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Autore: Alexis Cage    29/08/2013    3 recensioni
"Chi era l’ospite della camera 213? E perché pensando a lui non riuscivo a trattenere l’inquietudine?"
In un futuro prossimo, una nobile ragazza si reca in un ospedale per la sua malattia, non immaginando che lì troverà un mistero strano, all'apparenza poco importante, ma che rischia di cambiarle completamente la vita
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dovete sapere che nella giovinezza patii una rara malattia per cui due volte all’anno, una settimana ognuna, la mia forza calava così tanto che potevo soltanto muovermi in una piccola stanza per poco tempo, e se esageravo rischiavo di svenire.

In quelle due settimane venivo inviata dalla mia villa all’ospedale della Corona, il migliore mai costruito, e lì venivo controllata dai dottori più bravi grazie alla rendita di mio padre.

Fatto sta che, sei anni fa, come penso voi ricordiate, giunse la grande epidemia: un’ondata di malattia che non compariva con così forza da almeno tre secoli. Ovviamente i miei genitori spinsero affinchè per me ci fosse il miglior trattamento ma quando arrivai all’ospedale preferii, a loro insaputa, trasferirmi in una stanza comune, lasciando la più lussuosa a chi ne aveva davvero bisogno. Fu così che mi stabilii nella camera 208. Vi parrà strano, ma la prima cosa che notai fu che la stanza di fronte alla mia non era, come di consuetudine, la 209, ma era targata 213, come se avessero sbagliato a sistemare le stanze nel corridoio e le porte dalla mia parte fossero in ritardo, o quelle dall’altra in anticipo.

Mi avevano avvisato che la mia nuova dimora era una stanza comune sia ai maschi che alle femmine e che garantivano la massima discrezione; per questo non ero preoccupata ma rimasi lo stesso sorpresa vedendo, entrando, il mio nuovo compagno di stanza.

Era un giovane di venticinque anni pallido come un cadavere, aspetto accentuato dai capelli neri e dalle occhiaie dello stesso tono di colore, e aveva occhi di carbone che sembravano essere stati decisi, un tempo, ma che in quel momento erano solamente vuoti. Notai in un secondo tempo che le sue mani e i suoi piedi erano legati al letto, ma mi sembrò un fattore non importante quanto la vacuità di quello sguardo. Non riuscii a staccare gli occhi da lui mentre degli infermieri portavano i miei bagagli nella stanza, azione che avrei fatto volentieri io se ne avessi avuto le forze.

Mi stabilii sul letto con una leggera camicia da notte e mi venne detto che il medico sarebbe arrivato solo dopo mezz’ora per causa dell’avvento di altri malati: io risposi che avrei aspettato di più, se qualcun altro avesse avuto bisogno del dottore. Così, quando rimasi nella stanza sola col mio silenzioso compagno, iniziai a guardarmi intorno: notai che il letto alla mia sinistra, quello vicino alla finestra, era lindo come se fosse vuoto da tempo, ma accanto era posato un quaderno medico; così conclusi che forse sarebbe arrivato un nuovo compagno e mi prefissi di chiederlo al dottore per pura curiosità. Vidi che la luce del sole filtrava piacevolmente dalla finestra, che le nuvole si stavano addensando nel cielo e che gli armadi della stanza erano quasi vuoti.

Mi volsi verso il mio compagno e iniziai a studiare anche lui. Il suo sguardo era ancora perso, ma non più vuoto: sembrava immerso in pensieri reconditi e immensi, come se cercasse di vedere qualcosa ma non potesse perché era troppo lontano.

Improvvisamente voltò la testa verso di me. Non sembrava sorpreso dal fatto che lo stessi guardando, pareva essersene accorto sin da subito.

Mi osservò per qualche istante e io per rompere il silenzio decisi di presentarmi, ma lui mi anticipò.

-Se una persona ti aspettasse, tu andresti da lei?-

Io lo guardai sorpresa, non pronta a sentire posta una domanda. Capendo che il giovane era serio, riflettei per qualche secondo e risposi:

-Sì, certo, se lei mi attende con tutto il cuore.-

-Anche se fosse nel luogo più lontano dell’universo?- domandò ancora il giovane. Io lo guardai, riflettendo ancora:

-Ovviamente.-

Comparve una smorfia disperata sul volto del giovane, e mi spaventai vedendo ciò che lo dominava: tristezza, incurabile tristezza.

-Anche gli altri hanno risposto così, sai? Allora perché non mi lasciano andare da Isabelle? Lei è lontana, ma la posso raggiungere velocemente. Perché non me lo permettono?-

Distolse lo sguardo dal mio volto e si perse con gli occhi nell’azzurro del cielo, con la mente oltre, verso le nuvole, verso Isabelle. Vedete, io sono sempre stata empatica verso ogni forma di sofferenza; penso sia stato per questo che capii subito cosa aveva distrutto il giovane. Isabelle era lontana e lui voleva raggiungerla, ma tutti glielo impedivano. È così ovvio, non credete?

-Ho tentato di ammazzarmi due volte.- annunciò con tono neutro e non spostando gli occhi dal cielo e dalle nuvole –Dopo la seconda mi hanno legato. Ho provato un’altra volta, ma ho fallito.-

-L’ho notato.- replicai. Non riuscivo a non sentirmi affascinata da quel giovane che amava ancora così tanto una donna da volerla raggiungere anche nel posto dove si pensava fosse impossibile arrivare. Aveva una disperazione strana negli occhi, una disperazione folle, è vero, ma quella era la conseguenza della sua prigionia. No, non era folle. Era solo frustato perché non poteva tornare da Isabelle.

In quel momento sentii delle voci di alcune persone che si avvicinavano alla nostra stanza. Il giovane spostò gli occhi su di me, poi disse:

-Comunque, io sono Thomas. Thomas Drimles.-

-Elizabeth Albergail.- risposi. Ero abituata a ricevere sguardi sorpresi, impauriti o adoranti quando le persone sentivano il mio nome, ma non fui stupita quando lui replicò soltanto:

-È stato piacevole parlare con te, grazie di avermi ascoltato. Molti non lo fanno.-

-Grazie a te di avermi parlato.- dissi con un sorriso. Mi piaceva, sentivo che sarebbe stato un buon compagno.

Entrò nella stanza il dottore, un uomo di quarant’anni con lo sguardo deciso e le spalle larghe come se dovesse sostenere un’enorme responsabilità. Capii che era un brav’uomo solo vedendo come camminava, con un passo stanco ma allo stesso tempo sicuro, come se fosse stremato dal suo compito ma volesse comunque continuare a farlo, come un vero eroe.

-Buongiorno, signorina Albergail.- mi salutò appena mi vide. Notai un guizzo divertito nei suoi occhi mentre diceva con tono stanco:

-Mi perdoni se non le reco i giusti convenevoli, ma sono alquanto stremato.-

-Dottore, mi offenderei se occupasse il tempo a recarmi i giusti convenevoli non curando le persone.- replicai con un sorriso. Odiavo –e odio tuttora- essere di peso alla gente, quindi cercai di mettere subito in chiaro che non doveva perdere tempo con me. Il dottore sorrise, l’ironia scomparsa dal suo sguardo:

-Grazie, signorina. Io sono Samuel Smith, suo dottore. Cercherò di occuparmi di lei durante il suo soggiorno, anche se c’è l’epidemia.-

-Si preoccupi per prima cosa dei veri malati, Dottor Smith.- dissi io sorridendo tranquilla –Io sto bene, mi basta non alzarmi troppe volte.-

Il dottore mi fece un leggero inchino con la testa:

-La ringrazio ancora, signorina. Ora,- fece lui volgendosi verso Thomas – temo che dovrò occuparmi di lei, signor Drimles. Come si sente?-

-Vivo.- rispose l’interpellato con un tono che dimostrava il suo desiderio di essere tutt’altro che vivo. Il dottore sorrise con calma, come se fosse abituato al palese astio del giovane:

-Dio ci perdoni per questo, signore mio. Allora le corde funzionano bene? Ottimo.-

-Per lei.- mormorò Thomas con tono sofferente. Il dottore si volse verso di me e mi disse volendomi rassicurare:

-Non la disturberà, non è malvagio, odia solo i dottori.-

-Mi tenete prigioniero.- osservò Thomas. Il dottore gli lanciò un’occhiataccia quasi paterna:

-È per il suo bene, non lo dimentichi.-

Il dottor Smith si diresse verso la porta e disse per salutarci:

-Passerò domani mattina a chiaccherare ancora con voi.-

Quando lui se ne fu andato io osservai il mio compagno di stanza, pensosa. Lui se ne accorse e mi chiese:

-C’è qualcosa che ti turba?-

-Perché li odi?- chiesi non riuscendo a capacitarmi del suo sentimento –Loro tentano di aiutarti.-

-C’è un solo modo per aiutarmi.- replicò subito lui. Io scossi la testa:

-Ma loro pensano che questo sia il modo migliore. Non dovresti provare così tanto astio per loro, non vogliono il tuo male, anzi.-

Thomas fece spallucce:

-Se non riescono a capire che questa non è la cura giusta per me, allora non sono degni dottori capaci di curare davvero le persone.-

Non seppi cosa ribattere.



  
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