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Autore: AgnesDayle    05/09/2013    3 recensioni
In un mondo universitario in fermento, un trilocale al terzo piano di una cadente palazzina ospita i continui battibecchi tra due ragazze molto diverse tra loro: Carla, iscritta al quarto anno di giurisprudenza, è una leader nata, dotata di grande carisma e portata per natura ad andare contro la maggioranza; Sveva, laureanda in Lettere Classiche, è una persona solitaria, taciturna, poco propensa a seguire la massa.
Il trilocale è poi costretto a sopportare un continuo via vai di persone: Gabriele, troppo preso dai suoi grandi ideali e dalle ragazze per potersi dire in regola con gli esami; Manfredi, schivo inquilino del piano superiore, dai modi a dir poco ostili; l’ex coinquilina Monica, dentista ancora prima della laurea; Andrea, dal futuro assicurato; La Scala, pericoloso assistente universitario.
Tra proteste e cortei, nuovi e vecchi amori, liti e ricatti, le vicende di chi va sempre e comunque in direzione ostinata e contraria.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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primo DC

In direzione ostinata e contraria

 

Suo fratello glielo aveva spiegato molti anni prima, uno dei primissimi giorni da matricola sperduta in quel mondo sconosciuto che era l’università. Aveva parlato con un leggero sorriso, ironico, perché in fondo credeva anche lui che quella fosse soltanto una stupida superstizione.

“Non importa quanto tu sia in ritardo per la lezione,” aveva esordito, facendola fermare bruscamente, “Non devi passare per il centro dell’atrio fino a quando non ti sarai laureata.”

Carla aveva aggrottato le sopracciglia e, scettica, aveva gettato un’occhiata di fronte a sé: era vero, l’atrio era praticamente deserto e gli studenti sembravano preferire il colonnato, nonostante questo significasse allungare il loro percorso.

“Se lo farai non riuscirai mai a laurearti,” l’aveva avvertita, continuando a camminare e facendole cenno di seguirlo.

Carla a quel punto l’aveva guardato con sufficienza e la sua sempiterna istintività l’aveva spinta a tirare dritto, in direzione del grande cancello da cui si accedeva all’aula magna, inaugurando così un’abitudine a cui non avrebbe mai rinunciato negli anni successivi.

Anche quel giorno di ottobre, con il cardigan stretto tra le mani per il gran caldo e la borsa di pelle che sbatacchiava contro il fianco, percorse l’atrio di gran carriera, senza curarsi degli sguardi che curiosi si posavano su di lei: non che quella curiosità fosse dovuta al suo disinteresse per la famosa tradizione, aveva ragione di pensare che dipendesse dal piglio agguerrito che doveva avere negli occhi, quella sicurezza che molti in quegli anni avevano imparato a conoscere e temere.

Salì in fretta la maestosa scala in marmo che tanti anni prima l’aveva messa in soggezione e, fedele alle sue abitudini, al bivio scelse la scala alla sua sinistra e tra le due porte d’ingresso quella alla sua destra. Si fermò un attimo, stordita dall’assordante cacofonia che regnava nell’aula: il familiare miscuglio di voci, sedie trascinate, risate e saluti che aveva accompagnato i suoi quattro anni di università.

Qualcuno tra le prime file le fece cenno. Puntuali come lei non sarebbe mai stata, Alessandra e Francesca non l’avvertivano nemmeno più quando le tenevano un posto: sapevano che non si sarebbe mai persa una lezione e che non sarebbe mai arrivata in tempo per trovare un posto a sedere. Mentre camminava verso le amiche, diede un’occhiata all’orologio e scoprì di non essere affatto in ritardo: erano le 10:45 e la lezione sarebbe iniziata alle 11. Forse in un altro posto questo sarebbe bastato, ma non lì e non per quella particolare materia: nonostante non fosse previsto dal regolamento di facoltà, la professoressa Testa aveva imposto la frequenza obbligatoria, costringendo ben quattrocento ragazzi a seguire le lezioni di Storia del diritto medievale.

— Alzati.

Mentre cercava di non calpestare i poveri sventurati costretti a sedersi a terra, una voce particolarmente sgradevole attirò la sua attenzione.

— Come scusa?— domandò una ragazza che sembrava appena essersi seduta.

— Questo è il mio posto e mi ero alzato un attimo per andare a fumare,— le rispose indispettito un ragazzo dalla figura allampanata.

L’altra si guardò imbarazzata intorno.— Ma guarda che non c’era nulla sulla sedia,— spiegò in difficoltà.

— Io sono venuto alle 8 per prendere posto e non me lo faccio rubare così…

Carla distolse lo sguardo da quella scena penosa e riprese subito a camminare, ancora più nervosa di quando era arrivata.

Stava quasi per arrivare al suo posto quando prese la sua decisione: non ci stava. Non era da lei stare in silenzio né poteva permetterselo, visto che era rappresentante degli studenti. Così, consapevole delle amare conseguenze che avrebbe pagato all’esame, raggiunse la cattedra e la temibile professoressa Testa.

— Professoressa.

La donna stava sistemando il suo prezioso impermeabile e l’immancabile Louis Vuitton sulla cattedra, con una cura maggiore rispetto a quella per i suoi studenti, costretti a stare per terra o all’in piedi.

— Mi dica,— rispose, rivolgendole uno sguardo infastidito: l’aveva già riconosciuta.

— Vorrei farle presente il disagio degli studenti. L’aula non è abbastanza grande,— iniziò a spiegarle con calma.

— Cosa crede, che a me faccia piacere questa situazione? Torno a casa con un mal di testa feroce praticamente ogni giorno!

Si costrinse a respirare e cercò di mantenere un tono ragionevole:— Tre ore di lezione per terra sono un po’ difficili da sopportare.

— Non è colpa mia se la facoltà non dispone di aule più capienti,— la liquidò.

— Ma è lei ad aver imposto la frequenza, quindi è suo dovere garantirci un’aula sicura e spaziosa.

Appena incontrò gli occhi inviperiti della professoressa, Carla seppe di aver già perso la possibilità di superare l’esame con un buon voto.

— Chi si stanca può anche andarsene.

Si fronteggiarono per un lungo momento, una offesa perché qualcuno aveva osato sfidarla, l’altra indignata da una simile noncuranza per il prossimo.

Sapeva cosa avrebbe fatto la stragrande maggioranza degli studenti: avrebbero chinato la testa, avrebbero preferito la strada più semplice, perché troppo abituati a “evitare il centro dell’atrio” per avere una reazione. Carla, invece, aveva sempre tirato dritto, incurante della supposta sfiga di cui tutti parlavano e così, anche quella volta, mettendo da parte le conseguenze delle sue azioni, scelse di andare dritto, in una direzione opposta a quella che avrebbero seguito tutti gli altri.

— Ragazzi,— esordì al microfono abbandonato sulla cattedra,— La professoressa ha detto che chi si stanca di stare per terra o all’in piedi può anche andare via. Non so voi, ma io credo che dovremmo andarcene tutti,— la sua voce, da sempre abituata a parlare davanti a folle di studenti, era risuonata forte e sicura,— Perché penso che chi è seduto oggi domani potrebbe anche arrivare tardi e quindi è interesse di tutti cambiare aula.

Lasciò andare il suo sguardo lungo le prime file: alcuni si alzarono praticamente subito, altri solo dopo esortazione dei vicini; c’era chi si consultava e chi le rivolgeva sguardi infastiditi.

— Se anche restasse un solo studente, io farò comunque lezione,— avvertì la professoressa, irritata.

Carla continuò a fissare i suoi colleghi con sguardo duro, di sfida e, mentre alcuni di loro sembravano accusarne gli effetti e raggiungevano la piccola folla che si stava raccogliendo fuori l’aula, c’era anche chi restava seduto. Non si sorprese nel trovare tra questi ultimi anche quella particolare persona: seduto in terza fila, con l’immancabile camicia e pantaloni scuri, Manfredi le rivolgeva il suo solito sguardo di sufficienza, quello che le riservava  da quando si erano conosciuti, quattro anni prima. Pronta come sempre ad accettare qualsiasi tipo di sfida, Carla alzò il mento, strinse le labbra e sostenne quello sguardo freddo per un tempo che sembrò allungarsi a dismisura, mentre intorno a lei qualcuno iniziava a urlare “fuori” ai colleghi rimasti seduti.

Poi successe qualcosa che non si sarebbe mai aspettata: Manfredi, sempre senza distogliere gli occhi da lei, si alzò lentamente e si sistemò la tracolla sulla spalla. Gli occhi scuri, la smorfia sarcastica sulle labbra e le sopracciglia appena arcuate le dissero che non credeva minimamente in quel gesto, ma che per quella volta—e quella volta soltanto— era disposto a concederle ciò che per lei, povera ingenua, sembrava contare così tanto.

— Se ha finito con i suoi comizi, io vorrei iniziare la lezione,— sbottò la professoressa, avvicinandosi al microfono.

Carla diede un’ultima occhiata all’aula: almeno cinquanta persone erano rimaste sedute e una ragazza che fino a quel momento era seduta sul pavimento adesso stava occupando il posto che Alessandra e Francesca avevano riservato per lei. Tutti sordi alle urla di chi era uscito: “fuori.”

Non li degnò di uno sguardo, quando percorse l’aula e  raggiunse gli altri colleghi, ma non poté fare a meno di pensare che in fondo i veri nemici non fossero la professoressa Testa e la sua arroganza, quanto piuttosto quel muro di indifferenza, quell’incapacità di provare anche una sola volta ad andare verso una direzione che non fosse quella più semplice.

***

Sua madre glielo aveva spiegato anni prima, una delle prime volte in cui si era offerta di aiutarla a preparare la cena. Aveva parlato con un leggero sorriso, dolce, perché in fondo sapeva che quello fosse il vero segreto della sua buona fama come cuoca.

“Non importa quanto tu sia in ritardo,” aveva esordito, con una mano posata gentilmente sulla sua, “Non avere mai fretta in cucina, trova il piacere in ogni piccolo gesto.”

Nonostante non le avesse mai dato retta, quel consiglio era rimasto sempre fisso nella sua mente così da ritagliarsi sempre il tempo necessario a cucinare qualcosa di buono. Detestava saltare i pasti e ancora di più mangiare i cibi surgelati che piacevano tanto a Carla.

Sveva amava andare al mercato, scegliere la frutta di stagione, litigare con il venditore che voleva sempre fregarla, ascoltare i consigli di quello che ormai l’aveva presa in simpatia; adorava tagliare le zucchine sottili sottili, pelare il pomodoro con cura e persino sgusciare i gamberetti. Cucinare, e ancora di più cucinare per qualcuno, era la cosa che più la rilassava al mondo.

In quel momento, però, nonostante ogni tentativo, non le riusciva proprio di rilassarsi e sospettava che questo avesse poco a che fare con i funghi un po’ molli che aveva comprato il giorno prima e molto, invece, con il malumore della sua coinquilina: la perennemente tesa Carla quel giorno sembrava fuori di sé, mentre andava su e giù per la piccola cucina del loro appartamento e inveiva contro una certa professoressa e certi suoi colleghi.

— E mentre lei continuava a fare lezione, voi cos’avete fatto?— domandò per fare andare avanti l’amica con il racconto. Altrimenti, con il suo amore per i particolari, avrebbero fatto notte.

— Ho portato alcuni ragazzi con me dal preside,— le spiegò l’altra, mentre portava alla bocca una manciata di cubetti di pancetta.

— Serve per la pasta!— la rimproverò Sveva, allontanandola dal ripiano. Carla era fatta così, non sapeva cucinare praticamente nulla e per sopravvivere mangiava tutto ciò che di commestibile trovava in frigorifero.

— Il preside ci stava per mandare via, ma appena ha sentito le parole “frequenza obbligatoria” ha capito che la faccenda richiedeva il suo interesse.

— Quindi la cosa si è risolta?

L’amica le rivolse uno sguardo intenerito.— Come sei ingenua e sprovveduta, tu…— la prese in giro, con una leggera pacca sulla spalla,— Il preside ha obbligato la professoressa a ritrattare in pubblico le parole che potrebbero dare dei problemi alla facoltà e a tranquillizzare gli studenti sul carattere facoltativo della frequenza, anche se di fatto non cambierà nulla e i non frequentanti non supereranno mai l’esame.

Sveva buttò i funghi in padella, facendo scostare rapidamente l’amica: la forte e combattiva Carla aveva il terrore degli schizzi d’olio bollente.

— Non capisco come fai a sopportare tutto questo.

Con la coda dell’occhio, Sveva la vide sospirare e per un attimo le vennero alla mente ricordi passati, quando l’amica portava i capelli castani sempre sciolti e una graziosa frangetta sugli occhi nocciola. Adesso, invece, i lunghi capelli tinti di rosso tiziano erano sempre raccolti e tirati indietro, conferendole un’aria perennemente tesa.

— Ci vuole diplomazia e pazienza,— le rispose dopo un po’,— E il vero problema non è neanche scontrarsi con l’autorità. Quello è stimolante, lo metti sempre in conto. Ciò che davvero pesa è l’indifferenza degli altri studenti. Nel resto d’Italia e d’Europa c’è un risveglio in atto, aria di cambiamento. A Barcellona, quest’estate, potevi avvertire la tensione per le strade, leggere la rivoluzione negli occhi e nelle parole dei nostri coetanei,— si lasciò andare a un sorriso nostalgico: quello che le illuminava gli occhi quando ricordava le settimane trascorse a stretto contatto con i leader del movimento parigino,— C’era voglia di ascoltare l’altro, soprattutto. Non si aspettava il turno per dire la propria, si cercava insieme una soluzione.

— Carla, ero lì con te e mi costringevi a farti da traduttrice, me lo ricordo fin troppo bene!— la interruppe guardandola male,— E come al solito stai descrivendo solo quello che hanno voluto vedere i tuoi occhi!

Dopo aver controllato la cottura della pasta, aggiunse:— Vai ad apparecchiare, è quasi pronto.

Si misero a tavola e Carla continuò a blaterare contro i suoi colleghi per tutta la durata del pranzo. Non che Sveva non ci avesse fatto l’abitudine ormai. Del resto non le dava nemmeno fastidio stare ad ascoltare quella che nel corso degli anni era diventata molto più di una semplice coinquilina. Certo, se pensava a come erano andate le cose all’inizio, quando ancora Monica occupava la terza camera del loro appartamento, faticava a credere che quella ragazza dall’aria battagliera fosse la stessa persona che un tempo era solita mettersi all’ombra dell’amica. Quanto le aveva disprezzate?

— Ho bisogno di riposare un po’,— si lamentò Carla, con un’occhiata verso la porta della sua stanza.

— Carla…

— Non iniziare!— la minacciò con una posata,— Mi aiutano a rilassarmi, mi conciliano il sonno!

— Ma se a volte tiri fino all’alba per leggere quella robaccia!— le rinfacciò senza nascondere una smorfia di disgusto,— Se non ti conoscessi, potrei prenderti per una donnetta insoddisfatta.

L’amica sbuffò, portando via i piatti sporchi.— Non posso farci nulla. Mi piace leggere roba seria, ma non disdegno neanche…

— Romanzetti rosa di quarta categoria?— le chiese ad alta voce,— Le storielle che Harmony spaccia per romanzi storici? Con la damigella in pericolo e l’aitante gentiluomo pronto ad assisterla e, all’occorrenza, farle alzare la gonna?

Non si prese nemmeno la briga di nascondere il suo divertimento, quando Carla tornò nella sala da pranzo e la fulminò con gli occhi: Sveva era una delle poche persone immuni allo sguardo inviperito della ragazza e ne erano entrambe consapevoli.

— Mi piacciono. Mi distraggono. Mi rilassano,— scandì lentamente con tono perentorio.

— E te ne vergogni infinitamente!— le schiacciò l’occhio mentre finiva di sparecchiare,— Tanto più che quando viene Gabriele ti preoccupi di nasconderli con molta cura.

— Ci manca solo che li veda Gabriele!

Sveva non poté  impedirsi di esprimere tutta la sua sufficienza.— Non capisco perché il suo parere conti così tanto. O forse hai paura che possa aver voglia di leggerli e prendere spunto per le sue discutibili tecniche di rimorchio?

— Si unirebbe a te per sfottermi da qui all’eternità. Solo questo.

Come al solito, Sveva continuò a punzecchiare Carla mentre era impegnata a lavare i piatti. Era più forte di lei: quell’assurdo amore dell’amica per quel genere di romanzi era un vero mistero. Era incredibile che una ragazza intelligente e volitiva come Carla riuscisse anche solo a tollerare quella roba melensa e banale. Una volta le aveva svelato che ci aveva anche provato a smettere, ma il risultato era stato disastroso: dopo due mesi di astinenza, era tornata a essere più fissata che mai e in una sola settimana era arrivata a leggerne una decina. Adesso, invece, se ne concedeva uno dopo una lettura più impegnativa o una giornata particolarmente stressante.

— Almeno sei andata dall’assistente?— le chiese Carla, sottraendola ai suoi pensieri.

— Vado domani,— sollevò le spalle noncurante.

— Sveva…

L’interessata la guardò divertita.— Che c’è, adesso è il tuo turno con le ramanzine?

— Sì, concedimi di recuperare un po’ di dignità!— le rispose con un sorriso ironico,— Dimmi, quanto ancora dovrai rimandare l’incontro con il temutissimo dottore La Scala?

— Te l’ho detto: mi ha avvisata senza mezzi termini che se fossi andata a ricevimento senza una buona idea non avrebbe collaborato con me,— ignorò l’occhiata scettica dell’amica e continuò a spiegare:— Lo so che non puoi capire, ma La Scala è uno più stimati esperti di letteratura greca della nostra facoltà ed è rarissimo che accetti di seguire uno studente per la tesi.

— Ma tu non hai dovuto insistere,— la guardò con un sorriso che mal celava un qualche tipo di orgoglio.

— Non significa che posso andare lì con la prima idea che mi passa per la testa!

Carla sbuffò, guardandola male.— Hai paura.

— No, io…

— Hai paura. Ma non hai alcun motivo, Sveva. Negli ultimi tre anni ti sei letteralmente chiusa in casa a studiare, per non parlare della tua media a dir poco imbarazzante: non sarà certo la tesi a darti problemi!

Sveva scosse la testa e, prima di lasciarsi andare a commenti poco educati, preferì lasciare la cucina. Carla non poteva capire e sarebbe stato superfluo spiegarle il motivo per cui la tesi contava così tanto per lei. Molto più della laurea in sé, a voler essere sincera. Aveva seguito le lezioni di La Scala con una devozione e una passione che aveva provato raramente nel corso dei suoi studi. L’amore e la foga con cui aveva analizzato le poesie struggenti di Saffo, il commento ironico alle commedie di Aristofane, il tono solenne con cui aveva recitato brani delle tragedie di Sofocle avevano acceso qualcosa dentro Sveva: una voglia di essere all’altezza di quello studioso, il bisogno di condividere con lui quella dedizione che anni prima l’aveva spinta a iscriversi a Lettere.
Sì, aveva paura. Ma non aveva nulla a che fare con la laurea o con i voti. Era solo la paura di rivelarsi maledettamente ordinaria agli occhi dell’assistente, di non essere in grado di parlargli da pari a pari, di essere come in fondo si sentiva dentro: mediocre.

***

Il romanzo procedeva come sempre: in quel momento i protagonisti si detestavano, ma Carla sapeva che presto sarebbe successa una qualche banalità che avrebbe portato entrambi a un amore di carta, un po’ melenso ma per lei rassicurante. E rassicurante era proprio la parola più adatta per descrivere quelle storie che tanto si vergognava a leggere. Per lei era come spegnere il lato più battagliero della sua testa e immergersi in un mondo semplice, bianco e nero…e rosa… tanto, ma tanto rosa.

— Caro Marchese, mi sa che dovrete aspettare per concludere…— mormorò mentre chiudeva il libro.

Il citofono iniziò a suonare proprio quando si era appena seduta alla scrivania, con il libro di procedura penale davanti. Tre scampanellate in rapida successione. Per l’esattezza, tre stramaledette scampanellate in rapida successione.

Si alzò rapidamente per catapultarsi da Sveva e impedirle di…

— Sì, aspetta che apro.

Troppo tardi. Sveva, la cui stanza era la più lontana dalla porta, come sempre e inspiegabilmente era arrivata prima di lei e aveva già aperto.

— È lei, vero?— domandò guardandola male.

Lei e la sua adorabile tripla scampanellata. Finalmente è venuta a prendere le sue cose.

Mentre Carla si sforzava di fare un respiro profondo a occhi chiusi, Sveva buttò lì con noncuranza la cosa peggiore che potesse dire in quel momento: — Ah, c’è anche il coso

Aprì gli occhi atterrita e non perse tempo a spalancare la porta e a origliare la conversazione tra le due persone che stavano salendo le scale in quel momento: Monica e Andrea.

— A un certo punto dovevi pur affrontarli…— disse Sveva con un’odiosa pacca sulle spalle.

— Fanculo!

Uscì nel pianerottolo e cominciò a salire le scale di corsa, mentre Sveva le borbottava dietro qualcosa che suonava come “molto maturo, Carla”.

Arrivata al quarto piano, stava tirando un sospiro di sollievo quando sentì Monica dire qualcosa che la terrorizzò: — Ma dove vai? Non è questo, è più su!

Carla non perse tempo a maledire la cretinaggine della sua vecchia coinquilina e si mise a suonare all’unico campanello dove non avrebbe mai dovuto suonare.

Fa che non apra lui. Fa che non apra lui. Fa che…

La porta si aprì. Mentre un paio di seri occhi scuri la fissavano, Carla decise che quella non era affatto la sua giornata.

Manfredi.

 

Note d'autore (perché a volte ritornano...):

Ciao a tutte! Negli ultimi tempi mi ero convinta che non avrei più scritto long per EFP, ma stamattina è successo l'impensabile: complice il maltempo, mi sono svegliata con la giusta ispirazione per portare a termine questo capitolo e, soprattutto, per mandare avanti questa long che avevo in mente già da tempo. Si tratta di qualcosa di  diverso da Down in a Hole, ma spero che darete una piccola chances anche a questi nuovi personaggi. Non vi nascondo che sono molto emozionata all'idea di cominciare un nuovo percorso qui su EFP e che c'è sempre quel pizzico di paura di annoiare o essere indifferente ai lettori. Spero che questo capitolo introduttivo vi sia piaciuto (se qualcosa non vi ha convinte, non esitate a farmelo sapere!) e che le mie due nuove disagiate vi abbiano incuriosito. 

Un bacio a tutte,

Agnes 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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