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Autore: keepxrunning    06/09/2013    10 recensioni
Jack Barakat non ha mai creduto al colpo di fulmine.
“Il colpo di fulmine è l’ennesima stronzata per far credere alla gente che l’amore esiste ancora, per produrre i filmetti-merdata che si guardano le tredicenni con la voglia di limonare e per abbordare le tipe nei night club sussurrando loro qualcosa di estremamente figo all’orecchio e poi portarsele a letto”. La filosofia perfetta.
Non esiste che semplicemente due persone incrocino lo sguardo e…puff!, mi vuoi sposare? Non ha senso. Non puoi innamorarti di una persona per come ti appare la prima volta che te la ritrovi di fronte; bisogna conoscerla l’anima gemella. Insomma, la persona con cui passare il resto della vita è la persona da conoscere come il palmo della propria mano.
Ma allora, allora perché d’improvviso si sente la persona più felice e fortunata al mondo? Perché non riesce a distogliere lo sguardo da quegli occhi straordinari? Perché quel sorriso gli provoca così tanti movimenti all’interno del suo stomaco, come un’intera squadra di ballerini di tip tap che picchiano insistentemente i tacchi contro le sue budella? Perché il cuore s’è come fermato, fermato tutt’ad un tratto? Perché?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alex Gaskarth, Jack Barakat
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Okay, salve.
Scrivo le note dell’autrice all’inizio perché mi dà al cazzo avere una storia che finisce in modo così perfetto ((seh)) ma poi le note alla fine rovinano tutto il momento. Il mio disagio ok capitemi. Non so, non so come mi sia uscita fuori questa cosa, davvero, non chiedetemelo, stavo pensando al capitolo successivo della mia ff e invece ho elaborato…beh, questo. Cioè che non si spiega proprio.
Ho cercato di fare del mio meglio, di descrivere i sentimenti più che potevo, di immedesimarmi in ‘sti due coglioncelli dispersi (che ho fatto avere 22 anni ma okay) e di ricordarmi Parigi. Ci sono stata tipo due anni fa ma non è che me la ricordi alla grande quindi se ho fatto una descrizione di merda, pardone mua, colpa mia.
Beh, enjoy, e se vi va di lasciare uno sputo di recensione, sarò moooolto felice di sapere che ve n’è parso.
Stay in drugs, don't do school
xøc  

 
 
I know I’ll go to Hell,
but at least I’ll be able to say
I’ve already seen Heaven meeting you.
 
 


Fa freddo.
 
Ma non quel freddo simpatico, quella brezza leggera che mentre cammini a testa bassa e mente pensierosa per strada ti accarezza le spalle e giocosamente ti scompiglia i capelli.
 
No, era proprio un freddo bastardo.
Il freddo da coperte lanuginose piene di pallini, da mettere sopra le lenzuola per dormire bene la notte.
 
Il freddo che ti fa rimpicciolire nel tuo cappotto consunto ed un po’ strappato su una manica, che sai dovresti buttare, è vecchio, dicono tutti, è l’ora di comprarne uno nuovo, su, ma ci si sta troppo bene dentro per separarsene, ormai ha preso le tue forme e contorni, e vecchio si sa, è più di buona qualità, non esiste che ne compri uno di quelli nuovi di ridicoli materiali e colori inguardabili, nossignore!
 
Il freddo che commentano tutti: vecchie signore nei ritrovi per le chiacchere settimanali, commesse annoiate in vena di ciarlare con le madri alla cassa, che hanno fretta, “Dio ma quanto parla questa”, ma hanno imparato ad essere donne, vere signore, e le vere signore, si sa, non interrompono mai, ascoltano gentili. Perciò forza, sorridi e partecipa un po’ alla conversazione, anche se, accidenti!, mio figlio esce dall’asilo adesso!, ho il pollo in forno che si starà bruciando!, devo lavare i vetri per l’incontro di sta sera!, “Dio ma quanto parla questa”.
 
Gli amici che s’incontrano, e loro no non ne fanno una tragedia: “Cazzo senti che freddo, ma come fai a stare così?” “Bah, io sto benissimo, sei tu che sei debole”, e giù ad amorevoli prese in giro, a spintoni leggeri con le spalle, ogni occasione è buona per fare un po’ gli stronzi. Ma in fondo, uh, con lui si che sto bene, posso fare l’idiota quanto mi pare, magari se poi gli viene freddo posso anche prestargli una mia felpa, ma sì dai, di sicuro, mica lo lascio morire assiderato. “Dai, muoviti però, che sennò il film comincia, siamo già in ritardo ‘ca puttana, poi ci stai tu nelle file dietro!” “Amico rilassati, ce la facciamo. Però tu fai la fila per i biglietti e io quella per i pop-corn”.
 
I fidanzati per strada, che camminano per mano, anche se se le gelano, chissene frega in fondo, l’importante è che le sue dita sono intrecciate alle mie, allora va bene tutto, allora possono anche esserci quaranta gradi sotto zero, ma se lei è accanto a me, con il suo naso arrossato dal vento tagliente e i capelli scompiglianti da quel berretto di lana che a me non piace tanto, ma d’altronde se lo deve mettere lei, poi le sta bene tutto cazzo, è bellissima, e…non hai freddo?, sì in effetti mi sto congelando, dai ti do la mia giacca, ma che sei matto che muori sul colpo, allora vieni qui che ci stiamo in due. E li vedi andare per il marciapiede spazzato dalle foglie, entrambi sotto lo stesso grande e informe cappotto di lana di lui, che a lei sta troppo grande ma ha il suo odore, e allora chi li separa più, e si baciano, e ridono, e sembrano così giovani ed innamorati, perché sì, in effetti lo sono, lasciamoli stare va, non diciamogli nulla, non incriniamo questo paradiso idilliaco tutto loro, sono felici.
 
Il freddo che punge crudele oggi Parigi è uno di quei freddi che ti fanno desiderare solo di tornare a casa, buttare tutto dove capita sul pavimento e all’attaccapanni e infilarti in una vecchia tuta di almeno due taglie più grande di te, recuperare la tua coperta preferita, munirti di cioccolata calda appena uscita dal pentolino sbeccato che la fa così buona e sprofondare nel divano davanti al dvd del tuo film preferito.
 
E invece, Jack Barakat si ritrova a fare tutto l’opposto.
Col suo fedele cappello di lana grigia a coste calcato ben bene in testa e la lampo dell’impermeabile – che, cazzo, non tiene un bel niente – tirata su fino alle labbra, cammina infreddolito per le strade principali della capitale francese, gli occhi rivolti alle punte delle sue consunte All-Star e le mani sprofondate nelle tasche.
“Il mio giorno libero, e doveva esserci ‘sto freddo della porca puttana” pensa, scalciando semi-rabbioso un sassolino minuscolo che aveva osato intralciargli il cammino frettoloso.
 
La gente in giro in questo periodo dell’anno non è mai molta come in piena estate, in primavera o in inverno, attorno a Natale, quando svariati turisti dalle diverse provenienze e nazionalità affollano le vie ed i negozi, i musei e i centri storici della metropoli. In quei periodi dell’anno era proprio difficile anche respirare in mezzo a tutta quella ressa. La metropolitana poi, era davvero invivibile: accaldata, con il suo soffitto basso e gli intrecci di scale e gallerie, era un vero e proprio nido di calabroni sotto forma di visitatori e cittadini che sfrecciavano fra una persona e l’altra, sicuri con la loro ventiquattrore e i loro abiti professionali; o si barcamenavano in giro chiacchierando e ridendo ad alta voce con un amico, borsa a tracolla o zaino gettato con disinvoltura su una sola spalla; o si guardavano intorno leggermente spaesati e confrontavano i tabelloni delle linee della metro con la loro mappa della città, cercando di trovare il giusto treno sotterraneo da prendere.
 
Ma novembre, novembre che mese è? Un mese inutile, di passaggio, solitario e ombroso, a cui nessuno fa caso finché non è passato e dicembre, il suo successore, irrompe gelido e spavaldo portando aria di festa e odore di neve.
Novembre non è il mese per gli incontri importanti, per le partite decisive del campionato che segui accanitamente fin da quando ti ricordi, per le verifiche a scuola che determineranno il tuo voto alla fine del quadrimestre.
Se l’anno fosse un grande college americano e i mesi gli studenti che lo popolano, novembre sarebbe tra quella categoria degli sfigati: quello che in classe se ne sta in una fila in mezzo, una postazione non ben definita, a rimpicciolirsi nella sua felpa fuori moda, sperando che nessuno lo noti, lo prenda di mira o che il professore di turno non lo interroghi, sennò sarebbero guai, perché si sa, lui è maledettamente timido e a spiccicare anche una sola parola di fronte a tutta la classe che sghignazza del suo imbarazzo impacciato e balbettante proprio non ci riesce. Sarebbe il classico lupo solitario e perdente che in mensa trova un tavolo tutto per sé in un angolo non ben in vista e consuma il suo pasto da solo col suo vassoio del cibo e l’ultimo libro del suo scrittore preferito. Insomma, sì, novembre è un mese così. Un mese abbastanza inutile, scialbo, blando e di passaggio.
Tutti ci sentiamo un po’ novembre a volte.
 
“Ehi, scusami?”
Jack sente una voce nuova irrompergli nel padiglione auricolare, dopo tutto quel silenzio interrotto solo dal sibilare del vento e lo stridio occasionale delle auto sulla strada bagnata.
Alza lo sguardo lievemente stupito.
E poi è come se il mondo si fosse fermato. Come se il vento avesse finito di fischiare. Le macchine avessero smesso di correre all’impazzata sulla strada. La poca gente che camminava spedita lungo i muri delle case si fosse immobilizzata. Non fa nemmeno più freddo.  
Davanti a lui, con un semplice ma elegante lungo cappotto grigio dai grandi bottoni neri e una sciarpa abbinata dello stesso colore, sta con lo sguardo sorridente un ragazzo. No no, Jack non sa nemmeno se sia reale. Non è un semplice ragazzo qualsiasi, è Il Ragazzo.
Capelli corti sapientemente scarmigliati che virano sul biondo e occhi nocciola – ma non un nocciola qualsiasi, non quel marrone banale; quegli occhi sono vivi, risplendono di luce propria, quegli occhi parlano e ridono da loro, sono la cosa più bella che Jack abbia mai visto, superano pure le stelle. Sono meglio di due stelle incastonate sul quel viso un po’ pallido e dalla forma perfetta. E all’improvviso Jack si rende conto che non vuole guardare occhi che non siano quelli, li vuole addosso tutta la vita, vuole affogarci dentro, vuole perdersi in quelle iridi dal perfetto color ambrato. È come guardare il sole senza però diventare cieco. O forse sì? Forse Jack sta diventando davvero cieco? Non lo sa, d’altronde vede solo quegli occhi come diamanti.
 
Quegli occhi, e quel sorriso che adesso si fa strada spontaneamente sul viso del giovane. E Dio, che sorriso. Tutto in quel ragazzo dal cappotto grigio sembra ricordare gli astri del cielo: quel sorriso risplende più di tutte le fottutissime comete che abbiano mai attraversato la volta celeste. Lascia scoperto una fila di denti bianchi e perfetti come perle e due minuscole fossette esplodono sulle sue guance che sembrano così morbide.
E un po’ a Jack vengono le gambe molli. Forse sta per svenire. Forse è già svenuto e quello è tutto un dannatissimo sogno perfetto che lo lascerà con l’amaro in bocca al risveglio. Forse è morto. Forse il castano con la sciarpa è un angelo. Forse è in Paradiso, sebbene crede che non se lo meriterà mai. 
 
Jack Barakat non ha mai creduto al colpo di fulmine.
“Il colpo di fulmine è l’ennesima stronzata per far credere alla gente che l’amore esiste ancora, per produrre i filmetti-merdata che si guardano le tredicenni con la voglia di limonare e per abbordare le tipe nei night club sussurrando loro qualcosa di estremamente figo all’orecchio e poi portarsele a letto”. La filosofia perfetta.
Non esiste che semplicemente due persone incrocino lo sguardo e…puff!, mi vuoi sposare? Non ha senso. Non puoi innamorarti di una persona per come ti appare la prima volta che te la ritrovi di fronte; bisogna conoscerla l’anima gemella, sapere praticamente tutto su di lei, sapere se preferisce il cioccolato fondente o bianco o semplicemente al latte, conoscere il suo film preferito da guardare insieme abbracciati sul divano, se il caffè lo prende forte e senza zucchero o è una di quelle persone che ci mettono di tutto -  zucchero, latte, dolcificante, panna e robe varie -, se il sabato mattina si sveglia presto per andare a fare un po’ di jogging o preferisce crogiolarsi nel tepore del letto fino a mezzogiorno. Se d’inverno, col freddo, dorme pure con i calzini di lana. Se per girare lungo le strade della città prende sempre la macchina oppure preferisce respirare un po’ di sano smog e aria andando in bicicletta. Se preferisce il mare, la montagna, un tranquillo lago o è uno di quei fanatici della città che se lo porti lontano da una rete wi-fi ti muore sul colpo. Che genere di musica ascolta, a quanti concerti è mai stato in vita sua, qual è il libro che l’ha fatto piangere di più, qual è il suo programma televisivo preferito o se la tv la odia proprio e la tiene perennemente spenta a far da polveroso soprammobile.
Insomma, la persona con cui passare il resto della vita è la persona da conoscere come il palmo della propria mano.
E il colpo di fulmine, beh, proprio proprio non esiste. Conoscete qualcuno che è mai stato colpito da questo strano “miracolo”? No. Perché semplicemente no, niente, non c’è storia, non esiste. Non esiste e basta, è una storiella e una fantasia amorosa.
 
Ma allora, allora perché d’improvviso si sente la persona più felice e fortunata al mondo? Perché non riesce a distogliere lo sguardo da quegli occhi straordinari? Perché quel sorriso gli provoca così tanti movimenti all’interno del suo stomaco, come un’intera squadra di ballerini di tip tap che picchiano insistentemente i tacchi contro le sue budella? Perché il cuore s’è come fermato, fermato tutt’ad un tratto? Perché, anche in mezzo a tutto quel vento freddo e il gelo irriverente, lui sente improvvisamente caldo e le mani sudate?
Perché?
 
“Sì?”. La gola è secca, ma la lingua impastata e imbarazzata nel muoversi su e giù e farlo parlare. Tutta via, si sforza di fare il sorriso migliore che riesce, non sa nemmeno perché. Sente di dover apparire al meglio con questo sconosciuto, vuole fargli una bella impressione, vuole che il suo sorriso risplenda almeno un quattordicesimo di quanto risplende quello del giovane. Umpft, impossibile, si dice.
 
“No, scusami, mi sono perso, queste strade sono un casino-” Jack lo interrompe lasciandosi sfuggire un sbuffo che vuole apparire come una risata: “Lo so, fidati, non è mai facile”.
“Tu vivi qui?” chiede quello, incoraggiato dalla simpatia improvvisa di Jack, sorridendo di nuovo. E Barakat, proprio nel momento in cui gli si piegano di nuovo leggermente le ginocchia, decide che farà qualsiasi cosa, farà lo spiritoso per sempre, dovesse anche mettersi in ridicolo, fintanto che il ragazzo col cappotto di lana resta lì di fronte a lui a sorridere.
“Sì, mi guadagno un appartamento lavorando in un piccolo negozio di cd – sorride – e cerco di laurearmi. Tu sei qui…”
“In viaggio universitario”
“Viaggio universitario, lo sapevo, hai la faccia”.
 
E poi esplode il Paradiso davvero: il giovane scoppia a ridere, allargando il suo sorriso e approfondendo le fossette. Getta leggermente la testa all’indietro e strizza gli occhi, e Jack si ritrova a sorridere come non ha fatto mai come un babbeo. Ma che cos’è cristo, si dice, che cos’è. È veramente troppo bello per essere vero. Vorrebbe allungare la mano e sfiorarlo, giusto per assicurarsi che non sia un elaboratissimo miraggio. Ha quella risata perfetta; né troppo forte e raschiante, né troppo leggera e femminile. Ti riscalda il cuore, te lo imbottisce di gioia talmente tanto che lo senti fremere come se stesse per esplodere.
 
“Davvero? E che faccia ho?”. Gli occhi gli brillano. Svelto Jack, svelto. Pensa a una risposta incredibilmente brillante e spiritosa, non importa quanto ti distraggano quei due diamanti là.
“Uhm…sai, ha quell’aria…un po’ vaga e da sto-studiando-intensamente-non-sono-in-giro-per-soldi-cosa-credi”.
“Wow, complimenti, che fiuto.” Ridacchia e subito quel suono viene catalogato come secondo miglior suono dell’intero universo dopo la sua risata vera e propria. “Però tu non ce l’hai l’aria da universitario studioso, mi dispiace, ritenta e sarai più fortunato”. Maledizione, è pure simpatico. Le ha tutte. C’è qualcosa di sbagliato in questo ragazzo?, pensa Jack mentre sorride grande.
“Ah, grazie, lo devo prendere come un complimento?”
“Sicuramente”.
 
E poi si fermano così, immobili e sorridenti l’uno di fronte all’altro. Gli occhi di Jack sono dannatamente incatenati a quelli dello sconosciuto simpatico in viaggio universitario, e ti prego, ti prego, ti prego – si ritrova a pensare – non interrompere il contatto, restiamo così, non distogliere lo sguardo, perché non mi sono mai sentito così incredibilmente debole e forte nello stesso momento.
Ma poi il ragazzo si riscuote e abbassa lo sguardo, prendendo ad osservare una cartina comparsa nelle sue mani affusolate non si sa quando. Jack si sente annaspare. Ha bisogno di quegli occhi, di nuovo. Sempre.
 
“Allooora…” fa incerto, aggrottando lievemente le sopracciglia ma riuscendo solo a sembrare ancora più bello agli occhi di Jack. “Sì, insomma, volevo chiederti se sapresti indicarmi la strada per il Museo d’Orsay. Sai, le strade qui sono un casino”.
Oh. Oh, certo. La strada. Quel ragazzo è venuto da lui con un preciso motivo: chiedergli indicazioni. Magari non era neanche “venuto da lui”, voglio dire, quante persone ci sono in giro a quest’ora della fredda giornata? Jack è solo il primo che si è trovato davanti.
E lo sa, sa che non dovrebbe starci male. Perché, poi? È uno studente conosciuto per caso. Anzi, nemmeno conosciuto. Deve solo dargli indicazioni. Perché, nel profondo, si sente tradito? Perché tutt’ad un tratto fottutamente inutile e patetico?
Fai ridere Jack, si dice. Finiscila.
 
Non sa nemmeno se sta indicando le strade giuste. Il ragazzo col cappotto lo scruta talmente intensamente che gli manca il fiato. Siamo sicuri che i suoi occhi non siano calamite? Non riesce a distogliere lo sguardo, non ci riesce proprio. Sente che potrebbe essere attirato così tanto da quegli occhi che si sbilancerebbe in avanti fino a venirne risucchiato dentro i bulbi oculari.
Sta cercando di tirarla per le lunghe, di prolungarsi in descrizioni dettagliate che si inventa sul momento, gli segna tutte le strade possibili ed immaginabili solo per poter restare a parlare con lui, a venir calamitato da quegli occhi e sentire le ginocchia cedere come per uno sgambetto davanti al suo sorriso disarmante.
 
“Ecco, e poi te lo ritrovi davanti. Non è difficile”. Non è difficile? Jack, sei proprio un coglione, si dice, mentre si mangerebbe pure i piedi per la stupidaggine cronica appena detta: gli ha indicato tutte le strade più intricate e ogni via possibile cercando di confonderlo e farlo restare, e poi gli dice pure che non è difficile. Sei proprio andato.
Il ragazzo dai begli occhi rimane un attimo perplesso. Si gratta lievemente la testa, inclinandola di lato. Dio, quanto è adorabile. Sembra impacciato, forse c’è qualcosa che non va. Ovviamente c’è qualcosa che non va idiota. Si dondola un po’ avanti ed indietro sulle punte delle sue scarpe da ginnastica, indeciso. Deve buttarsi? Forse dovrebbe, sì.
“Senti, mi ci accompagni tu?”
SÌ! SÌ CAZZO, SÌ! Vengo dove vuoi, ti accompagno pure i capo al mondo, ti porto dovunque ti piaccia, andiamo in uno stupido museo, andiamo in Antartide, andiamo  dall’altra parte del mondo, andiamo pure ai bagni pubblici, non mi interessa. Vengo dappertutto con te. Ti prego, sì sì sì sì. Subito. Vengo con te dovunque, adesso, sempre. Basta che stai con me.
“Onestamente, credo che senza una guida mi perderei. Ho un senso dell’orientamento peggio che pessimo. Cioè, voglio dire, se non hai nulla da fare. Non voglio importi nulla, chiaro, mi sento anche molto stupido, oddio penserai che sia un maniaco sessuale che non vede l’ora di portarti in uno sgabuzzino al museo e stuprarti…”. Sta cominciando a straparlare. E a Jack viene tanta voglia di zittirlo con un bacio.
 
“Ti accompagno volentieri”, fa con un sorriso da una parte all’altra del viso. Più che volentieri, anzi. Ti accompagnerei anche se non volessi. Mi attaccherei con la colla a te, pur di accompagnarti dovunque. Ma questo non glielo dice.
Il ragazzo si schiarisce il viso con un sorriso tutto fossette – bum!, cuore che esplode, splat!, budella che si attorcigliano, crack!, ginocchia che si spezzano definitivamente – “Davvero? Cioè, non ti pesa? Se hai altro da fare…”
“Ho la giornata libera oggi, e un cazzo da fare. No problem. Dai, vieni, ti porto ad acculturarti un po’.”
Il suo nuovo cliente scoppia a ridere talmente forte che Jack si sente letteralmente morire. Ma morire di felicità. Davvero, è una cosa strana. Non gli è mai capitato di piangere di gioia, o di sentirsi talmente bene da scoppiare, da essere direttamente spedito in Paradiso. E con quello sconosciuto invece, è sempre così. E non è un Paradiso normale la sua destinazione. È un Paradiso extra-lusso. Super luccicante e soffice, con case fatte di pizza e caramelle alla coca-cola al posto delle gocce di pioggia quando piove. Okay, sta uscendo fuori di testa. È colpa di quel ragazzo. E della sua risata paradisiaca.
“Oh, grazie mille allora, sarà un onore”.
 
Non sa quando si sia esattamente innamorato di quel ragazzo dal cappotto grigio e le scarpe macchiate d’erba. Non sa quando, di preciso, ha deciso che vuole passare il resto della sua vita con lui. Sarà stata una delle volte in cui quel ragazzo ha sorriso e a lui si è gonfiato pericolosamente il cuore. Sarà stato quando ha guardato per la prima volta quei pozzi luccicanti d’oro che ha al posto degli occhi. Sarà stato grazie alla sua risata trascinante e coinvolgente, che fa venir voglia a Jack di mettersi a ballare e non smettere più. Sarà stato ascoltando la sua voce riempirgli il vuoto che si trascinava dentro da sempre. Sarà stato guardandolo passeggiare al suo fianco mentre si meravigliava delle bellezze di Parigi pure in quella stagione triste, indicando a Jack le cose che lo estasiavano di più, mentre lui gli spiegava tutto ciò che sapeva, come ad un bambino piccolo. Era adorabile, di nuovo.
 
Sarà stato quando, prendendolo per mano e trascinandoselo addosso, l’aveva tolto dalla strada sulla quale stava per passare una macchina.
“No, davvero, dai, te lo dico io, sembra una ciambella, credimi”.
Jack è scoppiato a ridere incontrollabilmente. “Non sparare cazzate, dai”.
“Aaah, non credermi, ma io te l’ho detto”.
“E se invece…” era stato un attimo. Stavano attraversando la strada fianco a fianco, e Jack si era stupidamente fermando un po’ in mezzo quando si era messo a ridere. Mossa idiota, certo, ma nell’ultima ora gli si era sconvolto tutto.
Un clacson assordante. Una luce che lampeggiava allarmante. Una mano forte e sicura che afferrava la sua. Qualcuno che urlava qualcosa. Poi solo la strana sensazione di essere trascinato bruscamente in avanti, talmente in fretta che i denti minacciarono di schizzargli fuori dalle gengive. E un braccio attorno alla vita e la sua faccia premuta contro qualcosa di solido e maledettamente profumato.
 
Il suo salvatore ha guardato in basso e Jack in alto, troppo scioccato per staccarsi dal suo petto. Lui. È stato lui. Lui l’ha preso per mano e l’ha stretto forte a lui. L’ha stretto a lui. È stretto a lui. Jack è davvero stretto a lui.
“Attento, genio” fa il ragazzo sorridendogli dolcemente. Tuttavia non lo lascia andare. Per quel brevissimo tempo fra le sue braccia, il tempo si è come fermato. Quasi non ha sentito lo stridore delle ruote della macchina sorpassandoli o le imprecazioni in francese che l’autista ha rivolto loro. Non ha sentito il vento fischiare, o i passi della gente che si trascinava in giro al freddo. Non ha sentito il gatto che sgusciava fuori da un vicoletto buio secondario miagolando intensamente. Non ha sentito lo sbattere delle tovaglie fuori dalle finestre aperte per scollarle dalle briciole, da parte di alcune vecchie signore. Non ha sentito niente, non ha percepito niente. Se non il suo cuore in corsa folle che gli rimbombava nei timpani e il profumo di quel ragazzo che aveva conosciuto da appena un’ora e già l’aveva fatto scampare da una brutta fine certa.
Sì è tirato su in imbarazzo e con le guance infuocate: “Scusami. Dio mio, grazie mille. Rischiavo di finirci secco. Grazie, davvero. Che idiota sono”.
Il sorriso del suo salvatore si è ingigantito e addolcito ancor di più,  se possibile. “Beh, mica potevo lasciare a morire l’unico tipo che può accompagnarmi in giro! Figurati”.
 
Non lo sa. Non lo sa davvero. Sa solo che ha disperatamente, assolutamente, totalmente, bisogno di quel ragazzo ora e per tutte le ore successive che riempiranno la sua vita.
 
Quando escono dal museo, ormai s’è fatto buio. I lampioni brillano come tante lucciole a distanza costante lungo il marciapiede, completamente spazzato da il vento che ha continuato a soffiare per tutto il giorno. La temperatura si è ulteriormente abbassata, e Jack è costretto a ficcarsi ben bene le mani in tasca mentre per respirare produce nuvolette di vapore che si disperdono davanti alla sua bocca screpolata. La gente continua ad essere rada, ma sono tante le luci che illuminano di un alone caldo e aranciastro le finestre coperte dalle tende degli alti palazzi, dei grattacieli eleganti e slanciati o delle casette accoglienti con un piccolo giardino curato davanti, pieno di rose rampicanti ed edera.
Da dove sono loro la Tour Eiffel illuminata a giorno non si vede, e a Jack dispiace un po’: vuole davvero condividere quello scenario con il ragazzo dal cappotto di lana.
 
E adesso?, si chiede. Cosa sarebbe successo adesso? Devono separarsi così? Deve lasciare andare in questo modo quella persona che è diventata il suo universo intero in poche ore? Un senso di nausea mista a panico comincia ad intasargli la gola. No, no, no, no, no, no, NO. Non può permetterlo. Deve fare qualcosa. Deve assolutamente fare qualcosa adesso.
Stanno camminando più lentamente che possono verso la stazione metropolitana, con quel ragazzo bellissimo che continua a indicargli le cose che lo lasciano senza fiato e Jack che trova ogni scusa buona per fermarsi anche almeno un secondo: aspetta, mi si sono slacciate le scarpe; oh, toh, una monetina; mamma che freddo, mi si stanno congelando i piedi, fermati un secondo; oh guarda che figo ‘sto graffito!
Il senso di panico cresce e cresce sempre più, come una piantina nel suo stomaco annaffiata dalla paura di perderlo e accudita da una premurosa ansia spaventosa. Il ragazzo al suo fianco sta ancora parlando, stanno entrambi ancora parlando, con spensieratezza, con leggerezza, del museo, delle cose che hanno visto, delle cose che faranno domani, di loro, degli altri, di musica, della vita. Jack si trova così bene a parlare con lui. Non si è mai aperto in modo così facile con qualcuno, a quel ragazzo sconosciuto fino a ieri ha detto più cose di quante ne abbia mai dette ad un suo amico di vecchia data. E poi, ci sono veramente tantissime cose da dire se non ci si vede da una vita.
Non vuole lasciarlo andare, punto. Non vuole e basta. Non può nemmeno. Sarebbe da stupidi, incredibilmente stupidi. Chi lascerebbe mai andare la cosa più bella che gli sia mai piombata addosso in cappotto e sorriso da Paradiso in vita sua? Nessuno. Perché non si può. Non si può e basta. È controproducente. E stupido. E ti fa sentire come se stessi annegando nelle acque glaciali del Mare del Nord, con gli squali assassini e spietati che ti circondano danzandoti attorno in circolo.
E Jack sta proprio per tuffarcisi dentro.
 
“Beh, il mio treno passa fra un minuto”, fa Alex con un sorriso un po’ triste, indicando con un suo dito perfettamente affusolato il display degli arrivi che incombeva su di loro dal soffitto, in tutta la sua rappresentazione dei sogni di Jack che si incrinavo pericolosamente e la piantina di Panico che cresceva e vista d’occhio dentro il suo costato.
“È stato… - fantastico. Perfetto. Unico. Straordinario. Da rifare tutto il giorno per tutti i giorni. La miglior cosa che mi sia mai successa in ventidue anni. – piacevole conoscerti”, dice Jack porgendogli la mano.
Piacevole? La mano? Gli hai davvero detto così? Lo stai lasciando andare? Lo stai davvero lasciando andare Jack Bassam Barakat?
“Anche per me, davvero molto. Grazie per avermi accompagnato, non so cosa avrei fatto senza di te”, risponde l’altro stringendogli la mano che gli ha dato. Io invece non so cosa farò da questo momento in poi senza di te, si ritrova a pensare Jack mentre non vuole lasciar andare la sua mano.
 
E poi, come la morte che avanza a velocità supersonica, il treno sotterraneo arriva in una folata selvaggia di vento che scompiglia i capelli ai due ragazzi e alla gente presente. Le porte si aprono rapide e tutta la poca folla pronta a tornare a casa dopo un’esaustiva giornata di lavoro o ad uscire appena si è messa il vestito da sera a casa comincia a sciamare velocemente dentro.
Il ragazzo di cui sta ancora tenendo la mano imbambolato viene spintonato ed è costretto a mollare la presa e a procedere all’indietro verso la stretta entrata della metro. I suoi occhi color ambra sono come incatenati irrimediabilmente ai suoi. E quella che ci scorge in fondo alla sua pupilla cos’è, disperazione? Paura? Dolore? Forse è solo uno stupido scherzo delle luci accecanti al neon appese al soffitto crepato.
Tutti salgono sul treno rapidamente, e Jack rimane là solo come un cane sul pavimento di piastrelle bianche e blu, dietro alla linea gialla di sicurezza, a guardare l’amore della sua vita sistemarsi in piedi dietro il finestrino e continuare a fissarlo con quegli occhi che gli stanno provocando scosse dappertutto. Sembrava tanto un addio definitivo e si sentì spremere il cuore come un limone. Gli pareva di percepire la voglia di balzare sul quella metro che glielo stava portando via circolare in tutte le vene, girargli per i capillari dell’intero corpo, pompargli nel sangue e urlargli disperatamente che se non l’avesse fatto adesso l’avrebbe perso per sempre.
 
Il nome. Il suo nome. Non sapeva nemmeno il suo fottutissimo nome.
La concretezza di quel fatto lo colpì in pieno viso come uno schiaffo violento. Aveva trascorso l’intero giorno con un ragazzo di cui non conosceva nemmeno il nome. Anzi, peggio, si era innamorato follemente di un ragazzo di cui non conosceva nemmeno il nome.
“Aspetta!”, urla avvicinandosi più che può al treno e cercando di farsi sentire dall’amico (può chiamarlo così? Non lo sa nemmeno lui) attraverso il vetro. “Il tuo nome! Non so come ti chiami!”.
Ma qualcuno, là su, deve proprio avercela a morte con lui. Perché proprio quando il ragazzo nella metro con i palmi delle mani premuti sul finestrino sporco apre la bocca – la sua perfetta bocca da baciare – per parlare, il treno parte a velocità assurda, sfrecciando via nel buio della fredda galleria e lasciando Jack lì, le mani abbandonate lungo i fianchi in un gesto disperato e l’immagine della persona che gli ha rubato il cuore in un pomeriggio ancora incastrata nella retina degli occhi.
E sapete come ci si sente a sentirsi il Paradiso scivolare fuori dalle dita?
Ti strappa il cuore con i denti e lo getta sulle rotaie lì vicino, per vedere il prossimo violento treno e tutti i successivi passarci sopra incuranti.
 
 
 
Era la successiva, ennesima, ventosa mattina dopo.
Alex se ne stava in piedi nel tram, una mano ad aggrapparsi saldamente ad un palo di acciaio dipinto di giallo e il cuore altrettanto in cerca di qualcosa per sé a cui aggrapparsi per non cadere a pezzi.
Non lo rivedrò mai più, pensa. A dir la verità, non era la prima volta che lo pensa. E di sicuro non è l’ultima. Quella frase gli è lampeggiata in testa come un’insegna al neon fuori da un night club di grande fama per tutta la sera prima, in metro, lungo la strada per raggiungere il bed and breakfast dove sta, dentro il box appannato e fumante della doccia, in camera sua mentre camminava nervosamente in circolo con la disperata voglia di gettarsi a terra e piangere, a letto sotto le coperte, con gli oscuranti chiusi ma gli occhi spalancati. Non li ha mai chiusi per tutta la notte. Forse magari per qualche minuto verso le sei, quando le occhiaie erano diventate troppo profonde e il bisogno di sonno troppo disperato. L’immagine di quel ragazzo con il cappello grigio e il sorriso come il sole l’ha perseguitato per tutto il tempo da quando l’ha lasciato alla stazione metropolitana ad adesso, che se ne sta col cuore pesante e il viso spento dentro al tram.
 
Non ho il suo numero, non so il suo nome, non conosco il posto dove abita. Si sente come alla disperata ricerca di qualcosa che non conosce, come se stesse cercando di riportare alla mente il viso di una persona che non ha mai conosciuto.
Non può averlo perso così. Il ragazzo che l’ha guardato come non l’ha mai guardato nessuno. Il ragazzo il cui sorriso è il più bello che abbia mai visto sul volto di qualcuno. Il ragazzo che è riuscito a sapere più cose di lui della sua stessa madre. Il ragazzo che gli ha parlato e gli ha sconvolto pure la disposizione dei Pianeti nel Sistema Solare. Lui. Semplicemente lui.
E non posso nemmeno dargli un fottuto nome!
Cosa ne farà del resto della sua vita? Ha solo ventidue anni ed si sente già perso. Senza il ragazzo dal cappello a coste è perso. E perché? Perché è stato talmente stupido da innamorarsi di lui, follemente, disperatamente, terribilmente ed irreversibilmente. Come si fa a lanciare il proprio cuore nelle mani di una persona appena ti sorride? Non si può. Non si deve, più che altro. Perché se quella persona ti sta accanto per un solo giorno, ti sorride illuminando persino gli angoli più bui dentro di te, ti porta in giro per la sua città, ride con te, si avvicina a volte talmente tanto che senti le mani formicolarti per il desiderio di prenderlo e baciarlo, sa come aprire il tuo cuore e portarselo via, ma poi ti mette sulla prima metro di ritorno alla tua vuota vita e resta a guardarti da dietro il finestrino, immobile dietro alla linea gialla dipinta sul pavimento senza muoversi, tu cosa devi fare? Cosa puoi fare? Cosa sarebbe giusto che facessi?
Alex non lo sa. Ed è questo che lo frustra di più, oltre ad aver perso l’unica persona con cui avrebbe passato volentieri i successi pomeriggi del resto della sua vita, il fatto di non sapere. Non sapere che fare, non sapere come si deve sentire, non sapere come si chiama quel ragazzo, non sapere il suo numero, non sapere l’indirizzo del suo appartamento per correre là a capofitto e urlargli dalla finestra che lo ama, che lo ama più di qualsiasi altra persona, che vuole stare con lui, che vuole lui, che vuole tutto di lui, pure i difetti, pure le cose più futili e brutte – che veramente in lui proprio non le ha viste -, basta che ci sia lui, insieme ad Alex, per il resto della loro esistenza. Non sapere cosa farne del resto della vacanza, dell’anno, e di quello successivo, e di quello dopo ancora e ancora e ancora. Non sapere nemmeno cosa vuole fare oggi, con quel vuoto fottutamente incolmabile proprio a sinistra del petto e la voglia di dormire per sempre.
 
Alex guarda fuori dal finestrino sconsolato, e si chiede quanto male gli farebbe se si gettasse improvvisamente fuori. Il dolore della caduta fermerebbe almeno per un po’ quello che sente dentro, che gli riempie il cuore, che gli arriva dentro alle ossa fino al midollo, che si sostituisce all’aria nei polmoni, che gli rende i piedi di piombo e la testa troppo pesante?
Case, edifici, palazzi, alberghetti, giardini, caffè, farmacie, negozi di ogni genere sfrecciano al di là del vetro cristallino. Alex nota un negozio di musica davvero carino addossato ad un vecchio bar, con l’insegna bianca e le scritte nere, tanti cd esposti negli scaffali, i clienti dentro che gironzolano in giro fra espositori e cuffie di diverso genere, un ragazzo con un cappello grigio calcato in testa che esce dalla porta con lo sguardo basso…
Fermi tutti.
Quello non è un ragazzo. Quello è il suo ragazzo. Il ragazzo dal capello a coste grigie.
Alex sente il vuoto che si ritrovava fino a pochi secondi prima al posto del cuore colmarsi improvvisamente, mentre tutti gli organi interni schizzano in gola.
E in quel momento, in quel preciso istante, mentre vede quella figura allontanarsi a passo strascicato dal negozio, sa esattamente cosa fare.
 
Pigia con più irruenza possibile il tasto rosso di fermata sul suo palo, e con un balzo salta giù dal tram che si ferma. Vede tutto sfuocato. I pensieri turbinano in testa come un tornado estivo. Il cuore ha ripreso a battergli, lo sente, lo sente fortissimo, perché vibra intensamente, vibra e pulsa come non ha fatto mai, ha ripreso vita, ha ripreso vita grazie al ragazzo dal nome sconosciuto fuori dal negozio di cd.
Attraversa la strada, incurante dei clacson mattinieri e delle biciclette che gli sfrecciano attorno  come api infastidite.
Dov’è. L’ha perso di vista in una piccola folla. Dove cazzo è.
Spintona, spinge, chiede sgarbatamente di passare, corre come non ha mai corso in vita sua. Ora nella sua testa tutto si è fatto più limpido, l’unico pensiero che rischiara ancora tutto è: lui. Devo trovare lui. Devo trovare lui e tutto si sistemerà.
Schiva vecchie signore con il trolley per la spesa quotidiana, mamme che trascinano dietro bambini trotterellanti e piagnucolosi, ragazzi sullo skate dalle acconciature alternative, uomini d’affari con lo sguardo d’acciaio e la valigetta di pelle, lavoratori e artisti, scolari e fidanzati.
Finché, ad un tratto lo vede.
Cammina pochi metri davanti a lui, le mani rannicchiate nelle tasche dei suoi jeans, sguardo alla punta delle scarpe e cappello che gli ripara le orecchie dal freddo. Dio, quanto è bello. Pure vederlo camminare è uno spettacolo.
Alex non ha nemmeno un attimo di esitazione, ormai sa cosa fare. Sa cosa fare per riprendersi la persona che gli ha preso in custodia il cuore e non gliel’ha restituito. O la va o la spacca. E Alex spera tanto che la spacchi, che la spacchi di brutto.
 
“EHI! EHI!”.
E lui si gira.
Ed Alex non sa cos’è più bello.
Se lo sguardo di puro stupore e meraviglia che gli si dipinge in volto.
Oppure il suo sorriso sincero, il sorriso di chi ha perso la sua penna preferita fra i banchi di scuola ma adesso l’ha ritrovata, è là, sul pavimento, pronta ad essere raccolta e riutilizzata.
O il modo il cui i capelli gli circondano perfettamente il viso.
O la sua pelle, la pelle candida che brilla come la rugiada su un bucaneve una mattina di inverno.
O la maniera in cui il giubbotto gli sta perfettamente, gli fascia le spalle larghe e gli abbraccia morbido le braccia magre.
O la sua posizione, la posizione impacciata e sbalordita che ha assunto nel vederlo.
Alex non crede di aver mai visto qualcosa di tanto bello. E il cuore, dopo una corsa folle, gli si blocca per un po’.
Si avvicina silenziosamente, il sorriso sulle labbra del ragazzo che si allarga e il suo passo che diventa man mano più sicuro. È vicino, si dice. Il Paradiso è vicino.
 
“Fondente, montagna, La vita è bella”.
Il ragazzo di fronte a lui, da estasiato passa a sbigottito. La folla intorno passa con un metro di distanza, lasciandoli in un piccolo circolo fuori dal mondo. La gente rumoreggia. I cani a passeggio con i padroni abbaiano. Le macchine e i diversi mezzi di trasporto sfrecciano veloci e sicuri lungo la strada. Le porte dei negozi sbattono chiudendosi e aprendosi. I semafori cambiano colore, passando dal verde al rosso al giallo e poi di nuovo tutto daccapo. Ma Alex vede solo il ragazzo in fronte a lui.
“Il mio gusto di cioccolato preferito, dove mi piace di più andare in vacanza, il film che amo maggiormente in assoluto. Sono cose che devi sapere quando trovi l’anima gemella”.
E allora lui sorride, sorride come non gli hai mai sorriso. E Alex non ha mai avuto tanta voglia di urlare al mondo che lo ama, cazzo, lo ama, come quanta ne ha adesso.
“Al latte, mare, Bambi”.
“Bambi?”
“Oh, sta’ zitto e baciami”.
E Alex lo bacia sul serio.
E in quel momento sa precisamente che sapore ha il Paradiso. 
  
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