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Autore: EvgeniaPsyche Rox    04/09/2013    12 recensioni
Era peggio assaggiare qualcosa di piacevole pur avendo la consapevolezza che poi l'avrebbe perso per sempre, o era più frustante vivere ignorandone l'esistenza per evitare di sentire la morsa dolorosa nostalgia?
Cos'era peggio?
La nostalgia o il dolore causato dall'infinita ricerca della costruzione di un gusto che non si era mai avuto la possibilità di assaggiare?
Poco importava, pensò Roxas. Non era stato lui a scegliere la propria sorte, in fondo. Semplicemente gli era toccata la prima strada, quella della nostalgia.
-
(...) rimase immobile ad osservarla, sentendosi inspiegabilmente a disagio, quando, di punto in bianco, vide una scia di colori sprigionarsi come un piccolo tornado.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Axel, Roxas, Sora
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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The deafening sound of the colors.

 


Si avviò verso la finestra, appoggiando una mano sulla superficie liscia del vetro.
Il cielo sembrava diviso perfettamente a metà; una parte di esso stava indossando il suo vestito più incantevole, ovvero quello del tramonto: rosso, arancio, giallo.
Spostò lo sguardo verso sinistra e si tuffò nelle tenebre, nell'oscurità più totale.
Nero.
Denso, appiccicoso.
Assenza di stelle, la luna sommersa dalle nuvole.
C'era un parco che pareva uno di quei giardini magici di cui sentiva parlare sempre nei libri o nei film.
Che strano, pensò, non ricordava nulla del genere sotto casa sua.
Ma poi era davvero sicuro di trovarsi a casa?
Appoggiò anche l'altra mano sul vetro, riflettendo.
Quel parco doveva essere molto interessante, nonostante fosse anch'esso frammentato a metà.
Da un lato il tramonto, dall'altro le tenebre.
Solamente che la parte invasa dalla notte non era del tutto buia, al contrario del cielo.
Erano presenti delle luci che costellavano le strade.
Dei lampioni, probabilmente.
Che si trovasse in un sogno?
Probabilmente.
Era un bel sogno comunque, continuò a pensare.
Voleva visitare quel parco a tutti i costi prima di tornare nella realtà.
Presto presto, non c'era tempo.
Si voltò e corse verso la porta per poi svanire dietro di essa.

 




«Vuoi un bicchiere d'acqua?»
Roxas annuì, cercando di sistemarsi meglio sul cuscino che ogni minuto sembrava essere sempre più duro e scomodo.
«Bene, arrivo subito.»
«Sì, grazie.», mormorò in risposta il ragazzo, nonostante l'infermiera avesse già abbandonato la piccola stanza.
L'aria puzzava di disinfettante e Roxas non poteva più sopportare quell'odoraccio, il che era abbastanza triste, dal momento che si trovava lì dentro da soltanto un paio di giorni.
Eppure avrebbe dato qualsiasi cosa pur di alzarsi e aprire quella dannatissima finestra che si trovava chissà dove; avrebbe fatto di tutto pur di assaggiare nuovamente il sapore dell'aria pura, quella vera, fresca e profumata.
Però aveva troppa paura. Troppa paura di cadere, di sbattere contro qualcosa, di farsi male, insomma.
E non l'avrebbe mai chiesto a qualche infermiera; sia perché si vergognava (Non riusciva nemmeno a comprendere il motivo di questo suo imbarazzo, poi), sia perché non sarebbe servito. Lui voleva alzarsi e porgere il volto verso la finestra, verso l'ambiente esterno, verso il mondo.
Assaggiare aria pulita all'interno di quella stanza sarebbe stato inutile, secondo Roxas.
Sarebbe stato come... Come guardare il trailer di un film che non avrebbe potuto vedere al cinema. Sarebbe stato come provare un vestito che non avrebbe mai comprato perché troppo costoso. Sarebbe stato come innamorarsi della copertina di un libro che non avrebbe mai letto perché scritto in un'altra lingua.
Non sarebbe servito a nulla, poiché poi l'aria pulita non avrebbe impiegato molto a trasformarsi nella solita puzza di disinfettante e medicinali che galleggiava in quel posto.
Perché sprecare così dell'aria fresca?
«Eccomi». Roxas alzò automaticamente la testa e, dopo aver udito i passi veloci dell'infermiera, allungò automaticamente il braccio verso la propria destra; tastò per qualche secondo la superficie dura del vetro e fece per afferrarlo in una stretta decisa, quando la donna lasciò sbadatamente andare l'oggetto troppo presto, il quale sfuggì dalla mano di Roxas.
Crash.
Il ragazzo sussultò e abbassò il capo, stringendo nervosamente le coperte sulle proprie gambe. «Mi... Mi dispiace.»

«Oh, no, non preoccuparti», si affrettò a parlare l'infermiera, chinandosi immediatamente verso il pavimento per raccogliere i cocci di vetro. «Tanto siamo pieni di bicchieri. Finisco di sistemare tutto e vado a prendertene un altro, tranquillo.»
Roxas dunque voltò nuovamente la testa di fronte a sé e annuì, nonostante l'infermiera non lo stesse guardando.




C'era una mano di fronte a sé.
Una mano che stava reggendo una piccola trottola.
«Come stai?», gli domandò poi la trottola, o forse la mano, difficile comprenderlo.
«Bene, grazie», rispose subito, ma non era esattamente sicuro che fosse la verità.
Il fatto era che lì stava bene, più o meno. Il problema era là fuori.
La mano poi si allontanò e la trottola prese a girare da sola su se stessa, acquistando immediatamente una notevole velocità; lui rimase immobile ad osservarla, sentendosi inspiegabilmente a disagio, quando, di punto in bianco, vide una scia di colori sprigionarsi come un piccolo tornado.
Rosso, arancio, giallo, viola, blu, azzurro...
Rosso, arancio, giallo, viola, blu...
Rosso, arancio giallo, viola...
Rosso, arancio, giallo...
La trottola si fermò e lui si ritrovò improvvisamente in soggiorno; un divano vuoto, la televisione accesa su uno di quei vecchi programmi in bianco e nero che a suo padre piacevano tanto.

 




«A quale gusto è?»
«Al sale marino, il tuo preferito, no?»
«Sì, il mio preferito.», ripeté Roxas prima di afferrare il ghiacciolo dalle mani del fratello, scartandolo velocemente.
«Ormai sono gli ultimi, non li venderanno più», mormorò improvvisamente Sora, e a Roxas parve di sentire l'aria pesante a causa del suo disagio.
«C-Che cosa?»
«I gelati al sale marino!»
«Oh.»
«Tra poco inizierà l'inverno.», annunciò il castano, dondolando infantilmente le gambe sulla piccola sedia di plastica. «Chi mai mangerebbe i gelati?»
«Io lo farei.», farfugliò il giovane seduto sul letto, addentando il primo morso del ghiacciolo, perdendosi quindi nel solito sapore dolce e al tempo stesso salato che gli piaceva tanto.
Amava sentire la bocca che sapeva di zucchero e il palato che pareva quasi cosparso di minuscoli granelli di sale.
In effetti, pensò tra sé e sé, non aveva mai fatto così tanta attenzione al sapore di quel ghiacciolo.
«Allora oggi... Oggi farai l'operazione?», domandò dopo una manciata di secondi il fratello, senza guardare un punto ben preciso.
Roxas si voltò istintivamente verso di lui, venendo nuovamente investito dall'opprimente senso di disagio che proveniva da Sora; da Sora, sì, da Sora perché lui non sapeva in che maniera comportarsi in un dannatissimo ospedale. Non sapeva quale strada prendere tra quei corridoi così bianchi, tra le lamentele e i gemiti di dolore.
Non sapeva come sopravvivere in quel labirinto di tristezza.
E Roxas si sentiva in qualche colpevole di essere la causa per cui suo fratello doveva recarsi in un posto del genere.
«Sì, però prima dovranno visitarmi». A quella risposta Sora annuì; dopo un paio di secondi sussultò appena e si strinse le spalle prima di riprendere la parola. «Allora il ghiacciolo è buono?»
«Sì, molto.», borbottò Roxas prima di addentarne un altro morso.
«Non è stato facile correre dal supermercato fino a qui per non farlo sciogliere.»
Roxas tentò di sorridere, cercando di concentrarsi sul leggero profumo di fresco che emanava il ghiacciolo e non sulla puzza di disinfettante che sembrava intralciare in qualche modo il suo spuntino.
Quel gelato gli ricordava vagamente l'odore della brezza marina. Era una sensazione assai piacevole, anche perché qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quei dannatissimi medicinali che lo torturavano giorno e notte.
«R... Roxas?», lo chiamò improvvisamente con voce tremante il fratello, evidentemente agitato.
«Che c'è, Sora?»
«Tu... Tu credi che...», il castano si interruppe per qualche secondo e prese un profondo respiro, sforzandosi di mettere insieme una frase con un minimo di senso logico. «Insomma, credi che p-possa succedere anche a me? P-Per tutta la roba della genetica, 'ste cose lì, s-sai...»
Silenzio.
Improvvisamente l'odore della brezza marina scomparve del tutto e le narici di Roxas furono nuovamente martellate dalla puzza di disinfettante. Probabilmente quello era il rumore più fastidioso di tutti per il suo naso. Un odore davvero rumoroso e irritante.
«No, Sora.», rispose dopo un po', cercando di non tentennare. «Il mio è stato un trauma, non c'entra niente con la genetica, non ti preoccupare». Con quelle parole sperò di aver scacciato il peso al cuore del fratello; la voce di quest'ultimo, infatti, parve in qualche modo più leggera. «Allora guarirai grazie all'operazione e tutto tornerà alla normalità, non è vero?»
Roxas in un primo momento non rispose in alcun modo, poiché quello che Sora avrebbe voluto sentirsi dire gli parve in qualche modo una menzogna.
Sentì una sorta di presagio espandersi nel petto e, proprio in quel momento, gli tornarono alla mente dei frammenti del sogno che aveva fatto la notte scorsa. Ricordava vagamente una trottola, dei colori e un vecchio programma televisivo.
«Lo spero», disse successivamente, percosso da un brivido di freddo sulle dita causato dal ghiacciolo che ormai era quasi completamente sciolto.
E ci aveva davvero sperato un po', anche se quella speranza gli era sembrata un'enorme bugia. Aveva sperato perché non poteva fare altro, nonostante sapesse fin troppo bene che sarebbe stato inutile. Proprio come sarebbe stato inutile chiedere all'infermiera di aprire la finestra.
Sperare inutilmente. Com'è che si chiamava? Oh, giusto, illusione.
Per questo non si stupì più di tanto quando, dopo la visita, gli dissero che ogni sorta di operazione sarebbe stata del tutto inutile.
Inutile, sì. Inutile come una bella copertina di un libro incomprensibile, come un trailer intrigante di un film che non avrebbe mai visto o inutile come un vestito troppo costoso che gli calzava a pennello.
Sentì i suoi genitori piangere.
Lui non lo fece, però.
Aveva troppa paura.




Rosso, arancio...

 




Ormai il cuscino gli sembrava seriamente fatto di ferro.
Si voltò sul fianco destro e si sforzò in ogni maniera di non concentrarsi sulla puzza di disinfettante e sui rumori che provenivano dall'esterno della stanza, rimbombando poi nei corridoi.
Doveva cercare di dormire almeno un po'. In fondo quella sarebbe stata la sua ultima notte all'ospedale e poi avrebbe finalmente sentito l'aria fresca dell'ambiente esterno nei polmoni.
Anche se sarebbe stato diverso, certo.
«Roxas!». Strinse le coperte e si sforzò di ignorare quel fastidioso ricordo perfettamente nitido nella sua mente. «Roxas, mi dispiace! Mi dispiace così tanto! Non è giusto, non è giusto che sia successo a te, proprio a te!»
Non è giusto.
Suo fratello, dopo aver scoperto i risultati della visita, gli aveva detto, gridando e piangendo, che non era giusto.

Già, non era giusto. Non lo era proprio per niente.
Eppure era successo a lui, sì, proprio a lui.
Dopo aver passato anni e anni a lamentarsi dei disgraziati che non facevano altro che ripetere frasi come ''Non è giusto che sia successo proprio a me!'', ora era giunto anche il suo turno.
Sarebbe potuto capitare a chiunque e, sorpresa del Fato, questa volta era proprio lui il suddetto ''chiunque''.
Forse le disgrazie facevano il giro di tutti, rifetté. Forse davvero ogni persona viveva miriadi e miriadi di esistenze, e tra di esse ne spiccava una particolarmente tragica, difficile da sopportare.
I suoi pensieri poi si spostarono alla scuola, chissà perché. Udì il suono della campanella, la voce dell'insegnante, le risate dei suoi compagni e il richiamo dell'autista. Gli parve tutto lontano, inafferrabile, come una vita che non gli apparteneva.
Eppure non era così, e Roxas lo sapeva bene.
Sapeva bene che, presto o tardi, sarebbe tornato lì, in quel mondo. Il problema era che gli avevano tolto qualcosa di veramente importante. Nella sua fotografia avevano ritagliato una parte essenziale per lui.
Probabilmente non si era disperato perché ancora non ci credeva davvero. Gli sembrava tutto dannatamente surreale, lontano, proprio come la scuola. Una memoria distante, sfuggente, l'odore della spiaggia in pieno Dicembre.
Gli pareva di galleggiare nel nulla, in bilico tra i ricordi del prima, quando era tutto completo, e di quello che gli stava accadendo, di ciò che gli era stato strappato improvvisamente.
Perché proprio a lui?




Rosso...




Le sue domande furono sul punto di spegnersi, lasciando finalmente spazio alle braccia di Morfeo e ai suoi sentieri imprevedibili, quando un rumore lo riscosse, svegliandolo immediatamente.
Non sembrava provenire dai corridoi; non gli parevano né i mormorii sussurrati delle infermiere, né i passi dei dottori, né tanto meno le barelle che venivano trasportate urgentemente in sala operatoria.
Era qualcos'altro. Qualcosa di vicino. Un cigolio. Una porta che si apriva in mezzo all'oscurità della notte.
Roxas si strinse maggiormente tra le coperte, indeciso sul da farsi. Fingere di dormire? O far sapere all'infermiera che non riusciva a prendere sonno? Ma poi perché diavolo un'infermiera si stava intrufolando nella sua stanza se era tutto in ordine e tranquillo come sempre? Forse per prendere una medicina in particolare? Ma non ne possedevano una quantità industriale in qualche studio o qualcosa del genere?
Poi, nel bel mezzo delle tenebre, un sospiro.
Roxas allora provò una fitta acuta di paura di fronte alla consapevolezza di non essere più solo in quella stanza.
Adesso c'erano i suoi dubbi, le sue domande, lui, il sonno lontano e qualcosa, o meglio, qualcuno, di sconosciuto.
Altri suoni. Degli scricchiolii quasi impercettibili seguiti da un forte rumore.
Poi un gemito soffocato.
«Cazzo!»
Un ladro.

Quello fu il primo pensiero razionale che Roxas riuscì a decifrare. Un ladro si era intrufolato nell'ospedale, precisamente nella sua piccola stanza. Ma a che scopo? Gli ospedali non possedevano di certo denaro di alcun genere. E se fosse un piano elaborato? Forse lo avrebbero rapito in modo da attuare un ricatto ai suoi genitori. In fondo quella era la sua vita più disgraziata, no?
O forse lo avrebbero immediatamente ucciso.
Roxas pensò che in fondo non sarebbe stato così brutto e spaventoso. Quella riflessione lo incupì particolarmente e fu come una doccia fredda, qualcosa che lo aiutò a destarsi da quella sensazione di irrealtà che aveva provato durante gli ultimi tre giorni.
«Uh... Ehi?»
Un richiamo.
Roxas allentò un poco la presa sulle coperte e si girò istintivamente a sinistra, barcollando in mezzo all'oscurità. «Chi c'è?»
«Ah, cavolo, allora ti ho svegliato.», sentì borbottare da quella voce sconosciuta proveniente dall'altra parte della stanza. «E' che sono andato a sbattere contro quel cazzo di comodino.»
«Chi sei?», domandò Roxas, sentendosi leggermente più tranquillo; era un uomo, lo intuì dalla voce, ma di sicuro non era un ladro, altrimenti avrebbe cercato di essere più discreto.
«Ehm, è una lunga storia...», farfugliò l'altro con un tono che sembrò in qualche modo lasciar trasparire il suo disagio. «Sono il figlio di un medico che lavora qui, uh, non voglio farti niente, tranquillo». Rimase in silenzio per una manciata di secondi prima di riprendere a parlare: «... Sei un ragazzo, vero?»
A quella domanda Roxas si sentì in qualche modo offeso e si schiarì la voce, come se avesse voluto assumere un tono più severo. «Certo.»
«Meno male, avevo paura di aver fatto una figura di merda.», continuò l'uomo, tirando un sospiro di sollievo. «Comunque ti dispiace se resto un po' qui? E' urgente, davvero.»
«Perché devi restare qui?», chiese il ragazzo, infastidito dal fatto di dover passare la nottata in compagnia di uno sconosciuto che lo aveva addirittura svegliato. Difficilmente sarebbe riuscito a prendere nuovamente sonno, sia perché l'uomo sembrava particolarmente loquace, sia perché faticosamente si sarebbe addormentato con la consapevolezza che c'era qualcuno ad osservarlo.
«Beh, ehm...», iniziò l'altro, imbarazzato. «E' che spesso mi intrufolo qui per parlare con alcuni pazienti. Lo faccio di notte perché i corridoi sono meno sorvegliati e c'è meno gente in giro, ma non è facile; quelle racchie delle infermiere sono sempre in agguato, purtroppo. E quando sento i loro passi mi infilo nella prima stanza che vedo. Però, ehm, di solito sono silenzioso, giuro, non ho mai svegliato nessuno... Ehm, più o meno.»
Roxas rimase assai perplesso da quella spiegazione, sentendola in qualche modo incompleta. «Ma se sei il figlio di un medico perché non entri di giorno?»
«Mio padre dice che infastidisco i pazienti.»
«Perché?»
«Uh, vedi, io sto studiando psicologia e quindi cerco di parlare con il maggior numero di pazienti per conoscere un po' i loro sentimenti, ciò che provano, insomma. Questo ospedale è la mia unica speranza perché all'Università non faccio mai grandi esperienze. Studio solo montagne e montagne di libri. Io invece voglio conoscere la psicologia a livello pratico, capisci? Cioè, per non essere troppo impreparato dopo, non so se mi spiego. Un paio di volte è successo che qualche paziente stronzo il giorno dopo abbia detto di queste mie ''visite notturne'' alle infermiermiere e-»
«Va bene, ho capito.», tagliò corto il ragazzo, irritato dalle eccessive chiacchiere dell'altro. «Quando te ne andrai?»
«Non appena sarò certo che le infermiere non siano nei paraggi.», rispose prontamente l'uomo prima di zittirsi per qualche secondo, intento a riflettere. «Aspetta, non è che sei uno di quelli che lo andrà a dire alle infermiere?»
«No, non mi interessa, anche perché domani mi dimetteranno.»
«Meno male.», commentò l'altro presente, sollevato. «Cioè, meno male sia perché non lo dirai, sia perché ti dimetteranno.»
Roxas non rispose, non ne sentì la necessita, dal momento che non era esattamente d'accordo con le parole dello sconosciuto.
Meno male.
Meno male che cosa? Meno male che gli avevano strappato una parte così importante della sua vita? Meno male che tutto sarebbe cambiato per sempre? Meno male che il cielo non sarebbe stato più azzurro, ma nero, sempre nero?

«Comunque io sono Axel, piacere». Il giovane alzò di scatto la testa, risvegliandosi nuovamente dai propri pensieri prima di sospirare. «Io mi chiamo Roxas.»
«Bel nome.»
«Grazie.»
Per un attimo il ragazzo attese di svegliarsi; attese di aprire gli occhi e di trovarsi nella propria stanza, a casa, sul suo morbido letto accanto a quello di Sora.
Roxas sognò mentalmente di alzarsi dal materasso, di recarsi in cucina e di raccontare a sua madre il tremendo incubo che aveva avuto.
Roxas sognò il suo sorriso, il suo caldo sorriso che gli ricordava sempre il tocco di un raggio di sole.
Sognò di abbracciarla e aspettò che lei, o anche qualcun altro, perfino uno sconosciuto sarebbe andato più che bene, gli dicesse: «Era solo un incubo, non ti preoccupare.»
Rimase immobile, come pietrificato, per una decina di secondi, in attesa. In attesa di svegliarsi, di udire quelle parole, ma nulla.
Decise allora di spezzare il silenzio, poiché quest'ultimo permetteva ai suoi pensieri di anniddarsi nel suo cervello con così tanta prepotenza da soffocarlo per davvero. «Perché vuoi parlare proprio con i pazienti di un ospedale?»
Ci fu un altro momento di quiete nel quale Axel si stupì dell'improvvisa domanda, mentre Roxas temette addirittura che l'altro se ne fosse già andato senza fare rumore. «Te l'ho detto, l'ospedale è l'unica speranza per mettere in pratica quello che ho imparato.»
«Sì, ma non potresti parlare semplicemente con... Non lo so, i tuoi amici, i tuoi compagni?»
«Beh, sì, potrei», rispose l'uomo dall'altra parte della stanza con aria vaga. «ma per me non sarebbe la stessa cosa. Il fatto è che trovo interessanti i pazienti, cioè, persone che sono state sfortunate in qualche modo. Hanno più cose da dire, più cose da insegnarmi, capisci?»
«Più o meno», ammise Roxas con aria confusa prima di udire una risata divertita in tutta risposta.
Il ragazzo però non vi badò, poiché la sua concentrazione venne nuovamente catturata da quella dannatissima puzza di disinfettante e di medicinali che non faceva altro che torturarlo.
Si mosse un poco tra le coperte e si mise a sedere, appoggiando la schiena su quel cuscino che detestava tanto.
Perché proprio a lui? Certo, magari a tutti toccava un'esistenza disgraziata, ma perché a lui era capitata proprio quella?
Venne invaso da una fitta di disperazione e voltò la testa verso la propria sinistra, sentendosi un pesce fuor d'acqua. Non era un incubo, ecco la nuova consapevolezza. Si stava svegliando, si stava svegliando da ciò che non era mai stato un incubo, né mai lo sarebbe stato.
Stava vivendo la sua vita, la sua esistenza, e quella era la sua realtà, gli apparteneva. Quella stessa realtà che lo stava incatenando.
«Forse le infermiere se ne sono andate», borbottò improvvisamente Axel; non ebbe nemmeno il tempo di aggiungere altro che Roxas prese la parola: «Aspetta», implorò quasi in un gemito soffocato. «potresti aprire la finestra?»
«Cosa? La finestra?», ripeté l'uomo, come timoroso di aver capito male. «Uh, va bene. In effetti, c'è puzza di chiuso, meglio cambiare un po' l'aria.»
Roxas poi sentì dei passi accanto al proprio letto e fece per ringraziarlo, quando si accorse di avere la voce bloccata in gola, come se un masso la stesse in qualche modo soffocando, impedendole di uscire, impedendole di vivere.
«Ho sempre odiato queste finestre», la voce di Axel si espanse nuovamente nella stanza; dopodiché il giovane udì dei fastidiosi rumori provenire dalla vecchia maniglia della finestra e attese una manciata di secondi. A quel punto la brezza notturna finalmente lo investì, provocandogli un brivido di freddo lungo la schiena.
«Così si sta mille volte meglio, non trovi?», Roxas si sforzò nuovamente di rispondere, ma le sue corde vocali parevano davvero intrecciate tra di loro, come incatenate. O meglio, lui stesso le teneva incatenate, poiché sapeva che, se avesse permesso loro di essere libere, avrebbe rischiato seriamente di esplodere.
Strinse nuovamente le coperte tra le mani, abbandonandosi al piacevole profumo dell'aria fresca.
Se avesse deciso di lasciare la finestra aperta il profumo del mondo esterno avrebbe invaso la stanza; al contrario, se l'avesse chiusa, l'aria si sarebbe mescolata alla puzza di disinfettante e tutto sarebbe tornato alla normalità.
Era peggio assaggiare qualcosa di piacevole pur avendo la consapevolezza che poi l'avrebbe perso per sempre, o era più frustante vivere ignorandone l'esistenza per evitare di sentire la morsa dolorosa nostalgia?
Cos'era peggio?
La nostalgia o il dolore causato dall'infinita ricerca della costruzione di un gusto che non si era mai avuto la possibilità di assaggiare?
Poco importava, pensò Roxas. Non era stato lui a scegliere la propria sorte, in fondo. Semplicemente gli era toccata la prima strada, quella della nostalgia.
Capì che non gli interessava più di esplodere, anzi; forse sarebbe stata la cosa migliore.
«Ci sono le stelle?», domandò quindi con voce tremante, voltando automaticamente la testa verso la fonte della piacevole brezza notturna.
«Mmmh... Mi pare di sì. Ma stai bene?»
«E sono tante?», continuò a chiedere sordamente il ragazzo, ignorando il fatto che le proprie parole stessero uscendo a singhiozzi. «Ci sono tante stelle, dico?»
«Io... Credo di sì, sono un bel po'. Aspetta, da lì non riesci a vedere per caso? Se vuoi ti aiuto ad alzarti; fidati, ho già avuto un sacco di esperienze con gambe rotte e cose del genere. Basta appoggiare piano il piede e andrà tutto bene.»
Roxas allora scosse la testa e si portò le mani al volto, lentamente. «No, non riesco a vedere da nessuna parte.»
Che cos'era peggio? Non sapere che cosa fossero i colori o essere in grado di spiegarli nonostante essi non avrebbero fatto più parte della sua vita quotidiana?
Che cos'era peggio?
Poco importava, almeno per Roxas. Poco importava perché qualcuno aveva deciso che a lui sarebbe toccata la seconda sorte.
Avrebbe potuto sentire la puzza di disinfettante, il profumo dell'aria fresca e gli spaghetti cucinati da sua madre, ma non avrebbe mai potuto sentire un sorriso. I sorrisi non hanno un odore, né tanto meno un rumore. Proprio come il cielo, il tramonto e le stelle. Come le buffe espressioni di suo fratello e i dipinti appesi ai muri.
Non tutto aveva un profumo, un suono, una forma. Non avrebbe mai potuto allungare le mani per sapere se la luna quella sera era presente o meno. Non avrebbe mai più visto quelle belle copertine dei libri in biblioteca.
E cos'era peggio? Consumarsi dalla nostalgia giorno dopo giorno, o dimenticare? Si sarebbe scordato dei colori, magari tra una decina di anni? Avrebbe scordato il giallo, il viola, l'arancione e il rosso? Avrebbe dimenticato il colore delle margherite e delle nuvole?
Roxas non lo sapeva, ma avrebbe fatto di tutto per mantenere vivi i ricordi.
«Ehi, tutto... Tutto bene?», chiese improvvisamente Axel, perplesso da quel silenzio riempito solo da gemiti e lievi singhiozzi.
E Roxas scosse la testa, afferrando l'estremità della benda che gli copriva gli occhi; se la sfilò di scatto e sbatté ripetutamente le palpebre, tremando, tremando violentemente dalla paura, dall'angoscia, da tutto. «S-Secondo te... Secondo te i... I ciechi possono piangere?»
Quella domanda lasciò spiazzato l'uomo per qualche secondo, il quale stava iniziando a mettere insieme i tasselli del puzzle. «Sì... Certo, certo che possono piangere.»
E proprio in quel momento i singhiozzi di Roxas aumentarono di intensità, trasformandosi in disperazione pura; si tastò le gote con le dita e notò che si stavano lentamente bagnando. «Meno male», sussurrò una volta, poi lo disse ancora a voce più alta. «Meno male».
A quel punto i singhiozzi divennero un pianto straziante, forse uno dei più tristi che Axel avesse mai sentito in tutta la sua vita; Roxas non riuscì più a trattenersi ed esplose una volta per tutte. Pianse, pianse così forte che molto probabilmente perfino le infermiere lo avevano udito e si stavano precipitando nella sua stanza.
E questo lo intuì anche Axel, dal momento che si affrettò a raggiungere la porta; successivamente però tentennò per un attimo e capì che, tutto sommato, poco gli importava di essere scoperto o meno.
Dunque premette l'interruttore e si voltò nel medesimo momento in cui le lampade a neon si accesero, permettendo alla stanza di venire invasa dalla luce.
Fu allora che Axel vide un ragazzo di sedici anni al massimo dai biondi capelli ribelli; vide un ragazzo intento a stringere una garza bianca tra le proprie mani; vide un ragazzo piangere con le palpebre che continuavano a sbattere da sole, come se le sue iridi fossero in qualche modo troppo sensibili da reggere qualsiasi forma di luce.
«Meno male», lo sentì poi ripetere ancora, una terza volta. «perché già mi hanno tolto la vista, manca solo che mi tolgano anche le emozioni!»
Dopo aver detto ciò, Roxas pianse ancora più forte, se possibile, portandosi le mani sugli occhi; Axel allora indietreggiò di un passo e sussultò, tastandosi la guancia destra con l'indice della mano.
E si stupì di notare che era bagnata a causa delle sue stesse lacrime. Si stupì, proprio come Roxas si era stupito di essere in grado di piangere nonostante fosse ormai completamente cieco.
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*Note di Ev'*
Salut les copains-!
Okay, no, meglio non utilizzare il titolo del mio libro di francese delle medie. :c
Questa storia mi è venuta in mente... Uhm, l'altro ieri, mi pare, sì. Verso metà pomeriggio nella mia mente è improvvisamente apparso il seguente pensiero: ''Porco Pinguino Del Perù, ho voglia di far deprimere qualcuno con qualche storia.''
E' poco carino da dire, lo so, ma cercate almeno di apprezzare la mia schiettezza.

E allora niente, ho iniziato a sfogliare mentalmente una possibile storia drammatica; ho preso anche in considerazione un paio di storie che ho scritto un po' di tempo fa e che ho lasciato a metà, però bbboh, no, avevo voglia di qualcosa di nuovo.
Sono rimasta tipo dieci minuti a camminare avanti e indietro nella stanza, riflettendo su possibili argomenti tragici, ma, uh, niente. Poi sono andata a lavarmi la faccia e il mistico gesto di lanciarmi l'acqua sugli occhi mi ha fatto pensare a qualcosa relativo all'essere ciechi.
Questo argomento mi ha sempre toccata molto; infatti è da circa due o tre anni che vorrei scrivere un libro sui non vedenti, però buh, visto che mi è venuto in mente ho deciso di iniziare con una One-Shot.
Quindi niente, l'idea mi è piaciuta e ho deciso di metterla in atto; ci ho messo un bel po' a svilupparla, 'orcabbestia. Inizialmente ero indecisa su quale ruolo attribuire ad Axel, ma alla fine ho optato per uno sconosciuto. L'ho scritta in due giorni, è un tempo relativamente breve, però, diamine, mi sembra di averci impiegato quattro secoli perché ci sono stata delle ore :cc
Passiamo all'analisi, così poi potrò martellarvi con le cazzate.




La storia si apre con un sogno piuttosto confuso di Roxas; esso, come il secondo, in parte ha significato e in parte no. Principalmente tutto ruota intorno ai colori, come il vortice della trottola, o come il tramonto. Sia nel primo che nel secondo sogno, però, c'è anche qualcosa che contrasta i colori, l'oscurità; prima è quella del cielo, poi è il programma in bianco e nero che viene trasmesso in televisione.
In parole povere, vuole semplicemente evidenziare la perdita della vista.
Roxas è diventato un non vedente da poco. Le cause non vengono specificate, però si fa riferimento ad un ''trauma'', il che simboleggia che, molto probabilmente, è stata una cosa improvvisa e non progressiva (Come potrebbe magari avvenire per una malattia).
Il protagonista si trova quindi catapultato in un mondo completamente oscuro, in cui l'unico colore che vede è il nero. Ed è successo tutto così improvvisamente che lui non ci crede, si sente smarrito, perso, non si dispera, anzi, con Sora sembra addirittura quasi eccessivamente calmo perché continua a sperare, nel suo intimo, che sia tutto un orribile incubo.
Personalmente, spero che la cecità di Roxas sia stata una sorta di ''effetto sorpresa''; cioè, che si sia scoperto nell'ultima parte, dove il biondo pensa al fatto che ci sono cose che non hanno né un suono, né un odore, né una forma.
Spero vivamente di essere riuscita nell'obiettivo, poiché alla fine tutta la storia avrebbe più senso; il fatto che all'inizio a Roxas cada il bicchiere, il punto dove Sora annuisce e poi sussulta subito, poiché si ricorda che il fratello non può vederlo. E anche le descrizioni sui colori vengono spesso tralasciate, o comunque, se vengono citati i colori di solito riguardano sempre i ricordi di Roxas o i suoi sogni.
Nell'ultima parte entra finalmente in scena il nostro piromane schizzato stalker Axel, che a quanto pare si diverte a rompere i coglioni infastidire un po' i pazienti per poter mettere in pratica ciò che studia all'Università.
Essenzialmente i suoi pensieri rimangono all'oscuro, poiché si mantiene principalmente il punto di vista di Roxas, tranne magari nel finale; Axel non sa il motivo per cui Roxas sia all'ospedale, e non osa chiederglielo perché, probabilmente, non vuole sembrare eccessivamente indiscreto. Nonostante ciò, quando gli viene chiesto se nel cielo sono presenti delle stelle, pensa che forse Roxas non possa alzarsi a causa di qualche frattura alla gamba e gli propone di aiutarlo.
Le sue ipotesi vengono completamente ribaltate quando sente la risposta di Roxas e, soprattutto, quando accende la luce, notando per davvero quale sia il suo reale problema.
La cosa positiva è che alla fine Roxas si sfoga una volta per tutte, lasciandosi investire dalla disperazione e dalla microscopica speranza (?) che almeno può piangere in santa pace.
E niente, buh, fine dell'analisi, blbl.






Gente, ma bbboh, come si fa a non amare questi due insieme? Cioè, l'AkuRoku è una droga, non sto scherzando ;__; Su Tumblr ho scoperto da circa una settimana una ragazza inglese (O americana, buh) che disegna da Dio. Ha fatto un sacco di disegni sull'AkuRoku, mi sono messa tipo a scorrere tutto il suo blog per pescare tutte le immagini che ha fatto, anche le più vecchie, ohw. Sono spettacolari, giuro, il suo stile è qualcosa di... Di... Sublime, mio Dio, è uno degli stili più belli per Axel e Roxas. E poi posta nuove immagini quasi ogni giorno! 'Sta mattina ha messo un disegno talmente bello che mi ha commossa. Ciò che mi ha fatto venire i brividi non era solo il disegno, ma il fatto che avesse postato anche tutta la procedura. Bbboh, mi ha emozionata vedere come da qualche schizzo si fosse trasformato in un capolavoro.
E poi ho pensato alle mie storie, cavolo. Al fatto che comunque anch'io faccio il medesimo lavoro. Ad esempio, l'idea di questa storia mi è piaciuta, mi sono gasata parecchio quando l'ho tirata fuori, però, trascrivendola, ero sempre meno convinta. Temevo che stesse venendo una schifezza, infatti l'introduzione l'ho riscritta tre o quattro volte. Poi però, dopo aver terminato tutto, mi sono sentita addirittura fiera. Mi piace, tòh, ne sono contenta, cavolo.
Non c'è cosa più bella dell'arte, gente. Se sapete scrivere, disegnare, suonare, cantare, danzare, sfruttate le vostre doti al massimo perché la soddisfazione finale è qualcosa di emozionante ;w;
Saltando di palo in frasca (?), che altro dire, buh... Queste giornate non sono il massimo per me. Ahimè, questi sono ormai gli ultimi tuffi al mare. L'acqua è sempre più fredda, il cielo sta diventando buio sempre più presto e la sc...Scu... Okay, cercherò di non nominarla perché rischierei di vomitare. L'unica cosa che mi consola è il fatto che, fortunatamente, io e i miei compagni stiamo affogando sulla stessa barca di merda, dal momento che quasi nessuno ha fatto i compiti in maniera decente. Evviva lo Scientifico!
Quest'anno mi sa che finiremo al Plesso, che sarebbe un edificio vicino alla scuola -Cazzum, ho bestemmiato!- vera e propria. Il solo pensiero mi strazia a morte aodjweofjolszcjvo. Così saremo davvero inculati da resto del mondo, che palle, boh.

Vabbeh, dai, niente, credo di aver terminato. Auguro a tutti coloro che sono stati rimandati un grande buona fortuna per gli esami, uh-uh. 
E bbuh, in caso non riuscissi a pubblicare qualcosa prima, vi auguro buon rientro a scuol ehm, nel carcere, blbl. Per quanto riguarda ''Insidie Interiori'', il capitolo successivo è quasi terminato cc': Adesso ho proprio voglia di scrivere questa long! Dovrò solo ricontrollarla e correggerla, amen. Penso che aggiornerò per i primi giorni di scuolojfoeswjfoslmjv, una cosa del genere. Probabilmente avevo staccato per colpa delle fan fiction in inglese, ma fortunatamente l'ossessione mi ha lasciata in pace. -Mi sono disintossicata, olà!-




E niente people, come sempre vi incito, vi imploro, vi obbligo a recensire, poiché siamo su un sito in cui il confronto è ESSENZIALE. E anche perché mi sono fatta il culo sedere per scrivere questa storia; sia perché oggi ho mangiato come un tacchino ripieno (Boh, non lo so, per terminare questa storia sentivo l'istinto di mangiare), sia perché mi sono affogata di canzoni ultra-deprimenti, e ho addirittura riletto delle storie che mi fanno sempre piangere, pur di tuffarmi completamente (?) nell'atmosfera, ohw.

Detto questo, mi dileguo.
Alla prossima-!
E.P.R. 

 

   
 
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