di lui, nessuno sapeva il suo vero nome.

Lui passeggiava. Passeggiava sempre.

Da una parte all’altra, passeggiava per Kyrador come un qualsiasi visitatore occasionale, posando con fare a metà tra l’assorto e il contemplativo brevi sguardi su ogni cosa catturasse la sua attenzione, dai numeri sui tombini alle tende delle finestre.

Ogni tanto si fermava, indifferente al traffico di una strada o all’andirivieni ininterrotto di un marciapiede, focalizzando tutte le sue attenzione su un particolare qualsiasi, fosse esso l’architettura di un palazzo o la particolare impronta del volto di una statua, quindi si rimetteva in cammino, alla ricerca di qualche altro posto da esplorare.

Non vi era luogo della città che non conoscesse; conosceva ogni via, ogni strada, ogni palazzo. Era come una guida turistica vivente di Kyrador. E per chi aveva voglia e tempo di ascoltarlo, si rivelava ogni volta un inesauribile pozzo di storie, aneddoti, e qualunque altra cosa riguardasse sia la storia gloriosa sia l’esistenza quotidiana della città più bella del mondo.

Con il tempo, sempre più persone avevano avuto modo di conoscerlo, e alcune gli erano diventate persino amiche; persino una piccola emittente cittadina si era interessata a lui, dedicandogli un servizio intitolato Il Signor Kyrador, ma nonostante ciò la sua figura rimaneva avvolta da un che di misterioso.

Secondo alcuni era un agente della MAB in pensione, secondo altri un ex poliziotto, secondo altri ancora un’artista, forse originario di un altro Paese, giunto come tanti altri in città ed innamoratosene a tal punto di averla eletta a propria nuova casa e di aver fatto della sua scoperta una personale ragione di vita.

A chi gli aveva chiesto lumi sul suo passato, o su cosa avesse fatto nella vita, la risposta, accompagnata da un sorriso gentile, era stata sempre la stessa.

«Un po’ tutto e un po’ niente.»

Stessa cosa per chi gli aveva domandato quanti anni avesse, cui rispondeva sempre con un vago “Abbastanza.” senza capo né coda.

Non era la prima volta che le ragazze lo incontravano, visto che non era raro vederlo passeggiare su e giù per Angin Street, con l’occhio solo parzialmente catturato dallo splendore delle vetrine, ma mentre Shirley e Marie non si negarono al suo gentile saluto quando questi le vide approssimarsi Pam, al contrario, si mostrò leggermente seccata, anche se cercò di non darlo a vedere.

«Buongiorno signorine.» disse portando malamente l’indice destro alla fronte, quasi a scimmiottare un saluto militare

«Buongiorno, signor Loyde.» rispose Marie «Era da molto tempo che non la incontravamo.»

«Effettivamente. Ma era da un po’ che non mi ricapitava di transitare da queste parti.»

Poi, la sua attenzione fu catturata dal nastro che cingeva delicatamente il colletto delle uniformi scolastiche delle tre ragazze, la cui eleganza ben si confaceva al prestigio di una scuola illustre come l’accademia Alloway.

«Il colore è cambiato» disse dopo aver osservato per molti secondi quello di Pam, suscitando oltretutto nella ragazza un misto di imbarazzo e repulsione. «Prima era un rosso più delicato, come il petalo di una rosa. Ora invece sembra di qualche gradazione più scuro. Direi un color vino.»

«Non le sfugge proprio niente, Signor Loyde» sorrise Shirley. «In realtà è perché abbiamo fatto il cambio di stagione. L’altro nastro è dell’uniforme invernale.»

«Ah, capisco. Sapete, una volta le ragazze della vostra scuola portavano una uniforme diversa.

Mi ricordo di averla vista la prima volta proprio qui, in una mattina di primavera.

Era molto bella. Color grigio perla. Con un colletto bianco, e un nastro blu. E le ragazze avevano tutte una cartellina di pelle marrone. Erano così eleganti. Sembravano già donne mature e madri di famiglia. Come voi del resto.

D’altronde, trovo che esaltare la femminilità e l’eleganza sia il pregio maggiore delle uniformi scolastiche.»

«Ragazze, avete finito di fare salotto?» domandò spazientita Pam.

«Scusatemi, mi sono dilungato troppo. Mi ha fatto piacere incontrarvi, signorine. Spero di rivedervi presto.»

«Arrivederci, Signor Loyde

Mentre si allontanavano Pam si volse a guardare nuovamente a guardarlo, incrociandone brevemente lo sguardo fino a che l’anziano, rivolto un ultimo saluto, non le diede le spalle riprendendo a sua volta la propria strada.

«Si può sapere che ci trovate in quel vecchio?» domandò notando, non senza stupore, le guance rosse delle due amiche

«Beh, è molto affascinante, devi ammetterlo» disse Marie quasi a volersi giustificare.

«Avrà settant’anni come minimo.»

«Sarà anche anziano, ma sa come adulare le persone» rispose Shirley con sguardo sognante. «E ogni volta che lo guardo negl’occhi, mi sento così strana. È come se tutto il mio corpo tremasse all’improvviso.»

«Dite un po’ non sarete mica gerontofile

«Piuttosto, l’uniforme di cui ha parlato» disse ancora Marie. «Se non sbaglio veniva usata durante i primi anni di esistenza della nostra scuola, quasi centocinquant’anni fa. Come fa a dire di averla vista?»

«Mi sembra ovvio che non ci sta tanto con la testa» tagliò corto Pam. «Ci sono le vecchie foto nell’atrio principale, e si sarà convinto di averle viste di persona.

E ora, se non vi spiace, gradirei parlare d’altro.»

 

Pam e le sue amiche girovagarono qualche ora per le strade attorno alla scuola, per poi decidere, sul fare di mezzogiorno, si spostarsi nella grande zona commerciale nei pressi della via di Saint Augustine, dove al termine dello shopping si sarebbero concesse una lunga e molto rilassante passeggiata pomeridiana, magari condita da un cocktail in uno degli innumerevoli caffè che costeggiavano ogni angolo della via del relax e del divertimento più famosa di Kyrador, secondo sola all’altrettanto bella, ma indubbiamente meno caratteristica, Angin Street.

Non si trattava di un vero e proprio centro commerciale, ma piuttosto di una cittadella, racchiusa entro una immaginaria cinta muraria formata dalle pareti posteriori degli edifici che componevano la cinta esterna, con vari ingressi, un chiostro centrale all’aperto e tre piani di negozi, sia generici che specializzati dove si poteva trovare di tutto, dai prodotti per l’igiene alle autovetture.

Forse non era il più grande di Kyrador, ma di sicuro era il meglio frequentato, soprattutto per la presenza di molti marchi prestigiosi.

Era una specie di tempio dell’opulenza, dove tutto era a portata di mano, ma senza dimenticare il buon gusto e la ricerca del bello che pervadeva buona parte della città.

Oltre ai negozi, ai ristoranti e ad altri esercizi la cittadella ospitava anche un vasto giardino, un parco giochi per i bambini, una palestra attrezzata e in ultimo, nei sotterranei, persino una vasta piscina, ritrovo favorito di molti giovani e impiegati al ritorno dall’ufficio.

Il giardino al centro della struttura ai piedi della torre principale era attrezzato anche di panchine e divanetti, ed era ad uno di questi che era seduto, con una cert’aria ansiosa, Vick Owen, un piccolo truffatore che si era già fatto conoscere dalla polizia ma a cui la comprovata affidabilità come informatore aveva sempre permesso di evitare la galera.

Aveva appuntamento con un compratore, qualcuno al quale piazzare a buon prezzo del materiale molto importante di cui era entrato in possesso recentemente che avrebbe provocato una vera e propria esplosione nei centri di potere della città e permesso a lui di vivere di rendita per il resto della sua vita.

Per lui, cresciuto lontano dal lusso e dallo sfarzo dei distretti centrali, era come aver trovato l’eldorado, e poco importava se si trattasse di qualcosa con indubbi risvolti pericolosi, data l’importanza delle informazioni.

Non era stato facile trovare qualcuno in grado di credergli, e di fornirgli nel contempo sufficienti garanzie per tutelarsi prima, durante e dopo la transazione, ma alla fine era riuscito a raggiungere un accordo con il procuratore distrettuale Griffith, che gli aveva promesso un generoso compenso e una nuova identità con cui trasferirsi in un’altra nazione.

Tuttavia, qualcosa lo turbava.

Benché si trovasse nel luogo convenuto l’ora stabilita per l’incontro con il suo compratore era passata già da qualche minuto, e ora cominciava ad essere nervoso.

Spazientito telefonò al procuratore nel suo ufficio, e grande fu il suo stupore quando, aprendo la finestra di comunicazione, vide comparire non lui, ma quella che doveva essere la sua segretaria, una ragazzina castana in uniforme dall’aria innocente e semplice.

«Si può sapere dov’è finito il procuratore?» brontolò

«Sono spiacente.» rispose l’angelo in divisa «Il procuratore non c’è. È ad una colazione con il giudice Birmington

«Come sarebbe a dire a colazione con il giudice!? Avevamo appuntamento al centro commerciale di Saint Augustine venti minuti fa.»

«Veramente, il procuratore aveva detto di avere un appuntamento questa mattina prima dell’incontro col giudice, ma prima di andare via mi ha comunicato di averlo cancellato.»

Vick cadde dalle nuvole, ma da uomo della strada quale era non impiegò molto per capire cosa stava succedendo.

Ovviamente non poteva saperlo, ma la verità era che il procuratore, la sera prima, aveva ricevuto un messaggio, apparentemente proprio da parte di Vick, in cui lui annunciava di aver trovato un compratore migliore e di avere per questo rinunciato all’affare.

Nel momento in cui vide sopraggiungere da dietro un edificio un enigmatico figuro, tarchiato, quasi calvo e in occhiali da sole, che vistolo prese a camminare nella sua direzione con passo deciso Vick capì che qualcosa era andato decisamente per il verso sbagliato, e come se avesse avuto il diavolo alle costole si alzò e se la diede a gambe, rapido ma senza correre, per non creare scompiglio e potersi confondere tra la folla.

Il cuore gli batteva in petto, mentre sentiva quella presenza minacciosa farsi sempre più vicina, e cercando per quanto possibile di mantenersi calmo.

Nel frattempo Pam, Marie e Shirley avevano visitato le boutique, i negozi di cosmetici e anche l’autosalone, fantasticando del momento in cui avrebbero finalmente posseduto una macchina tutta loro, e dando a fondo a tutto quanto avevano nel portafogli.

Erano appena uscite dall’autosalone quando Pam venne urtata accidentalmente Vick, che troppo spaventato ed assorto nei suoi pensieri quasi non si accorse di nulla proseguendo per la sua strada.

«E sta attento, cafone!» sbraitò la ragazza all’indirizzo dello sconosciuto con la giacca da baseball.

Più vicina si fece l’uscita più Vick aumentò il proprio passo, che varcato l’arco d’ingresso divenne vera e propria corsa.

Anche l’inseguitore si mise a correre, ma sfortunatamente per lui quando raggiunse il parcheggio Vick era già risalito sulla sua carretta e se n’era andato, veloce come la folgore.

Tuttavia, pur essendosi momentaneamente salvato, Vick si sentiva comunque in trappola. Ciò che era successo era la prova che le persone alle quali le sue informazioni potevano nuocere non poco lo avevano scoperto, e si erano mosse per impedirgli di parlare.

Non sapeva cosa pensare, o cosa fare.

Una cosa la sapeva: aveva bisogno di aiuto. E decise di chiederlo all’ultima persona che un truffatore incallito poteva considerare amica.

  
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