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Autore: Lory402    30/08/2013    8 recensioni
Se Lord Voldemort, quella sera, non avesse attaccato Godric’s Hollow, Harry sarebbe stato un bambino magico assolutamente normale. Sarebbe vissuto in una famiglia magica assolutamente normale, crescendo felice e anche un po’ viziato, avvezzo alla magia come qualunque altro figlio di maghi. Così, quando si sarebbe manifestata la sua prima Magia Involontaria, lui l’avrebbe capito e tutti sarebbero stati pronti a festeggiare.
Ma Voldemort ha attaccato quella notte, e Harry non è normale neanche come mago. Non è cresciuto nella normalità e non sa niente dei suoi poteri. Non è felice, tutt’altro che viziato e quando scatena un fenomeno di Magia Involontaria non se ne rende conto, perché nessuno gli ha spiegato nulla.
Forse però - solo forse - dopo andrà meglio…
- Per tutti quelli che hanno immaginato i peggiori scenari per i Dursley…
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Albus Silente, Famiglia Dursley, Harry Potter, Minerva McGranitt, Severus Piton
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Durante l'infanzia di Harry
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Era un giorno esattamente come il precedente per ogni singolo abitante del globo.

Anche per Harry.

In fondo, come poteva sapere, proprio lui, che il 31 luglio era il suo compleanno?

Nessuno gliel’aveva mai detto, e lui non aveva interesse a chiederlo.

Non gli importava poi molto: non s’illudeva che, anche essendo a conoscenza della data, avrebbe potuto festeggiare.

Così, quella mattina come tutte le altre, a una cert’ora si svegliò. Poggiò i piedi nudi sul freddo pavimento del sottoscala della casa dei suoi zii, rabbrividendo al contatto. Si alzò in piedi, traballante.

Non aveva un vero e proprio letto: un vecchio materasso ricoperto di toppe era stato buttato per terra, in un angolo, e lui ci dormiva sopra. Eppure, riassestò come meglio poteva gli stracci, che si atteggiavano a coperte, per dare una parvenza d’ordine all’angusto spazio, spoglio di ogni cosa che avrebbe potuto esserci. La lampadina che pendeva dal muro si era fulminata qualche mese prima, così cercò tentoni la vecchia cassapanca scassata - più simile a una scatola di cartone - contenente i vestiti smessi di suo cugino. Si sfilò in fretta quello che considerava un pigiama, e altrettanto velocemente infilò una maglia troppo larga per lui, che gli arrivava quasi alle ginocchia, lasciate scoperte da pantaloncini altrettanto smisurati.

Corse subito fuori dallo stanzino del sottoscala, e andò in cucina. Si sciacquò il viso sottile e pallido con l’acqua del lavandino, si asciugò, poi prese una padella, dell’olio e del bacon, e cominciò a preparare una colazione per tre.

Harry viveva in una villetta a schiera al numero 4 della monotona Privet Drive, nel Surrey. Ma quella era la casa dei suoi zii e di suo cugino, non la sua.

L’aveva capito solo qualche anno prima, quando suo zio acquisito, Vernon Dursley, l’aveva punito con la cinghia, per poi lasciarlo sanguinante nel giardinetto sul retro della casa - molto meno visibile rispetto a quello principale -, solo perché si era aiutato. Ma, all’epoca, non lo faceva mica consapevolmente!

Aveva semplicemente osservato il giardino che avrebbe dovuto tagliare, poi aveva sbuffato e… puff! L’erba era sufficientemente corta, e perfettamente pari. Aveva quasi iniziato a saltare dalla gioia, per poi bloccarsi di colpo e rischiare di piangere, vedendo Vernon che lo fissava.

Dopo allora però, non si era più ripetuto. Che lo zio lo scoprisse, s’intende.

Era un bambino taciturno, Harry, era stato costretto a diventarlo, ma sapeva osservare, e poi capire.

Gli succedevano cose strane da sempre, se n’era reso perfettamente conto, eppure non si era mai fermato a rifletterci, non abbastanza a lungo da poter anche solo pensare che una cosa del genere gli potesse essere utile.

Da quel momento ci pensò. E ancora, e ancora, finché non capì che poteva ciò che voleva. Più o meno.

Era seduto su una sedia della cucina, quel bambino strano in casa Dursley, e rifletteva. Sapeva che entrambi i suoi genitori erano morti in un incidente stradale, e che Petunia Evans in Dursley era l’unica parente che gli rimaneva; eppure, solo ogni tanto, immaginava come sarebbe stato se fosse successo il contrario, se quella notte fossero morti proprio i Dursley, come sarebbe stata migliore la sua vita. Non succedeva spesso però, e ogni volta accantonava il pensiero.

Sentendo sfrigolare l’olio, si sollevò un poco in aria, levitando, per controllare la situazione del bacon, poi spense il fuoco semplicemente guardandolo. All’inizio doveva muovere le mani, anche quando si concentrava forte forte, ma, com’era ovvio, più si allenava, più diventava facile per lui, e ora bastava davvero poco. Fece volare la padella fino al tavolo, e, tenendola sollevata con la forza del pensiero, recuperò tre piatti e tre bicchieri dagli armadi, ancora restando seduto sulla stessa sedia di quella cucina. Apparecchiò, distribuì il cibo nei piatti, e se ne uscì di casa. Aveva avvertito dei rumori provenire dal piano superiore: presto la famiglia si sarebbe alzata, di umore migliore se nessuno l’avesse visto.

Si diresse in quel parchetto vicino casa, ovviamente vuoto a un’ora simile. In realtà non sapeva che ora potesse essere, ma non gli importava. Si arrampicò sul cancelletto in ferro che separava il grande rettangolo d’erba dal marciapiede, e, senza soffermarsi troppo sugli alberi dalle chiome verde splendente, saltò giù e si diresse verso le altalene. Con un piccolo balzo montò su quella a destra. Provò per un po’ a spingersi con le gambe, ma non arrivava mai abbastanza in alto, così dopo poco smise. Sbatté le palpebre, e il vento lo accarezzò, come la mano gentile della ragazza dai capelli rossi che ogni tanto sognava. Poi chiuse ancora gli occhi color smeraldo, brillanti, non scuri come le foglie che gli vorticarono attorno, mentre il vento si alzava sempre più forte, solo nel punto in cui si trovava lui. L’altalena cominciò a cigolare leggermente, mentre, con una lentezza estrema, innaturale, cullato dal vento che lui stesso aveva aizzato, andava su e giù, perdendosi con lo sguardo nel cielo sconfinato, di un azzurro così limpido che quasi faceva male.

 

Sarebbe tornato a casa dopo ancora qualche minuto di aria fresca, decise, quando ormai il sole che gli colpiva le palpebre abbassate era alto e luminoso nel cielo terso.

Harry stava bellamente steso supino fra l’erbetta fresca, in un angolo in ombra del parco giochi su Magnolia Road. I raggi aurei del sole nel pieno del suo splendore, comunque, riuscivano a raggiungerlo.

Era un bambino minuto per la sua età, tanto da sembrare di qualche anno più piccolo. Aveva la pelle molto chiara, di un bianco quasi malato, ed era stato picchiato tante di quelle volte da suo cugino Dudley, grande quattro volte lui, che le ferite e i lividi ci mettevano sempre più tempo a cicatrizzarsi o scomparire; per questo si ritrovava pieno di pesti e tagli nuovi prima che quelli vecchi fossero guariti. Eppure, nonostante le sue condizioni non lo lasciassero facilmente intuire, riusciva a scappare da Dudley più spesso di quanto l’altro lo prendesse. Poteva non sembrare, ma era un gran velocista, forse per merito di tutto l’allenamento involontario cui si era sottoposto, scappando da Dudley e dal suo amichetto Piers.

La sensazione che fosse troppo gracile era acuita dalla malnutrizione cui gli zii lo sottoponevano, in netto contrasto con l’abbondanza riservata al cugino. Solo pochi mesi li distanziavano, in età, ma l’altro era molto più che viziato, e se chiedeva qualcosa, quella era; non importava di che natura fosse, se cibo, giochi o giornate in posti speciali. Il piccolo di casa, Duddino carissimo, meritava questo e altro. Harry… più si riusciva a fingere che non esistesse, meglio era per tutti; tristemente, anche per il diretto interessato.

In completo contrasto col pallore della pelle, i suoi capelli erano corvini. Lunghi abbastanza da incorniciargli il viso, sparati in tutte le direzioni e indomabili, ma morbidi al tatto.

Non si poteva dire che il bambino avesse un aspetto ordinario, ma questa sua straordinarietà era senza dubbio acuita dal suo marchio. Era l’unica cosa che gli piaceva di tutto il suo corpo: una sottile cicatrice bianca, a forma di saetta, che gli attraversava verticalmente la fronte. Se l’era procurata in quel famoso incidente: un frammento di vetro si era staccato dal parabrezza ormai infranto e gli aveva inciso la pelle in quel modo bizzarro.

Immerso in questi ricordi, Harry si portò una mano alla fronte, se la sfregò, e poi passò leggero l’indice a rimarcare fedelmente la linea chiara, colmo di rispetto, reverenza quasi, nei confronti di quello sfregio. Osservando, poi, le proprie mani, ridacchiò vagamente a ricordare i primi tentativi di piegare la natura al suo volere. Lo faceva sentire importante pensarla così, lo faceva sentire superiore.

Muoveva a caso le mani, o gridava il suo desiderio, sperando, semplicemente, che qualcosa accadesse. Ci era voluto del tempo prima di realizzare che doveva volere quella determinata cosa con tutto se stesso, doveva metterci convinzione, e crederci.

Il suo primo tentativo riuscito fu quando Piers si ritrovò sulla cima di un albero. Pianse fin quando non arrivarono i soccorsi e nei giorni a seguire ci pensò due volte prima di insultarlo.

In quel momento si era sentito potente, aveva avvertito come tante bollicine percorrergli le membra, e le aveva rilasciate. Comunque, aveva subito capito che non poteva sfruttare eccessivamente questo particolare talento, e che, quello che la natura gli aveva concesso, era un dono, e come tale andava custodito. Non era lui ad imporre il suo volere sopra le creature e gli elementi, era in un certo senso la Terra stessa ad avergli permesso di nascere speciale, e quindi, essa meritava rispetto.

Ovviamente, nulla di tutto questo sarebbe mai uscito dai confini della sua fantasiosa mente bambina.

Con uno slancio si mise seduto e poi in piedi in un sol colpo, rivolse un dolce sguardo alle chiome degli alberi, scosse dal vento piacevole di quella mattina, poi si avviò per raggiungere casa Dursley. Percorse Magnolia Road con l’indice e il medio ficcati nell’elastico dei pantaloni, non aveva le tasche; svoltò in Magnolia Crescent lasciando ciondolare le braccia parallele al corpo, poi raggiunse Privet Drive con le spalle un po’ incurvate e le mani ferme vicino ai fianchi. Nel giardinetto frontale del numero 4, un ragazzetto di otto anni, basso e sovrappeso, tirava con forza una palla ad un amico.

Piers era un bambino dal fisico secco, tutto pelle e ossa, con i capelli di un castano scuro e spento. Di solito, quando Piers Polkiss ti si avvicinava, stavi per essere picchiato da Dudley.

Il bambino biondo e grasso fece un cenno col grosso testone in direzione di Harry, e l’altro si voltò.

“Harry! Cosa vuoi come regalo di compleanno?” Dudley lanciò con forza la palla quasi sgonfia contro il moretto, che la schivò all’ultimo. “La mamma ha detto che gli strambi come lui non meritano regali, Piers” Rispose il cugino al suo posto. Harry li guardò confuso, possibile che fosse…?

“Già, noi non festeggiamo la nascita di un mostro!” Ribatté l’amico, poi ridacchiando corsero verso la porta di casa e si chiusero dentro.

Harry, sebbene in un modo a dir poco assurdo, aveva appena scoperto la data del suo compleanno. ‘31 luglio’, si appuntò mentalmente.

Fece qualche passo avanti, fino a lasciarsi alle spalle il cancelletto che delimitava il giardino dei Dursley; proprio in quel momento la porta si spalancò.

“Oddio, non stare fermo lì fuori! Se ti vedessero, chissà cosa penserebbero i vicini!” Detto questo con uno stridulo urletto, Petunia lo afferrò saldamente per un braccio e lo strattonò all’interno dell’abitazione, per poi chiudersi la porta alle spalle con un potente tonfo.

“Non voglio sapere dove vai quando non sei qui, ma la prossima volta trattieniti più a lungo! …Ormai però è tardi, fila nello sgabuzzino prima che Vernon torni!” intimò, spingendolo verso una piccola porta bianca, quasi invisibile, nella parete del sottoscala. Harry ci s’infilò senza storie e si sedette sul ‘letto’.

Pensò che probabilmente i Dursley avessero già pranzato, visto che Piers era lì: di solito veniva per merenda. Mentre si lasciava strattonare dall’ingresso fino al suo stanzino, aveva gettato uno sguardo in cucina, era quasi certo che Petunia avesse preparato dei pasticcini, o qualcosa del genere, per lo spuntino del pomeriggio: aveva scorto Dudley osservare con la bava alla bocca un qualcosa posto su un vassoio.

Sospirando si stese sulla branda - per così definirla - e fece in modo che l’aria nel suo ripostiglio formasse dei piccoli tornadi ben visibili davanti a lui, tanto per divertimento. In pratica, muoveva la polvere.

Se stava ben attento, e calcolava giustamente i tempi, forse avrebbe potuto fregare un dolcetto senza danni o ripercussioni. Contento, crogiolandosi nel pensiero di questa piccola conquista futura, il tempo per Harry passò in fretta.

Sentì, attraverso il sottile legno della porticina, Vernon Dursley entrare in casa sbattendo poi la porta; avvertì i suoi passi pesanti e lo immaginò sedersi in sala, davanti alla TV, mentre Piers e Dudley lo salutavano. Poté perfettamente figurarsi Petunia che trasportava il vassoio pieno di leccornie fino al divano, ne offriva a tutti e poi si ritirava in cucina con gli avanzi.

Non dovette aspettare quanto aveva creduto perché Piers si congedasse dai Dursley, insieme alla madre appena arrivata.

Quando udì i tacchetti di Petunia battere ritmicamente sul pavimento, fino a dove era sicuro ci fosse il sofà, fu certo che tutta la famiglia fosse davanti alla televisione, allora decretò il via libera.

Si concentrò più che poté, quella volta era più complicato perché aveva solo una vaga idea di cosa il vassoio contenesse. Strinse gli occhi fino a farsi venire male alla testa, ma, quando li riaprì, seppe di esserci riuscito.

Un muffin decorato con gli zuccherini colorati levitò, perfettamente fermo davanti a lui, ancora qualche istante, prima di cadergli fra le mani. Sorrise, molto soddisfatto.

Una minuscola fiammella si accese sopra il dolcetto, ad imitare una candela, e, dato che ormai era fatta, canticchiò piano “tanti auguri a me”, per provare a se stesso che il fatto di essere nato doveva valere qualcosa.

Creò altri sette fuocherelli e li dispose a cerchio davanti a lui e fece levitare il muffin verso la sua bocca spalancata, tenendo le mani in grembo. Poi, sotto i suoi piedi, la terra tremò.

Ecco una cosa che non aveva considerato.

Vernon Dursley aveva spalancato con prepotenza la porta del suo sgabuzzino, proprio mentre si apprestava a masticare il primo, sublime boccone della sua conquista, cogliendolo in flagrante. Subito il fuoco si spense e il dolcetto si spiaccicò a terra. Purtroppo era già troppo tardi.

Vernon, andato a chiamarlo per chissà quale ragione, rimase qualche secondo immobile come una statua, scioccato. Ci mise poco, però, ad adottare quella tipica tonalità purpurea che presagiva solo guai, e con uno scatto fulmineo afferrò Harry al braccio, stringendo e strattonando, costringendolo a sputare il muffin.

Il bambino si ritrovò in salotto, davanti allo sguardo stralunato del resto della famiglia, senza quasi toccare terra. Poi Vernon cominciò a sbraitargli contro.

“TU! Stupido, insignificante ragazzino cattivo! Che stavi facendo, eh? Eh? Ti diverti, vero?! Tu e le tue stranezze!” Respirò pesantemente, una vena bluastra che pulsava pericolosamente sulla sua fronte. “In orfanotrofio! In un orfanotrofio dovevi finire! Perché a noi?, mi chiedo! Petunia!, tu lo sai? Sai per quale maledetto motivo è capitato a noi tra capo e collo ‘sto disgraziato?!” E l’uomo urlava, e la sua faccia si faceva sempre più violacea, e sembrava gonfiarsi. Dudley lo guardava, riusciva a sembrare disgustato dal cugino e divertito dalla situazione allo stesso tempo, ogni tanto gli ringhiava contro. Harry registrava vagamente alcuni dettagli del monologo furente di Vernon, mentre veniva strattonato per il colletto, avanti e indietro, troppo forte. Petunia lo guardava malevola e scuoteva la testa come se non concepisse l’esistere di una creatura tanto ripugnante. Però, mentre stringeva le dita sui polsi di Vernon, che non aveva intenzione di lasciarlo, Harry avvertì qualcosa di strano, come un’interferenza radio, o il ronzio di qualche insetto, nel cervello. Strizzò forte entrambi gli occhi, anche lui cominciava ad assumere un colorito rossastro. Digrignò i denti quando il ronzio divenne acuto e continuo, sempre più fastidioso.

“Tu sei nato sbagliato! Dovevi morire con quegli animali dei tuoi genitori! Anche loro erano strani, proprio come te! E hanno avuto quel che meritavano! Nessuno della tua razza dovrebbe sopravvivere! Non voglio che tu faccia mai più cose del genere nella mia casa! O ti sbatto fuori una buona volta! La strada è il luogo dove i cani come te dovrebbero stare!”

Lo strano stridio nella mente di Harry si fece ancora più prepotente, e fu come se lo dilaniasse dall’interno. Tese i muscoli sempre di più.

“I tuoi genitori erano mostri! È colpa loro! È tutta colpa loro se tu sei qui ad infettare la nostra vita! Quegli esseri non meritavano niente! Niente! Tanto meno venire al mondo!”

Scoppiò.

Quel grido che fino ad allora era confinato nella mente di Harry, a quel punto, scoppiò. E lui diede fondo a tutte le sue energie, strillando fino a raschiarsi la gola.

Uno straziante urlo di pura agonia proruppe dalle sue labbra, e non poté rendersi conto di tutti e tre i Dursley che furono scaraventati a lati diversi della stanza, non fece in tempo a capire che del sangue improvvisamente lo ricopriva quasi interamente, no, perché il piccolo Harry… svenne.

 

Amelia Susan Bones lavorava all’Ufficio per la Ragionevole Restrizione delle Arti Magiche fra i Minorenni da anni ormai, sinceramente, sperava di essere promossa Direttore dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia nel più breve tempo possibile.

Non era un compito né difficile né preciso, il suo: nei casi più eclatanti di Nati Babbani che compivano Magia Involontaria, provvedeva a mobilitare una squadra di Obliviatori. Tutti i giovani dal primo anno di scuola alla maggior’età erano invece sotto la giurisdizione dell’Ufficio per l’Uso Improprio delle Arti Magiche.

Qualche giorno prima, comunque, le era stato reso noto un singolare aumento di attività magica nel quartiere di Little Whinging, nel Surrey.

Tutto era cominciato pochi anni prima, con una piccola Magia Involontaria che lei non avrebbe neppure notato, se non fosse stato che, in quel luogo, l’unico mago residente era il famoso Harry Potter. Comunque non se n’era preoccupata affatto, un po’ di curiosità da parte sua c’era stata, questo sì, ma l’unico ad aver assistito era stato il tutore, quindi aveva presto lasciato perdere. C’erano stati solo altri due casi da quelle parti: una smaterializzazione involontaria e la ricrescita di qualche ciuffo di capelli, aveva lasciato correre come spesso si fa per ogni piccolo mago.

Degli strani sospetti però, le erano sopraggiunti alla mente conversando con la sua collega Mafalda Hopkirk - una novellina piuttosto diligente - che qualche giorno prima le aveva confidato che nel Little Whinging succedevano fatti quanto mai bizzarri. Teoria che era diventata certezza dopo un confronto fra le due. Era stata proprio lei, infatti, a dirle chiaramente che dalle parti del Bambino Che È Sopravvissuto capitavano cose che non comprendeva. Alcuni episodi venivano registrati come se un minorenne compisse effettivamente magie, non involontarie, ma le stesse che avrebbe potuto lasciarsi scappare uno studentello. Ciò lasciava alquanto confusa la povera Mafalda: lei sapeva che il piccolo Potter doveva avere appena sette anni e un po’. Per questo aveva sbirciato, in buona fede, le pratiche del suo predecessore, scoprendo che tutto era cominciato, guarda caso, nello stesso periodo durante il quale la collega aveva stimato esserci stata l’ultima Magia Involontaria del piccolo salvatore del Mondo Magico.

Nessuna delle due aveva purtroppo idea di come comportarsi, per questo decisero semplicemente di osservare con un po’ più di attenzione la sua residenza, e così fecero.

Fu lunedì 1 Agosto 1988, che successe ciò che serviva per smuovere le cose.

La mattina, Amelia entrò in ufficio assolutamente rilassata, una tazzina di tea verde alla mano, salutò tutti i colleghi e si diresse sicura e sorridente alla sua postazione. Non poteva certo immaginare l’incredibile scoppio di Magia Involontaria avvenuto la domenica appena trascorsa, ma - perdinci! - era il suo giorno libero, che avrebbe dovuto fare?

Subito si documentò: apprendere che ‘un certo qualcosa’ era avvenuto proprio nell’altrimenti calma e monotona Privet Drive, e che questo qualcosa comportava livelli di magia impensabili per un bambino - Purosangue, e quindi approcciato alla magia, o Nato Babbano che fosse -, bastò a farle passare in fretta il buon umore.

Subito informò il Capo Reparto, che in principio pensò di mobilitare gli Obliviatori, salvo poi scoprire che gli unici testimoni erano gli educatori del giovane. A quel punto l’uomo non seppe proprio cosa dire, insomma, uno scoppio piuttosto forte di magia, e allora? Magari era saltato l’impianto del gas! Che c’era d’irreparabile?

Ci volle tutto il pomeriggio, la cocciutaggine congiunta di Amelia e Mafalda e la ripetizione a intervalli regolari del nome Harry Potter, perché il Gran Capo dell’Ufficio, infine, si facesse persuadere.

La sera stessa, un minuscolo gufetto atterrò sulla scrivania del Ministro della Magia, tale Cornelius Fudge, il mittente, nella missiva correlata al pennuto, dichiarava velatamente di ritenersi invitato ad un colloquio privato nelle ore seguenti, per discutere un fatto piuttosto impellente.

Così, dopo aver supervisionato il cambio della guardia per il suo ufficio, quando era ormai passata la mezzanotte, il Capo Reparto si presentò davanti alla porta del signor Ministro, bussò ed entrò.

Cornelius lo accolse confuso, ed anche un po’ irritato dall’essere stato così improvvisamente costretto a tale incontro. Ascoltate le motivazioni del suo interlocutore, la sorpresa fu l’unica emozione che l’uomo si rese conto di poter provare, condita da una punta di sconcerto.

“Sì, ma… beh… Era solo Magia Involontaria…” masticò, balbettando in un sussurro queste parole.

“Ma potente” rese presente il Direttore. Negli occhi di Fudge si fece strada un luccichio sicuro.

“Domani, sì… Domani consulterò Albus a riguardo!” L’ospite dell’ufficio sospirò.

“Questa mattina, vorrà dire” asserì pacato. Il Ministro diede un fugace sguardo all’orologio sulla scrivania.

“Ovviamente” replicò.

La mattina dopo alcuni futuri Auror sotto esame furono mobilitati unicamente per raggiungere Hogwarts e condurre Albus Dumbledore alla sede del Ministero della Magia. Cornelius avrebbe anche fatto diversamente, ma il suo camino si era guastato.

Purtroppo, i due giovani tornarono a mani vuote, se non per un messaggio della Vicepreside della scuola, Minerva McGonagall, che riferiva chiaramente l’impossibilità di Albus a risolvere il qualsivoglia problema che di certo ‘l’illustro Ministro’ (così era definito) aveva, prima del giorno successivo, in quanto sarebbe stato impegnato, fuori dal Regno Unito, fino a sera.

Fudge si rabbuiò. Non aveva intenzione di prendere decisioni strettamente riguardanti il Bambino Sopravvissuto senza consultare il Preside, sapeva quanto Albus teneva al ragazzo.

Per questo si aspettò fino a sera, e gli stessi ragazzi furono mandati nuovamente a Hogwarts.

Albus salutò allegramente Minerva e, scortato dai due baldi giovani, lasciò la Scuola di Magia e Stregoneria quando da poco il suo orologio a pendolo aveva battuto le undici.

Il Ministro e il Preside discussero fino a tarda notte, coinvolgendo e consultando anche il Direttore e Amelia, che parlò di Mafalda, tirando dentro anche lei. La frase più ripetuta fu senza dubbio ‘ma è Harry Potter!’. Albus si fermò a dormire al Ministero, tornando a Hogwarts, la mattina dopo, solo per reclutare due insegnanti di fiducia e raggiungere con loro il quartiere di Little Whinging.

Nonostante avesse passato gran parte della nottata ad analizzare le scoperte di Amelia e Mafalda, si ritrovava ancora piuttosto confuso.

Davanti al numero 4 di Privet Drive scambiò uno sguardo d’intesa con la professoressa McGonagall e il professor Severus Snape, poi bussò. Nessuno rispose. Lanciò un debole Alohomora alla serratura, ma essa fece, sorprendentemente, resistenza, così ripiegò su un blando Bombarda nella sua forma più innocua. La porta si spalancò.

Harry era inginocchiato sul tappeto del salotto, guardava il vuoto dritto avanti a sé. Un odore nauseabondo lo circondava. I corpi dei suoi familiari giacevano scompostamente sul pavimento in finto legno, riversi a terra, immobili, privi di respiro e vita. Una sostanza rosso sporco ricopriva ogni cosa, anche Harry. Il sangue rappreso si era ormai incrostato sul tappeto e sulle vesti dell’intera famiglia.

Quando i tre maghi varcarono la soglia, fu questa l’immagine che si presentò loro davanti.

Harry li scorse. I vuoti occhi, prima brillanti, ora verde cupo, si mossero nella loro direzione.

“Ciao! Siete ospiti?” domandò con voce d’infante “Scusate il disordine.” Volse la testa verso i Dursley, con un gesto della sua mano il sangue si dissolse, i corpi furono costretti in posizioni più composte e lindi lenzuoli celarono i tre cadaveri.

“Desiderate da bere o da mangiare?” l’interpellò ancora, con il candore dei puri nel tono. “I miei zii non avrebbero voluto che degli ospiti non fossero bene accolti in casa loro. A meno che voi non siate degli ‘strani’, ovvio”

“T-tu… Tu sei… Ha-” inghiottì a vuoto “Harry James Potter?” volle appurare Minerva, con voce strozzata.

“Sì. Ma perché v’interessa? A nessuno interessa di me.” chiarificò il bambino, tranquillo.

A quelle parole, Minerva singhiozzò, lasciandosi crollare in ginocchio, con un’espressione colma di raccapriccio impressa in volto.

“Cos’abbiamo fatto… Cosa?” esalò straziata.

Il professor Snape guardò il bambino, unico punto della casa ancora coperto di sangue. Abbandonata, per la prima volta da anni, la sua maschera d’indifferente freddezza, l’unica emozione palese in viso era lo sconvolgimento.

Dumbledore però, con solo gli occhi azzurri sgranati, era il più costernato.

“Non è così, Harry, non è mai stato così.” Pronunciate in un soffio queste parole traboccanti di colpa, con un gesto leggero della mano, Albus condusse il piccolo Harry Potter in una qualche dimensione onirica, il bambino vi si abbandonò.

 

 

[Tutto il discorso sulla magia derivante dalla terra (che fa molto più ‘druido’ che Potteriano) maturato dopo una conversazione with my mother su quanto la magia sia peccaminosa, in quanto il semplice essere umano ha l’ardire di imporsi sulla natura stessa]

Questa è la prima storia che ho scritto su Harry Potter, per ora la mia preferita. Sto progettando un seguito, ma ci vorrà moooolto tempo, per ora, per favore, recensite! Fatemi sapere il vostro parere, è davvero importante per me ^^

- Lory

  
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