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Autore: Ceci Princessofbooks    02/09/2013    1 recensioni
Cosa ha provato Carlisle quando ha preso la decisione di trasformare Edward? Questa breve one shot tenta di rispondere a questa domanda. A tutti i medici e le infermiere del mondo, che hanno dichiarato guerra alla paura.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Salve a tutti! Il mio lavoretto è un'interpretazione del toccante discorso del nostro padre vampiro a Bella all'inizio di “New Moon”, quando racconta del momento in cui ha deciso di salvare Edward. Amo le storie sui medici e i loro pensieri, quindi non ho potuto resistere alla tentazione.

Dedico questo piccolo pezzo a tutti coloro che si dedicano alla difficile scienza della medicina, e che, come Carlisle, tentano di arginare il buio del dolore.


Non aver paura


Illimiti, limpidi getti d'amore caldo ed enorme, tremula gelatina

d'amore, succo di delirio, che bianco fiorisci.

Walt Whitman, “Canto il corpo elettrico”


Carlisle sapeva che la sua vocazione era guarire le persone.

Lo sentiva nelle ossa, inscritto nel profondo del sangue: lo sentiva da quando era un bambino, e curava i passerotti feriti nel cortile dietro la sua casa. A quel tempo, infiniti tramonti prima, nulla gli dava più piacere che raggomitolarsi sulla sedia di legno scuro della bottega di suo padre, e osservarlo mentre dosava la polvere di verbena, applicava impacchi e unguenti, rassicurava le madri ansiose di figli dalle ginocchia sbucciate. Amava l'odore di foglie secche e sieri, l'espressione sicura e solida sulla belle fronte di Arthur, la semplice riconoscenza di chi veniva guarito. Soprattutto, amava il fato che, con suo padre, la gente non aveva più paura. E aveva capito, in quei momenti, che nulla gli sarebbe mai sembrato così giusto e importante e luminoso che arginare un poco il dolore del mondo, e calarsi nel fango per strapparne altri uomini. Nulla sarebbe stato per lui più dolce e vero del tenere a bada la paura che stringe il mondo.

Quando si era trasformato, la sua vita di giovane chirurgo si era ridotta a una tempesta di frammenti scintillanti, era stato solo questo a dare un senso alla spaventosa eternità di fronte a lui: la possibilità di donare le sue mani e la sua mente non solo ad altri, ma ad altre generazioni. La sua forza era uno scudo in più contro la sofferenza; i suoi sensi più acuti altri strumenti per lottare contro la morte. E, se possibile, una volta che non ne fece più parte, amò ancora di più l'umanità, e gli parve ancora più straordinaria e fragile e ingarbugliata; con tutti i suoi difetti, le sue incertezze, la sua fierezza. La sua paura, paura del buio e del vuoto, del freddo e della fine del sentiero. La paura a cui lui aveva dichiarato guerra tanti anni prima.

Era per questo che secoli dopo, dopo che regni erano caduti e foreste si erano dissolte, si trovava ancora una volta nel corridoio troppo caldo e affollato di un ospedale, combattendo contro le mani nere e avide della paura. Gli pareva quasi di vederla, annidata negli angoli, raccolta e turbinante negli occhi spiritati dei moribondi, nelle grida dei bambini, nei gesti frenetici di coloro che non si arrendevano alla morte; era un sapore amaro contro la lingua, una vibrazione dell'aria, che rideva di lui e dei suoi tentativi. E che sussurrava i suoi segreti anche a Carlisle, chiedendogli di cedere, soffocandolo di polvere e cose spezzate. La paura ammantava tutto, impregnava tutti.

Ma la donna non aveva paura.

Nonostante il dolore e la malattia che la divorava, le sue labbra erano serrate, severe. Doveva essere stata molto bella, prima del contagio: onde di ciocche color grano, tratti fini, una bocca rossa e sensuale. Ora tutto era sbiadito, come un dagherrotipo slavato: i capelli erano sottili e sfibrati, il colorito giallastro, l'espressione contratta; aveva l'odore pungente delle sofferenze e delle lacrime non versate. Eppure, i suoi occhi rimanevano. Occhi grandi, frangiati da lussureggianti ciglia scure, di un verde fitto di luci ed ombre come una foresta profonda. E altrettanto colmi di vita, di una vita selvaggia e arcaica che non si sarebbe spenta fino all'ultimo respiro. Quello sguardo avrebbe potuto piegare il cielo, squarciare la terra; non sembrava che qualcosa di così inodore e così spento come la morte potesse sconfiggerlo.

Ed ora era puntato su Carlisle.

-Salva mio figlio- la voce della donna era forte, forte come una quercia, forte come la bella nota sicura di un violoncello -salva mio figlio, a qualsiasi costo.-

-Signora, io farò il possibile...- rispose, incerto, mentre la paura premeva appena al di là della vista.

Lo sguardo verde lo investì, penetrando nelle vene, frugando incavi dell'anima che aveva quasi dimenticato di avere.-Non il possibile. Devi salvarlo. Tu puoi farlo, lo so.-

-Io...io lo farò. Va bene. Va bene.-

La donna annuì, solo una volta; poi giacque immobile,ebbe un sussulto, e gli occhi verdi diventarono pallidi e vuoti come vecchi gioielli.

Carlisle le chiuse le palpebre, sfiorando la fronte alta e bianca, tentando di trattenere le lacrime che gli pungevano lo sguardo. Ma aveva ancora una promessa. La promessa di un medico, di un uomo, di un alleato nel duello con la paura.

Carlisle si voltò, avviandosi a poca distanza, verso la fine del corridoio. In un letto d'angolo, c'era il ragazzo più bello che avesse mai visto: capelli di bronzo, tratti nitidi e armoniosi, la stessa bocca scarlatta, da baciare, della donna cui aveva appena chiuso gli occhi. Suo figlio.

Le ombre della paura turbinavano, ridendo.

Si avvicinò: il giovane aveva la fronte aggrottata, gemeva, si agitava, come tentando di districarsi dalle acque fetide di una palude. Carlisle gli sfiorò il viso con una mano fredda, e quel gesto sembrò allontanare un poco le tenebre.

Gli occhi del ragazzo, di un nocciola dai riflessi di muschio, lo fissarono con la stessa forza disperata e luminosa di quella della donna. Quello sguardo gli pungeva il cuore, e bruciava di rabbia e di bontà e di coraggio. E di paura.

La mano del giovane uomo si sollevò, tremando di febbre, e gli strinse il polso. Carlisle smise di respirare. Si sentiva sul ciglio di un baratro, in equilibrio sulla notte e sul nulla argenteo. Lui poteva scacciare quella paura, lo sapeva. Lui poteva dare a quel ragazzo un potere che l'avrebbe preservato dalle ombre, per sempre.

Ma che ne avrebbe chiamate altre, più oscure.

Carlisle rimase immobile, oscillando sull'orlo del vuoto.

Poi, il ragazzo disse l'unica cosa che avrebbe potuto fargli muovere quel passo.

-Io...- sussurrò -...io ho paura.-

Il medico chiuse gli occhi, perché ormai era stato vinto, perché ormai doveva gettarsi. Ricordo quel giorno di tanti secoli prima, quando aveva dichiarato guerra alla paura, quando aveva messo al servizio di quella missione tutta la sua forza, tutta la sua intelligenza, tutta la sua anima. Che diritto aveva di rinunciare ad una delle armi che gli erano state date per combattere? Con il suo dono, con la sua maledizione, quel ragazzo avrebbe potuto ancora camminare, guardare, capire, ridere. E soprattutto, le tenebre si sarebbe ritirate, almeno un poco, almeno una volta.

Se il mio sarà un peccato, pensò, sarà solo un peccato d'amore.

Carlisle prese la sua decisione. Prima di potersene pentire, prima di poter temere il baratro, portò via la madre e il ragazzo, fino all'obitorio al di là della grande sala densa di grida e sangue. Poi lo sollevò tra le braccia, leggero come una bambola; il giovane si rannicchiò contro di lui, stringendo i lembi del camice, forse per un sogno, forse per ancorarsi alla vita. Carlisle mise un piede sul davanzale della finestra, i tetti che si distendevano di fronte a lui nel bagliore azzurrato dell'alba.

Non ve lo lascerò.

Con un salto silenzioso, volò nell'aria di brina, e fu lontano.

Non ve lo lascerò, ombre.

   
 
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