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Autore: _Breath    03/09/2013    1 recensioni
Judith Roberts non sa più cos'è l'amore; ha amato una sola volta nella sua vita e lo ha fatto completamente. Poi Thomas se ne è andato, e con lui anche tutti i buoni propositi di tornare ad essere felice.
Jude adesso ha un nuovo compagno, una nuova vita, eppure sa che la sua vita non tornerà più ad essere quella di un tempo.
Matthew è il suo nuovo ragazzo e si è irrimediabilmente innamorato di lei, del suo sorriso cortese e dei suoi occhi velati di una tristezza palpabile e misteriosa. Eppure è consapevole che il cuore della ragazza non potrà mai essere suo, perché lei glielo ha confessato dopo una lunga notte di passione.
"Io non ti amo, Matty, e mai ti potrò amare. Io sono di Thomas, come lui era mio."
Ian è il fratello minore di Matt, la pecora nera della famiglia Keating. Non crede nell'amore, perchè per lui amore e sesso sono solo sinonimi da usare in occasioni differenti, in modo opportuno. Odia il fratello, e Matt odia lui.
Eppure le loro tre vite, così distanti e diverse, sono destinate a intrecciarsi. A fondersi affinché si migliorino.
Perché amare non è impossibile. Forse, solo un po' difficile.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Carissima Jude, non odiarmi. 
Non odiarmi per averti lasciata sola, perché se leggerai questa lettera a nulla potranno più valere le mie preghiere, i miei voti di riconoscenza al Signore e la mia redenzione.
In quel caso, solo in quel caso, Lui avrà già scelto per me e noi, tesoro mio, dobbiamo solo accettarlo.
Quindi non odiarmi, mia amata, perché è così che la vita doveva andare. 
Questo era il mio destino. E anche il nostro.
Ti ho amata, solo Dio sa quanto ti ho amata! 
Tu non lo sai, Jude, ma tante volte mi svegliavo nel cuore della notte solo per guardarti. E per amarti, ma con lo sguardo.
Il mio non era un amore fisico, puramente passionale come quello di molti uomini verso la propria donna. Il mio non era neppure un amore unicamente sentimentale, emotivo.
Il nostro, mia amata, era il vero amore: un amore passionale e carnale, stupefacente per quanto intenso. 
Il nostro era un amore vivo, come il fuoco più ardente presente sulla terra.
Il nostro era un amore fatto di sguardi, risate, liti e poi nuovi sguardi fugaci. Abbiamo fatto tante volte l'amore, solo guardandoci. 
Amavo la consistenza della tua mano tra la mia, le tue dita piccole ed affusolate che giocavano con il mio palmo aperto e ruvido. Amavo il tuo sorriso come si pià amare solo una volta nella vita, e tu per me sei stata quell'unica esperienza. 
Non mi pento di nulla, amore mio.
Non mi pento di nessun istante passato con te, sul divano a guardare vecchi film strappalacrime per farti felice, perché ogni qual volte che ti guardavo sorridente e spensierata io ero contento di riflesso. Io ero il tuo riflesso come tu sei stato il mio.
E ti ho amato.
E ti amo anche adesso.
E ti amerò tra cinquant'anni, quando tu sarai ormai vecchia e io sarò morto già da cinque decenni, ormai. 
Ma io ti amerò, che tu possa avere vent'anni come oggi o cinquantacinque come un prossimo avvenire.
O settanta.
O cento.
O mille.
Io ti amerò sempre, Jude, perché per me resterai sempre la stessa bellissima donna che si è appoggiata al mio petto e mi ha sorriso riconoscente.
Perché per me resterai sempre quella donna che mi ha rubato il cuore e poi me lo ha ridato, più bello e luminoso di prima.
Perché la mia tomba sarà il nostro giaciglio, quando passarai di lì e guardando la mia foto muta faremo di nuovo l'amore insieme. Un amore lirico che solo noi capiremo, perché unicamente nostro.
E ti amerò anche quando avrai figli da un altro.
Quando insieme terminerete la vostra vita e verrete da me, sorridenti e abbracciati. 
Io non sarò geloso, perché ti ho amato e ti amerò, e ti lascerò andare. 
Perché ti amo anche oggi. E ti chiedo solo una cosa cosa, amore mio, non privarmi dei ricordi che ho di te, che saranno tesoro di ogni mio ultimo respiro. Non privarmi del ricordo della tua pelle sopra la mia, delle tue labbra contro le mie. Sii il mio più grande sogno, forse l'ultimo.
Carissima Jude, non odiarmi per questo.
Thomas. 





Judith Roberts strinse la sua maglietta preferita forte al petto, aspirando l'odore di vecchio bagnoschiuma che non era in grado neppure di identificare.
Sorrise, le labbra incurvate in un sorriso malinconico ma vero.
Era ancora in grado di sorridere, Judith. 
Nessuno le avrebbe mai tolto il sorriso, se lo era sempre ripetuto, e neppure la morte di Thomas era riusciuta a distruggerla totalmente.
L'aveva scalfita, l'aveva cambiata, ma l'aveva superata.
Erano passati ormai quattro anni e Judith era riuscita a capire come fare per convivere con quella terribile perdita che, nei primi mesi, l'aveva toltamente sconvolta.
Per un primo periodo- se ne ricordò con una strana espressione facciale, quasi si vergognasse della sua iniziale debolezza- era diventata lo spettro di se stessa. Era stata realmente male e, alcune volte, stesa nel suo letto, quel letto che aveva imparto a considerare loro, aveva pianto fino ad addormentarsi. E aveva agognato una sua carezza, reale o astratta. Ma Judith non lo aveva mai sognato, nonostante lui la amasse e lei amasse lui, nonostante il loro fosse stato un amore epico e irripetibile. 
Jude alcune volte si chideva perché mai lui non volesse abbracciarla neppure a distanza di tutti quei mesi, quegli anni, nemmeno in forma onirica e utopica. Eppure così era stato: Thomas era scomparso dalla sua vita così come era venuto, in una fredda giornata di Febbraio.
Era venerdì, perché è di venerdì che il mondo smette di girare.
Era di giovedì, quello successivo, quando lei si alzò per la prima volta dal suo letto per andare a vomitare via il suo dolore.
E non aveva vomitato via solo quello, ricordò.
Ormai erano passati tre anni, quattro il prossimo mese, e lei aveva superato quel dolore lacinante, capace di mozzarle il fiato per quelle che le sembravano ore. 
Lo amava ancora, lo avrebbe sempre amato, ma adesso stava bene.
Era tornata a sorridere, ad uscire con le sue amiche, a rifarsi una vita. 
Sua madre era molto orgogliosa di lei, le diceva sempre che era il suo orgoglio e, nonostante tutto, anche Jude era felice di se stessa, perché era contenta di essere riuscita a voltare pagina, seppur le piacesse, delle volte, tornare a sfogliare quelle ingiallite del capitolo precedente.
Era tornata a vedersi con un ragazzo, un giovane piacente di buona famiglia, con la passione per la poesia gli occhiali costantemente posati sul naso.
Era un ragazzo attraente, con gli occhi verdi e le fossette sulle guance, gli immancabili capelli ricci indomabili. Il suo nome era Matthew, ma gli piaceva essere chiamato Matty, perché lo faceva sentire ancora piccolo. Matthew aveva la sindrome di Peter Pan nonostante avesse quasi trent'anni e una carriera alle spalle, ma a Jude non dispiaceva; delle volte le piaceva sapere che c'era qualcuno pronto a intrattenerla, con le sue battute idiote e i suoi sorrisi sghembi. 
E Matty non si era mai tirato indietro, neppure quando le aveva confessato di amarla e lei si era messa a piangere, per poi scappare dalla stanza senza neppure rivestirsi. L'aveva ritrovata nascosta dietro le scale, con le gambe strette al petto, mentre ancora piangeva, con le mani sul volto, e lui l'aveva perdonata, e l'aveva baciata.
"Io non ti amo, Matty, e mai ti potrò amare. Io sono di Thomas, come lui era mio."
E lui lo aveva accettato; l'aveva stretta a se, le aveva baciato il capo profumato e poi l'aveva riportata nella sua stanza, camminando piano senza fare rumore. Senza pretese, quando poi l'aveva riposata tra i cuscini morbidi del suo letto. 
Avevano dormito insieme, quella sera, e Jude si sentì sporca il mattino seguente perché aveva sperato, nonostante fosse tra le braccia di un altro, di sognare Thomas che le rimboccava le coperte.
Avrebbe voluto sognare Thomas anche mentre la prendeva a calci, mentre le dava della sgualdrina per averlo così presto dimenticato, ma questo non accadde.
E non accadde neppure le decine di volte successive. 
E Jude non pianse più quando lui, dopo una notte insieme, le ripeté che l'amava. E non pianse neppure quando lui le chiese se mai avrebbe potuto sperare in un affetto particolarmente intenso da parte sua; semplicemente lo guardò, gli sorrise e poi, con un bacio sulle labbra, fece spallucce sparendo dalla stanza, con il lenzuolo bianco ancora avvolto sul corpo magro.
Perché per Judith quella ormai era una routine, come quando uno si alza al mattino dal letto per andare in bagno e prepararsi in vista della giornata lavorativa.
Non c'erano sentimenti particolarmente impegnativi nelle giornate della ragazza e forse lei nemmeno li voleva; stava bene così, con la sua tazza di caffé costantemente fra le mani e, nelle giornate più angoscianti, anche una sigarezza fra le labbra.
Perché aveva capito una cosa, Judith, nei ventitré anni passati a rincorrere una stella troppo lontana e troppo astratta: mai aspettarsi nulla dalla vita.
Perché la vita delude e ci ferisce, come se fosse un coltello tagliente e noi creta nelle sue mani.
Ci uccide, la vita. 
E poi, bastarda, neppure ci guarisce. 




Ian Keating finse di ascoltare sua madre mentre tesseva le lodi di suo figlio maggiore, mentre implicitamente offendeva lui descrivendolo come la pecora nera della famiglia. 
Probabilmente il ragazzo si sarebbe dovuto sentire offeso dalle accuse della madre, ma non lo scalfirono molto. In verità, adesso, la sua attenzione era tutta rivolta verso la ragazza formosa del meteo. 
Sorrise tra se e se, chiedendosi se quelle curve fossere state donate da Madre Natura o da Padre Chirurgo; in entrambi i casi a lui poco importava: era più interessato a ciò che potevano dargli, rispetto a chi gliele aveva date.
Per lui potevano anche essere frutto di un patto con il diavolo e non gli avrebbe cambiato la vita anzi, probabilmente in quel caso avrebbe voluto stringere la mano al diavolo in persona per complimentarsi di quel bel acquisto. E per ringraziarlo del ben di Dio che aveva messo al mondo, perché no?
Nonostante tutto, sua madre continuava a ciarlare.
Era instancabile.
"E tua fratello mia ha detto: che buono questo dolce, mamma! Sei veramente una cuoca provetto, dovresti aprire una pasticceria tutta tua. Diventeresti famosissima."
Ian cambiò canale, leggermente dispiaciuto quando la linea del tg passò nuovamente a quel vecchio bavoso del conduttore. Addio belle tette!
"Sì mamma, Matt è veramente un figlio gentile. E un ingegnere grandioso. E un nipote eccezionale. E un uomo oltromodo eccitante. Hai ragione, mamma: se fossi gay probabilmente me lo sognerei la notte. Che dico, farei sogni indecenti su di lui e verrei nei miei stessi pantaloni solo incontrando il suo sguardo. Ti immagini quanto sarebbe eccitante sedersi sullo stesso water che ha usato anche lui per defecare? Mmm... un sogno, mammina. Peccato solo che sono etero... e che ho un briciolo di cervello. E di amor proprio." le fece il verso lui, un sorriso sghembo tra le labbra che andava contaggiando anche gli occhi azzurri. 
Carmen Keating diede una scalpellotto in testa al figlio più piccolo, trattendo anche lei a stento una risata, continuando però a mostrarsi seria e decisa circa le sue posizioni. Poi si strinse le mani al petto.
"Sei assurdo, Ian! Non capisco perché ti ostini tanto a prendere in giro tuo fratello. Matthew è un ragazzo così buono ed elegante... ed è anche incredibilmente bello, non trovi?"
Ian storse la bocca bevendo un sorso della sua birra ormai calda. "Quale frase del sono etero  non ti è chiara, mamma?"
"Ammettere che tuo fratello è un bel uomo non farà di te un omosessuale, figlio mio."
"Oh, lo so mammina, ma mi renderebbe molto più simile a lui di quanto io già sia. Ci tengo alla mia dignità e credo che basti un solo uomo nella famiglia Keating che il sabato sera, invece di vedersi le partite di football in tv,  preferisce guardare una sfilata di moda.  E nemmeno da donna, per potersi così rifare gli occhi, ma da uomo. In mutande. Non vorrei sconvolgerti, mamma, ma dalle mie parti questo è alcquanto ambiguo."
Carmen gonfiò le guance e arrossì vistosamente, offesa. "Tuo fratello non è gay, Ian! Lavora tutta la settimana e nel weekend ama riposarsi seduto sul suo divano, quel divano che si è comprato con i suoi sudatissimi risparmi. E se vuole starci sopra in biancheria intima, bhé sono problemi suoi. Non miei, non tuoi, ma suoi. E poi lui  è fidanzato con una bellissima ragazza della tua età!"
"Oh, davvero mamma? E ha il pene questa ragazza?"
Guardando l'espressione disgustata della mamma, lui non poté non ridere: si alzò dal divano, si avvicinò alla sua genitrice e le diede un bacio sulla guancia, veloce e dolce, come se fosse un bambino. Poi la strinse fra le braccia, cullandola ritmicamente.
"Scherzavo, mammina, lo so che Matty è un uomo possente e valoroso. Quando avevo quindici anni lo beccai sul letto tuo e di papà intento a darcela dentro con una bella biondona."
"COSA HAI DETTO!?"
Ian rise ancora, sempre più divertito. "Tranquilla mamma, scherzavo ancora. Sul vostro letto, non sulla bella biondona, lei esiste veramente. Chiedi a Matt, se non mi credi: per come ha urlato più volte il suo nome credo proprio che non se ne sia dimenticato. Una certa Kristen, se ben ricordo."
Carmen non abbandonò neppure per un istante la sua espressione sconfitta e disgustata ricambiando, però, seppur debolmente, l'abbraccio del suo secondogenito.
Ian posò il mento sulla testa della donna, ispirando il suo profumo di buono, torta e fettuccine. 
Una donna casareccia, corpulenta, di casa, ma piena d'amore.
Sorrise con ancora un'immagine ben impressa nella mente.
"E così il nostro Matty è bello che fidanzato, eh?"
Carmen staccò il volto dal petto del suo bambino, un sorriso gongolante e soddisfatto.
"Oh sì, con una bellissima ragazza. Mi ha promesso che ce la farà conoscere, prima o poi. Sembra davvero innamorato, il mio bambino."
Ian avrebbe voluto dirle che era lei ad essere irrimediabilmente innamorata del suo bambino, tanto da eloggiare ogni sua singola azione. Probabilmente se Matthew avesse incendiato la loro stessa casa con ancora loro dentro, lei ne sarebbe andata fiera ugualmente.
"Ci ha ucciso il nostro Mattino, Ian. E' un buon modo di morire, non credi?" gli avrebbe sicuramente detto.
Sbuffò affranto, forse un po' geloso da quel bene spropositato che sua madre nutriva per quel deficiente. Era sempre stato così: lui era il bambino più allegro e spensierato e Matthew quello che, diversamente, sembrava vivere di complessi interiori, problemi fisici e mille e più seghe mentali. 
Matthew era andato da diversi psicologi, perché era un isterico che tendeva a sfogare la sua rabbia su chi stava intorno, quando le cose non andavano come lui invece desiderava. 
Matthew era miope, condannato a portare gli occhiali ogni attimo della sua misera esistenza, con mille e altri problemi fisici, uno sfigato che viveva per i libri e la filosofia. 
Ian invece era allegro, forse un po' sopra le righe, ma nient'altro. 
Era stato sospeso due volte al liceo, bocciato una volta in terza superiore, ed era stato arrestato per guida in stato di ebbrezza quando aveva diciotto anni, ma apparte quello era un bravo ragazzo.
Forse troppo vivace, ma almeno la sua vita non ruotava intorno a Shopenhauer e quel suo pallossissimo pendolo fra le vita e la morte.
Il libro preferito di Matthew era la Divina Commedia in lingua originale; Ian non sapeva neppure che lingua fosse quella usata da Dante Alighieri, se veramente fosse esistito o fosse solo frutto dell'immaginazione di qualche malato di mente.
Il libro preferito di Ian era invece la saga di Harry Potter: semplice, comprensibile e significativa. 
Matt odiava Harry Potter, perché lo riteneva immaturo e insignificante; Ian lo aveva preso molte volte a calci, specialmente quando suo fratello maggiore, da bambino, si divertiva a strappare le pagine del suo libro preferito solo per farlo piangere.
Ironia della sorte, alla fine, a piangere era lui con un bel ematoma sulla fronte. 
Sorrise al ricordo, ancora leggermente orgoglioso di come, anche solo a otto anni, era solito gonfiare di botte un bambino più grande di lui. Almeno uno in famiglia aveva da sempre dimostrato di avere le palle, pensò divertito!
Con uno sguardo biricchino diede un altro, ultimo bacio sulla testa di Carmen, poi sciolse l'abbraccio e posò le sue mani sui suoi fianchi stretti, di cui andava molto fiero.
"Sono sicuro che rimarremo molto sorpresi da questa ragazza, mammina."
Carmen lo incenerì con lo sguardo, furiosa. "E' inutile che fai tanto il malizioso, Ian: tuo fratello non ci farà strane sorprese perché porterà a casa una bella ragazza. Ragazza, ti dico."
"Tranquilla mamma, io non ho detto niente. Sei tu che adesso stai mettendo in seria discussione l'orientamento sessuale del figliol prodigo."
Carmen guardò attentamente il suo secondogenito negli occhi, scorgendo nei suoi occhi azzurro intenso, azzurro cielo, limpidi come il ghiaccio, una promessa incerta. Sapeva dello strano rapporto conflittuale dei suoi due figli e ne soffriva, esattamente come ogni mamma. 
Avrebbe tanto voluto che i suoi due bambini andassero d'accordo, che avessero un rapporto intenso e duraturo, amichevole oltre che fraterno, ma così non era mai stato.
Ian soffriva di quella concorrenza che Matthew aveva da sempre alimentato, fin da quando era venuto al mondo e Matt aveva solo quattro anni. 
La prima volta che li aveva visti litigare Ian aveva solo un anno e mezzo e aveva risposto con uno sputo ad un calcio del maggiore; Matt gli aveva tirato uno schiaffo e Ian, piangendo, gli aveva sputato ancora sul volto. Qualche ora dopo, orgogliosamente offeso, gli aveva anche vomitato sulla sua maglietta preferita, apparentemente senza motivo. 
Eppure un motivo c'era eccome, ma tutti facevano finta di non notarlo. 
Anche Ian, alcune volte, tentava di ignorarlo, come si cerca di ignorare la puntura di una zanzara particolarmente bastarda.
E Matthew era la sua zanzara, la sua puntura e lo stesso prurito.
Non era un fratello, era la sua croce. 
Eppure, nonostante non lo avesse mai ammesso, alla fine era sempre lui ad averla vinta. In un modo o nell'altro.
  
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