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Autore: MrsGreyC    29/08/2013    3 recensioni
Questa storia è una parte della mia vita. Vi sono dei flashback che ho vissuto io stessa, dal primo giorno della prima media ad oggi (anche se vi sono anche ricordi ancora più remoti).
Essendo uno sfogo personale, sappiate che si tratta di un testo in cui esprimo pienamente ciò che ho provato e ciò che provo.
Ringrazio tutti per la lettura.
E ringrazio Ilenia, la mia migliore amica, nonchè la persona a cui dedico tutto questo. =)
-MrsGreyC
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lei, sempre il mio angelo
 

Chi è lei per farmi questo? Cosa mi ha fatto per farmi sentire così? Perché non mi dispiace soffrire se si tratta di lei? Come posso fidarmi così tanto di qualcuno dopo tutto ciò che ho dovuto sopportare?
Come è riuscita a rendermi la persona che sono adesso?

 

Settembre 2009
Ero entrata in prima media e non conoscevo nessuno. Mi sentivo un po’ isolata, ma potevo provare a stringere amicizie. Non doveva essere difficile. Perfino io, la ragazza più introversa del mondo, ci sarei potuta riuscire.
I giorni passavano veloci e richiedeva molto sforzo avvicinarsi agli altri. C’era una ragazza con cui non riuscivo a dire nemmeno due parole. Aveva dei lineamenti piuttosto tondeggianti ma conformi.
Era una bella ragazza, un po’ lontana ai miei occhi, alla mia mentalità, a ciò che volevo provare. Ma mi avvicinai lo stesso. Ci provai.
Le dissi un po’ titubante e incerta: «Piacere di conoscerti, spero di passare dei bei anni e di fare amicizia con tutti».
Lei mi guardò accigliata:«Buon per te». Detto questo se ne andò.
Ma cosa le avevo fatto? Non dovevo starle molto simpatica, ma perché?


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Novembre 2009
«Hai bisogno di una mano?» mi chiese lei, mentre raccoglievo tutti i fogli che i compagni dispettosi mi avevano gettato a terra.
«Grazie, ma non ti preoccupare» le risposi. Non volevo condividere la mia paura più terribile con lei. Lei che rientrava in quella paura.
Svelta, raccolsi tutti i fogli e tornai al mio banco.


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Gennaio 2010.
Davanti a me c’era il vuoto. Era tutto buio e non c’era nessuno. L’oscurità mi avvolgeva, cercava di plasmarmi ma io non potevo accoglierla, la reprimevo. Mi chiudevo in un guscio, mettendomi in posizione fetale, con gli occhi sbarrati dalla paura.
“Mamma dove sei? Qualcuno mi aiuti, per favore. Ho paura, salvatemi vi prego. Aiuto” Non potevo piangere, non potevo aprire gli occhi, né chiuderli ancora. Non avrei percepito differenze.
Mentre tentavo di biascicare parole per reprimere l’oscurità, essa mi avvolgeva, mi pressava, tentava di strozzarmi. “Aiuto”
Non potevo invocare nessuno per quanto mi sforzassi. A un certo punto divenne tutto bianco e fu la luce ad abbagliarmi. Potevo vedere. Vedevo tutti loro. Coloro che mi prendevano in giro. E rivivevo uno ad uno gli episodi più terrificanti della mia vita. “No, non voglio, non voglio”
Le immagini mi scorrevano davanti, distruggendomi.


«Sei davvero cattiva, ti odio!« mi paralizzò Simone in prima elementare.

«Che sarebbe questo?» commentò civettuolo Giacomo, seconda elementare, accartocciando il lavoro di un intero pomeriggio, che gli avevo fatto con le mie mani in segno di affetto. Lui lo accartocciò, lo spezzò, lo lanciò nel cestino dei rifiuti. Fece canestro e fece lo stesso con il mio cuore.

«Non puoi avere tutto tu! Lui è mio, non toccarlo!» Titti, la mia nuova cugina, mi trafisse dritta al cuore, con la sua lancia invisibile. Perché lei poteva innamorarsi di qualcuno e io non potevo inseguire ciò che sognavo? Non risposi, ma restai in silenzio, in un angolo, chiudendo le ginocchia al petto piatto e nascondendo il piccolo capo.


Un’immagine mi si parò davanti.

Ero sempre io, quinta elementare. Era lui, il bambino desiderato da tutte noi della 5°B, che mi diceva davanti il cancello della scuola arrogantemente: «Io sono libero, ti vuoi mettere con me?»
Che diavolo significava? Mi piaceva quel bimbo, l’avevo sempre guardato sognante ma in quel momento mi deluse. Lui continuava a ripetermi quelle maledette parole. “No, no, NO! Non voglio” ripetevo a lui e a me stessa. Forse volevo, ma non così. Non era quello il modo giusto. E sapevo, che tutto ciò che sarebbe accaduto dopo, mi avrebbe perseguitato per un po’, forse per sempre, chissà.


Fissavo il vuoto e vedevo queste scene veloci che riemergevano dalla parte più profonda di me. Mi schiaffeggiavano con violenza, ma non provavo tanto dolore, potevo ancora sopportarlo.

«Io ti odio! Stai lontana da me, lasciami in pace! Sei soltanto un’egoista. A chi vuoi ingannare con quel viso innocente? Sparisci dalla mia vista»
Estate 2009. Alcune mie amiche delle elementari mi voltarono le spalle da quel momento e per sempre. Era successo tutto per colpa di quel bambino che era venuto da me anziché da loro. Mi sono sempre fatta da parte, ma perché io non potevo inseguire ciò che volevo realizzare? Perché il mio ruolo era semplicemente quello di adattarsi al mondo e al volere degli altri? Perché io non avrei reagito se fosse successo a loro?


«Mamma mi dispiace tanto, per favore, non arrabbiarti». C’erano vetri sparsi a terra quel giorno. Non l’avevo fatto intenzionalmente. Non volevo rompere il vaso a cui lei teneva così tanto. Mi guardò furiosa, poi si avvicinò e, senza batter ciglio, mi colpì il viso. «Sei soltanto un’imbranata! Guardati, non hai nessuno e non sei neanche capace a muoverti. Hai la stessa grazia di un elefante». Quelle parole dure accrescevano il mio risentimento.


Ognuna di esse, risvegliava ciò che ero stata, ciò che avevo passato, ciò che stavo passando e ciò che mi avrebbe condotto, presto o tardi, all’autodistruzione. E tra un’immagine e l’altra, raggiungevo ciò che era il mio attuale presente, le parole che crearono in me la goccia che fece traboccare il vaso.

«Tu non sei nessuno! Non avrai mai nessuno al tuo fianco. Hai tutti i difetti di questo mondo, dovresti imparare e prendere esempio da tipi come me. Non vedi che la gente preferisce parlare con me?» mi rivolse Francesca dopo tre mesi dal primo anno alla nuova scuola. Mi arrabbiai, la guardai sprezzante e per la prima volta, risposi colma di adrenalina: «Non puoi permetterti di dirmi questo. Non ne hai nessun diritto. E sai che ti dico? Sono io che non voglio prendere esempio da te»
«Fa’ come vuoi, ma poi non venire a piangere da me, se nessuno ti è vicino»


Ero un mostro. Ero troppo sensibile. Riponevo troppa fiducia negli altri e loro la tradivano, uno dopo l’altro.
“Ho paura, paura di affezionarmi ancora, ho tanta paura di perdere ancora qualcuno. Non voglio perderti, chiunque tu sia, non abbandonarmi. Per favore, non abbandonarmi”

Quel giorno, mi svegliai in lacrime, con delle occhiaie spaventose. Ero sconvolta. Io non volevo più provare amore, né odio, né amicizia, né dolore o tristezza. A che serve affezionarsi a qualcuno, se presto o tardi quel qualcuno ti abbandonerà?

Da quel momento, quasi ogni notte, gli incubi iniziarono a perseguitarmi.

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Maggio 2010.
Era passato già un anno, e sprizzavo gioia da tutti i pori. Come poteva riuscire a farmi provare anche questo?
Sempre lei, la ragazza più aperta e dolce del mondo. Ho imparato a conoscerla. Non era così antipatica come poteva sembrare all’inizio. Era aperta, mi ascoltava, mi sentivo a mio agio. E io ascoltavo lei… Però mi terrorizzava l’idea di affezionarmi così tanto a lei da morire.
Se un giorno, tutto ciò che mi aveva sempre distrutto, sarebbe tornato a torturarmi, non so a cosa mi avrebbe portato.
Se mi fossi affezionata a te, e poi tu mi avessi abbandonato, cosa ne sarebbe stato di me?


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Natale 2010.
Eravamo tutte a casa di Giorgia e ci scambiavamo i pensierini di Natale.
Lei, mi diede il mio pacco e io le passai il suo. Lo scartai. Era un set di creme profumate. Adoravo quel regalo, per quanto potesse essere modesto. La abbracciai. «Grazie, è bellissimo», una lacrima di commozione mi solcò il viso e sfiorò il mio grande sorriso.
«Anche il tuo è bellissimo, grazie» ricambiò il mio abbraccio, con il suo calore così dolce e accogliente.


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17 Maggio 2011.
Quel giorno, la mia classe aveva appena finito l’ora di educazione fisica. Ragazzi e ragazze erano rispettivamente nei propri spogliatoi e si apprestavano a cambiarsi. Il professor Gravina andò a consegnare dei documenti in segreteria, lasciandoci da soli.
I ragazzi uscirono per primi dagli spogliatoi e iniziavano a discutere animatamente fuori dalla nostra porta.
Noi ragazze, invece, eravamo quasi tutte in biancheria.
Quel giorno non avevo fatto palestra, così mi misi di guardia alla porta, aspettando le altre.
Le vedevo tutte attente all’aspetto esteriore e, ognuna di loro, vantava come era cresciuta. Io guardavo il mio corpo, cercando di trovare somiglianze. Ma sembravo l’unica a non essere ancora cresciuta bene rispetto a loro. Tutto ciò non mi era mai importato. Non mi interessava l’aspetto. L’importante era ciò che avevo dentro, non ciò che mostravo.
Lo credevo bene, finchè Lui, lo stesso bambino a cui andavo dietro da quasi quattro anni, aprì la porta dello spogliatoio assieme a un ripetente. Non feci in tempo a contrastarlo.
Tutti i ragazzi si allungarono, cercando di ammirare le nostre, anzi, le loro “forme”.
Gli diedi uno schiaffo e lo allontanai, chiudendo la porta alle mie spalle. Ero uscita dallo spogliatoio imbarazzata e furiosa e gli andai incontro.
«Ma che cavolo fai? Come ti permetti di aprire la porta mentre ci cambiamo?»
«Ha parlato quella piatta» rispose noncurante lasciandomi di sasso. “Quella piatta. Ha parlato quella piatta”mi risuonava l’eco in ogni angolo della mia testa.
Lo colsi di sorpresa e provai a picchiarlo, ma quando vidi il professore arrivare, mi venne un’idea migliore.
«Professore, mentre lei era assente, i ragazzi hanno aperto lo spogliatoio femminile» come previsto, il professore prese i colpevoli e li punì. Ma non ero per niente soddisfatta. Perché mi sentivo così insicura?
“Ha parlato quella piatta” ripetevo a me stessa. Non mi importava affatto delle sue parole, però in qualche modo mi ferì nel profondo. Forse perché io lo amavo davvero, o forse perché trovavo ragione nelle sue parole.
Ma quel dannato bastardo, più mi prendeva in giro e più mi piaceva. Non ero attratta più dalle sue parole, ma nei suoi occhi potevo ancora vedere il bambino con cui alle elementari facevo a gara a chi finiva prima i dettati.
Ahimè, quei dettati erano illegibili. Lui vinceva sempre, per quanto potessi impegnarmi, eppure la cosa mi divertiva. Non era come ora. Ora mi distruggeva.
Ritornai alla realtà. La mia migliore amica mi consolò e mi diede dei giusti consigli. Ma allora, perché era così difficile seguirli?


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24 Giugno 2011. Festa del paese.
Le bancarelle rallegravano la strada che portava alla piazza. Ogni colore veniva riflesso da tutte le parti. I bracciali della fortuna, dell’amore, della speranza ci incantavano.
Io e lei camminavano fianco a fianco in quella folla, nonostante fosse pomeriggio. Non avevamo ancora il permesso di uscire fino a sera, ma eravamo felici così, tutto questo ci bastava.
Volevamo due di quei bracciali per rendere ancora più unico il rapporto che ci legava. Ma non ce n’erano molti ad incantarci.
Finchè trovammo una bancarella più modesta rispetto alle altre, che però aveva i migliori bracciali. Io e Ilenia ci guardammo negli occhi, sorridendo. Poi fissammo la bancarella e puntammo il dito. «Quello!» dicemmo all’unisono. Li comprammo e li legammo stretti ai polsi.
Poi ci prendemmo per mano: «Noi staremo sempre insieme. Ogni difficoltà la supereremo insieme. Se io ci sarò per te, tu ci sarai per me. Cresceremo insieme e andremo alle superiori e all’università insieme. Ovunque tu andrai, io ti seguirò» stringemmo i mignolini, giurando lealtà per sempre. Era questo il significato di quella treccina di fili.
Lei mi ringraziò. Ero stata io a comprare anche il suo. «Grazie, ti voglio bene» le dissi «Solo, non abbandonarmi mai. Me lo prometti?»
«Promesso» sorrise con quel suo sorriso splendido come al solito, e mi riempì il cuore di gioia.

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14 Gennaio 2012.
Era il mio tredicesimo compleanno. Stavamo crescendo. Eravamo già in terza media ed era strano guardare come stavamo cambiando fisicamente. Ridevamo assieme delle differenze.
Finalmente anche io iniziavo a mostrare le prime forme, seppur modeste. Ma anche in quel caso, non mi interessava più di tanto. Non ne avevo bisogno. La mia vita era sempre la stessa e lei era sempre con me.
Quel giorno, festeggiammo in pizzeria con tutte le compagne di classe. Lei mi regalò uno splendido ciondolo celeste e io mi commossi dalla gioia.
Lei condivise la mia gioia, entusiasta della sorpresa.


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Aprile 2012.
Francesca, la ragazza con cui avevo avuto delle liti quasi sanguinose al primo anno, era diventata una mia grande amica.
Quel giorno volle fare un test alle migliori amiche per eccellenza. Noi.
«Qual è il vostro dolce preferito?»
Senza guardarci negli occhi rispondemmo euforiche, insieme: «Cheesecake! Al limone!»
Francesca ci guardò sbalordita. «Cioccolata al latte semplice o con anche le nocciole?»
«Cioccolata al latte semplice, ma anche quella alle nocciole può andare» ancora una volta all’unisono.
«Qual è la persona più importante della vostra vita?» ci guardò accigliata.
«Lei» avevamo risposto insieme, indicandoci con il dito indice.
«Wow, siete davvero sincronizzate! Fate impressione. Non ci credo, siete davvero le amiche più strette e sincere che abbia mai visto. Buon per voi! Ma…andate anche in bagno alle stesse ore?» precipitammo in una risata fragorosa. Ovvio che no, ma sarebbe stato davvero assurdo il contrario.


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24 Giugno 2012. Il nostro anniversario. Primo anno insieme come migliori amiche ufficiali.
Per quanto la cosa potesse sembrare innocente, eravamo ancora piccole, non conoscevamo bene la vita e non eravamo in grado di comprenderla completamente. Però ci provavamo. Ci faceva bene fare delle opinioni o degli stupidi ragionamenti. Ci faceva bene scherzare sul mondo. Ci aiutava a capirlo.
Andammo alla festa del paese. Volevamo comprare un altro bracciale, ma erano tutti orribili. Ne scelsimo uno lo stesso. Inutile dire che non durò a lungo, ma ci avevamo provato fino ad arrenderci e ammettere che uno o due non faceva differenza.
Il numero dei bracciali non avrebbe mai lontanamente compensato il modo in cui ci volevamo bene. Era amore. Amore di un’amicizia, la più bella della nostra vita.


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6 Luglio 2012
Io stavo passando una settimana a un camposcuola organizzato dalla chiesa. Lei era rimasta a casa.
Alla fine delle medie, dopo aver superato la tensione degli esami ed esserne uscite con voti altissimi e invidiabili, iniziavamo a prendere in considerazione ciò che sarebbe stato del nostro futuro.
L’avevamo promesso. Saremmo state sempre insieme.
Eppure io non ero ancora convinta di ciò che volevo fare realmente. Venivo influenzata dagli altri e non riuscivo a concentrarmi da sola.
Così un giorno le dissi che probabilmente non sarei andata alle superiori con lei. Stavo per infrangere la nostra promessa. E ci stavo malissimo. Piansi per giorni, feci degli incubi insensati. Non immaginavo il mio futuro senza di lei. Ciò che vedevo non mi piaceva. Io non avrei affrontato nessun futuro senza di lei.
E, quando mi disse che aveva pianto giorni dopo quel messaggio, capii bene cosa volevo fare.
Non importava la professione in sé, importava cosa mi avrebbe spinto a praticarla. E io non desideravo nient’altro che condividere il mio futuro, anzi, la mia vita con lei.
Non sono gli altri a scegliere il nostro futuro, siamo noi che scegliamo noi stessi. E io ho scelto lei.


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11 Agosto 2012.

Il giorno precedente non significava niente. Non lo reputavo affatto importante. Anzi, inizialmente me ne dimenticai.
Poi, andai al parco con la mia migliore amica e lei me lo ricordò. Era il compleanno del ragazzo che più odiavo al mondo. La persona che avevo amato e a cui avevo concesso infinite possibilità. La sera del 10 finii per fargli gli auguri per messaggio e lui mi ringraziò con parole vuote.
Il giorno dopo, lo incontrai. Ero da sola e lui si scaraventò contro di me, pronto a trattarmi di nuovo come se fossi la suola delle sue scarpe.
«Sempre in giro a pensare alle stronzate? Ma fatti una vita, tu che non sei nessuno. A me non è mai importato di te. E neanche a Lei importa di te. Siete delle bimbeminkia ma passerà, fidati» mi fece l’occhiolino.
“Neanche a lei”. No, questa non gliel’avrei perdonata. Forse avrei dovuto ringraziare lei per quel giorno. Solo sentir pronunciare il suo nome contro di me o sentire cattiverie su di lei, mi donava la forza, il coraggio che non avevo mai avuto. Forse mi sarebbe cresciuto anche il seno grazie a lei, un giorno.
Alzai la testa e lo fissai negli occhi senza sbattere le palpebre. Il mio sguardo era inquietante. E nonostante tutto, lui cercava di tenermi testa, di controbattere o di rispondere nelle sue rozze maniere, ereditate -copiate- dalla televisione: «“Che minkia guaddi”?»
“Colpiscilo” mi suggeriva la vera me stessa. “Non fuggire ancora, non farti mettere i piedi in testa. Fagli capire che non ne ha il diritto”
Gli diedi un calcio, proprio lì, con tutta la forza che avevo. Lui si accasciò a terra dal dolore e continuò a fissarmi tra i singhiozzi.
«Non fare tante storie per un colpo, tanto non hai niente che possa essersi fatto male. Anzi, se ti si gonfia, dovresti ringraziarmi. Chiamala compassione» presi un forte respiro. «Te lo dico in modo che tu capisca: vaffanculo».
Poi diedi il cinque a me stessa e, da allora, divenni una persona diversa. Divenni una guerriera. Una guerriera che avrebbe protetto se stessa e colei che amava.


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17 Settembre 2012.
Primo giorno di scuola alle superiori.
Andammo insieme, un po’ incerte di dove entrare. C’eravamo fatte mettere nella stessa classe, ad ogni costo. E ora, eravamo sedute insieme, nello stesso banco. Lei alla mia destra e io alla sua sinistra.
Nessuno di noi aveva ancora infranto quella promessa, e nessuno di noi l’avrebbe mai infranta.
Con lei, era bellissimo anche andare a scuola. Il pensiero di stare in banco con lei mi rincuorava, mi permetteva di stare attenta alla lezione, di non distrarmi, non troppo. A volte ho pensato che la mia diligenza a scuola era tutta merito suo. E continuo a crederlo.
Da quel giorno, potevo essere fiera del mondo in cui vivevo. Potevo andare a scuola con lei, dopo il suo trasferimento vicino casa mia. Potevo sedermi nel banco con lei e raccontarle o esprimere tutti i pensieri o le sciocche osservazioni sui professori, sulla lezione, sulle storie che amavo scrivere e raccontare. Lei faceva lo stesso con me. Mi parlava dei suoi idoli, ascoltava me parlare dei miei.
Per quanto potesse essere una cosa stupida, condividere il banco con lei era una delle poche cose che amavo fare. Le giornate passavano in fretta e non si rivelavano affatto pesanti. E poi, ce l’avevo vicina, così vicina che essere triste non rientrava nei miei piani. Guardare il suo sorriso abbagliante, mi dava la grinta e il buon umore.
“Non c’è niente di straordinario nel sedersi insieme con qualcuno in particolare” e invece c’era. Non chiedevo nient’altro.
Fare i compiti, le verifiche con lei accanto, mi dava forza, mi faceva scrollare tutta la tensione di dosso. La paura mi passava. Sapere che qualcuno si fidava finalmente di me e riponeva in me delle speranze, condivideva con me dei sogni, mi dava coraggio, forza, volontà, mi dava tutto. Anche alle interrogazioni a cui non mi sentivo pronta, se lei mi diceva “Puoi farcela, la lezione la sai bene”, io potevo riuscirci davvero. Mi faceva sentire felice.
Ma allora la felicità è arrivata anche per me?

Guardarla, mi portava a pensare alla me stessa di qualche anno prima.La me stessa che ha cambiato. Quella bambina che piangeva in silenzio nell’angolo, senza farsi notare da nessuno. La stessa che restava in disparte e che si adattava al volere degli altri.
Quella bambina non aveva sogno alcuno, non credeva in nessuno, non voleva più riporre fiducia in nessuno, aveva paura di restare di nuovo da sola. Paura, più di chiunque altro. E ora la felicità era arrivata anche per lei e poteva finalmente alzarsi, asciugarsi le lacrime, crescere e affrontare il proprio futuro. Lo stesso futuro che prima non riusciva a immaginare.

Credevo nella mia migliore amica, più di me stessa. E le ero profondamente grata anche solo di esistere, di respirare, di ammirare il mio sorriso, di essere gioiosa alla vista di ciò che faceva una come me, una persona che agli occhi degli altri è sempre stata al di sotto dello zero, con l’autostima più bassa del mondo.
Lei c’era per me ed io per lei. E’ sempre stato così.


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23 Ottobre 2012. Il suo compleanno.
Non aveva organizzato alcuna festa. Eppure era il giorno in cui avrei stappato lo spumante che non c’era. La mia amica arrivava ai quattordici anni, e tra un po’ sarebbe toccato anche a me.
Le regalai una modesta collana con l’angelo. Quella collana aveva un profondo significato. Era la cosa che mi portò a lavare auto per giorni prima di potermela permettere. Ma io gliel’avrei regalata, e infatti fu quello che feci.
Forse lei non dava particolare significato a quel ciondolo. Ma non era importante dargliene da parte sua. Lei la portava al collo da quel giorno, sempre e in ogni momento. E mi rendeva felice.


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Estate 2013. Presente.
Guardarla portare ancora quella collana, senza averla mai tolta mi rincuorava. Anche se il nodo finiva sempre davanti, non importava quante volte succedeva, potevo girarlo e portarglielo dietro la nuca.
Il significato, per quanto potesse essere banale dal punto di vista degli altri, per me era ed è estremamente importante.
Lei non era niente meno che la persona che mi aveva salvato la vita. Si, esatto, la vita. E non esagero nell’affermarlo.
Prima di conoscerla ero vuota. Ero insicura, non conoscevo il mondo e non volevo conoscerlo. Ero chiusa in me stessa, non parlavo, non sapevo come comportarmi e facevo tutto ciò che gli altri si aspettavano che facessi, adattandomi al loro volere, ai loro desideri. Non avevo bisogno di qualcosa che mi cambiasse. Potevo crogiolarmi in quel poco, senza fare troppe cerimonie.
Mi andava bene perché non sapevo quanto potesse essere bella la vita, il mondo, il futuro che mi attendeva.
Ma quando la incontrai, quando iniziai a capirla, a parlarle, lei mi cambiò. Mi fece capire che stavo sbagliando tutto, che non ero la sola a passare dei brutti periodi e che dovevo sempre rialzarmi in piedi. Non importa quante volte sarei stata gettata a terra o infangata dai miei coetanei. Non mi interessava.
Imparai cosa fosse la lealtà e iniziai a riporla in lei. Giurai a me stessa che non sarei più stata la bambina malinconica di un tempo. Avrei sorriso anche per le cose più piccole. Per quanto minuscole, le piccole cose sono le più importanti. Sono ciò che mi rendono più felice.
Un’amica, lei, poteva donarmi tutto e tutte queste piccole cose e io l’amavo per questo.
Le sue mani e le mie, per quanto potessero essere diverse, sembravano compensarsi a vicenda. Erano apposta per me. Era destino che fosse così.
Non ha mai amato quelli che ritiene i suoi difetti, lei non ha difetti, ma io li amerò, senza fine.
Non lascerò che queste piccole cose la leghino a me per sempre, perché so che arriverà un momento in cui prenderemo strade diverse.
Abbiamo avuto anche delle incomprensioni. La maledetta adolescenza, i problemi, gli incidenti, ci avevano allontanato. O almeno, avevano provato ad allontanarci.
Ma per quanto potessimo stare lontane, ciò che provavo per lei non cambiava. Non è mai cambiato. Forse dovrei enfatizzare il mai, ripetendo Mai.
Tutto questo non era né l’inizio né la fine. Sapevo che prima o poi sarebbe successo ancora. Ma nonostante tutto, non sono triste. Perché per quanto il male possa provare a separarmi da lei e viceversa, noi ne usciremo più forti di prima e ci vorremo ancora più bene. Non importa quanti difetti abbiamo e quanti ne sono venuti e ne verranno mai fuori, o quanti atteggiamenti la vita ci strapperà da dentro. Nessuno è perfetto, ma nella mia e nella sua imperfezione, noi andiamo avanti. Forse è la nostra stessa imperfezione a tenerci unite. Forse è davvero questo.
Allora, se l’imperfezione significa avere lei accanto per sempre, nel bene e nel male, anche se magari un giorno non condividerà più lo stesso banco di scuola, io sarò forte e sarò contenta.
Amo questa imperfezione perché lei mai mi abbandonerà, mai mi lascerà indietro. Lei è la sola che non lo farà mai, in tutta la sua e la mia vita. Anche quando saremo anziane, quando avremo le nostre rispettive famiglie, ci sosterremo e ci vorremo bene da lontano, nelle nostre felicità e nei nostri dolori.
E se avessi la possibilità di essere perfetta, la rifiuterei ancora e ancora. Non ne ho bisogno. Non voglio un mondo perfetto. A me basta avere lei al mio fianco. Anche se mi calpesteranno ancora, me ne diranno di tutti i colori, mi prenderanno in giro, a me non importa. Io avrò una cosa che loro non avranno mai: lei.
Sono fiera di aver concesso di nuovo la mia lealtà e la mia fiducia verso qualcuno. Non era mai successo prima ad ora, né credevo che potesse succedere. Ma mi ha permesso di trovarla e di sentirmi al sicuro.
Se adesso sto piangendo, grondando lacrime sul pc, sulla scrivania e sui vestiti, lo sto facendo con il sorriso sulle labbra, perché su di lei potrò sempre contare.
Siamo cresciute tanto, siamo maturate, abbiamo avuto i nostri problemi dai più stupidi a quelli più seri e, di sicuro, arriverà il momento in cui ne passeremo di peggiori. Ma quei momenti, li condivideremo, ci terremo strette per mano e li prenderemo a calci, fin quando non ritroveremo ancora il sorriso.
Mi sono guardata indietro troppe volte. Ridevo, fingendo che non mi importasse. Ma non capivo niente, ero una stupida. Silenziosamente, cercavo di mentire al mio cuore e mentivo alle emozioni che volevano sopraffarmi. Mi sentivo persa perché non sapevo neanch’io cosa provavo. All’improvviso avevo paura di dire “Ti amo”, forse perché erano parole che non ero abituata a pronunciare.
Ora lo capisco. Capisco tutto questo e, a fior di labbra, urlo queste parole alle sue spalle, per quanto a volte possano rivelarsi dolorose.
Mi basta respirare sotto il suo stesso cielo, non desidero nient’altro.
Senza rendermene conto il mio amore per lei cresce sempre di più, lasciandomi piena di cicatrici.
Saranno anche cicatrici, ma lo sai che sono i punti più forti e resistenti del nostro corpo?
Anche se ci allontaneremo, anche se avrà desideri in cui io non ci sono, anche se farà male da morire, io resterò qui. Se lei assaporerà la felicità senza di me, io l’assaporerò sapendola felice.
Resterò al suo fianco, sorridendo. Anche se saremo infelici, anche se non cambierà nulla, è lei che ho scelto.
Ancora oggi, io sono sempre qui. Il mio cuore è stracolmo di lacrime.
E, per quanto possa farmi male, sono felice. Io sarò sempre dalla sua parte.
Ho un angelo sul mio fianco. Un angelo che mi protegge, che mi ha protetto e che mi proteggerà, sempre.
Quella collana che ha al collo, me lo sussurra in tono flebile, ogni volta che incrocio il suo sguardo, ogni volta che ammiro il suo sorriso. Ogni volta che mi giura amore, fedeltà, amicizia.
Lei è il mio angelo. E così sarà per sempre, perché è lei che io ho scelto. Anche se saremo infelici, anche se mi lascerà indietro un giorno, è lei che ho scelto. Ed è lei che sceglierò, per sempre.

 

A lei, Ilenia, che sarà sempre il mio angelo.
-Claudia


A voi lettori, grazie per aver letto fin qui. Vi ringrazio per aver letto questo testo che non c'entra assolutamente nulla con le storie che scrivo e pubblico. Ringrazio anche tutti coloro che hanno avuto la gentilezza di lasciare una recensione. E ringrazio coloro che avranno la cortesia di farlo. E, infine, ringrazio tutti coloro che siano riusciti a capire ciò che sento realmente. E non come scrittrice, ma come persona. Ancora grazie. ^^
-MrsGreyC

  
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