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Autore: Molly182    10/09/2013    2 recensioni
Ispirata dalla canzone "Surrender" dei Billy Talent.
Lo guardavo dall’altra parte della strada. Ormai era diventato una sottospecie di rituale quello di passare i pomeriggi in un pub di Thames Street a osservare il bar davanti a esso. Per l’esattezza, mi perdevo a fissare qualcuno che era riuscito a rendere le mie ore pomeridiane decisamente più piacevoli.
Genere: Romantico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alex Gaskarth, Jack Barakat
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(Surrender) yourself to me
N/A: Ecco beh, questa volta l’ho messo all’inizio della storia solo perché ho pensato di dire due cosette sulla FF.
Per prima cosa, ho utilizzato la canzone “Surrender” dei Billy Talent (tratta dal loro album “Billy Talent II”) perché è semplicemente fantastica e se non l’avete ancora sentito, beh… dovreste! Non è una song-fiction, è soltanto una banalissima one-shot ispirata alla canzone.
E come seconda cosa, la storia è scritta secondo il punto di vista di Jack Barakat (ma che novità).
Spero che vi piaccia e che mi facciate sapere cosa ne pensiate. Siate gentili con me, vi pregooo :)
 
Lo guardavo dall’altra parte della strada.  Ormai era diventato una sottospecie di rituale quello di passare i pomeriggi in un pub di Thames Street a osservare il bar davanti a esso. Per l’esattezza, mi perdevo a fissare qualcuno che era riuscito a rendere le mie ore pomeridiane decisamente più piacevoli.
Mi sentivo un po’ un guardone, ed eppure non potevo farne a meno, come se ci fosse una grossa calamita, come quelle che si vedono nei cartoni animati, con le due estremità colorate, puntare dritta verso di me.
Era diventato il mio passatempo preferito guardarlo, mentre vari pensieri mi accompagnavano insieme a un bicchiere di birra.
Tuttavia, con il passare dei giorni mi ero sempre più convinto che io e quell’estraneo fossimo esattamente come la convergenza artica. Mi aveva sempre affascinato il modo in cui il Mar del Nord s’incontrava con il Mar Baltico e non si fondevano tra di loro, ma, a causa delle differenti temperature e densità, restavano separati a vista d’occhio. E così eravamo noi due! Costretti – in un certo senso – a stare insieme senza mai averne davvero la possibilità. Tuttavia essa c’era, ma mi mancava il coraggio di attraversare la strada e andargli a parlare. Anche se avevo perso parecchio tempo a immaginare il suono della sua voce.
Portai il bicchiere alla bocca e bevvi un lungo sorso di birra per poi vagare con lo sguardo tra le poche persone che stavano all’interno di quel Coffee Shop. Seduti a un tavolo vicino all’ingresso, dei bambini, con il muso tutto sporco, stavano mangiando delle gustose coppe di gelato alla fragola e al cioccolato. Un gruppetto di donne spettegolavano sulle loro amiche e si lamentavano dei loro mariti. Un’anziana, accompagnata dal suo compagno, era intenta a bersi una tazza di the con dei deliziosi dolcetti, mentre l’uomo davanti a lei sorrideva amorevolmente. Erano il ritratto dell’amore.
E poi c’era lui. Un ragazzo che appariva così calmo. I capelli gli incorniciavano perfettamente il viso mentre un ciuffo castano continuava puntualmente a ricadergli davanti agli occhi e con un gesto meccanico, quasi maniacale, continuava a sistemarlo. I suoi occhi erano attirati dal libro che teneva in mano, uno nuovo ogni settimana, e sorrideva ogni volta che voltava pagina mentre beveva un sorso di caffè dal bicchiere che aveva davanti. Riuscivo a scorgere una maglietta a righe bianca e blu e un jeans chiaro, ma ancora non ero riuscito ad ammirare il colore delle sue iridi.
Ogni tanto vedevo che qualche ragazza lo fissava da lontano, esitante sull’avvicinarsi, come se temesse di dirgli anche un semplice «Ciao…». Pensai che anch’io avessi quello stesso problema e probabilmente era dovuto dalla sua aria assente o forse semplicemente era il timore di disturbarlo mentre leggeva, ed era forse per questo che nessuno si avvicinava a lui esclusa la cameriera che ogni tanto lo raggiungeva per riempirgli la tazza con del caffè caldo, l’unica a ricevere un sorriso che celava tutta la sua gratitudine.
Ed era proprio il suo sorriso che non riuscivo a togliermelo dalla mente e non riuscivo a spiegarmi il motivo. La prima volta che glielo vidi fare ero rimasto sbalordito dall’effetto che mi aveva suscitato semplicemente schiudendo le sue labbra a una sconosciuta. Avevo iniziato a sentire un forte dolore al cuore, come se fossi in procinto di avere un infarto, ma era un tipo di dolore totalmente diverso. Era piacevole, facilmente sopportabile. Mi aveva completamente riscaldato il petto e annebbiato la mente per qualche minuto. L’unica cosa che mi ricordo di quel momento era la voglia di avvicinarmi a quella vetrina e toccare con le mie stesse dita le sue labbra, come per confermare se fossero vere o soltanto un frutto della mia fantasia.
E non sapevo come spiegare questo fatto. Forse mi ero innamorato, ma non avevo mai capito quando avevo iniziato ad amarlo. Mi sembrava tutto così confuso eppure il fatto di ritrovarmi ogni giorno in quel pub e sperare che quello sconosciuto si fosse seduto davanti a me voleva pur significare qualcosa.
Bevvi un altro sorso di birra e per poco non soffocai quando notai che il ragazzo aveva alzato lo sguardo verso di me e mi fissava dall’altra parte della strada. Cercai di muovermi il meno possibile. Non volevo che scoprisse che lo stavo osservando. Sarebbe stato imbarazzante e difficile da spiegare. Come avrei spiegato a uno sconosciuto che lo stavo osservando da diversi giorni soltanto perché mi piaceva il suo sorriso? Era da pazzi e anche da maniaci. Da far accapponare la pelle.  Ed io non volevo proprio farlo scappare. Volevo godere ancora di quella bella visione come se fosse il miglior quadro mai dipinto nella storia, come se fosse un reale Botticelli o un Van Gogh appena trovato. Volevo svelare il mistero dietro al suo sorriso indecifrabile.
Ero rimasto sorpreso nel vederlo sorridere proprio a me, piegando leggermente la testa da un lato e sistemarsi nuovamente il ciuffo che gli era caduto puntualmente davanti agli occhi. Aveva un’espressione così calma e… dolce. All’improvviso, quella strana sensazione che avevo provato qualche giorno fa, si era di nuovo fatta viva, probabilmente colorando anche le mie guance.
Cordialmente e impacciato ricambiai il sorriso e alzai lievemente il bicchiere di birra come cenno di saluto.
Incapace di reggere i suoi occhi lontani, abbassai immediatamente i miei e cercai di distrarmi bevendo un lungo sorso del liquido dorato all’interno del boccale, ma quando rialzai lo sguardo, per sbirciare se il ragazzo mi stesse ancora guardando, notai che aveva chiuso il libro e che mi fissava ancora, come se stesse aspettando una mia possibile mossa.
In quell’istante mi misi nei suoi panni. Ora sapevo perfettamente come ci si sentiva a essere osservati senza interruzione e non era esattamente una bella sensazione. Mi sentivo in soggezione e terribilmente sbagliato, non sapevo come mai, ma non mi sentivo all’altezza di essere guardato da lui. Non volevo che i suoi occhi si sporcassero scrutando la mia umile immagine.
Il ragazzo non si era ancora mosso. Sempre con il sorriso sulle labbra aveva alzato la mano e con un gesto mi aveva invitando ad avvicinarmi, a raggiungerlo all’interno del locale. Mi chiedevo cosa lo avesse spinto ad alzare lo sguardo su di me, cosa lo avesse attirato così tanto da chiudere il suo libro e dedicarsi completamente a me invitandomi a unirmi a lui. Forse si era semplicemente accorto del mio continuo guardarlo e si era stancato. Probabilmente mi avrebbe detto di andare a fare il guardone da un’altra parte e di lasciarlo in pace, ma allora perché mi sorrideva? Non doveva avere un’espressione arrabbiata o scocciata? Non riuscivo proprio a spiegarmelo, anche se potevo immaginare che una tal espressione indemoniata non sarebbe mai potuta formarsi sul suo dolce viso angelico e se questo sarebbe stato possibile, beh, mi sarei lasciato trasportare all’inferno da lui.
Tuttavia, aveva tutta la ragione del mondo per arrabbiarsi.
E infine presi coraggio. Con un lungo sorso ingoiai la birra avanzata nel bicchiere e uscii dal pub. Attraversai la strada facendo attenzione a non essere investito da qualche macchina ed entrai all’interno del Coffee Shop. Mi sentivo totalmente imbarazzato e inadeguato, come se stessi facendo la cosa peggiore del mondo, come se stessi per essere giudicato da quel ragazzo che neanche conoscevo, invece di prepararmi a ricevere un sacco di parole e di etichette poco gradevoli per poi potermi sentire liberamente una merda. Probabilmente avrei perso la facoltà di frequentare Thames Street e South Broadway perché si sarebbe sparsa voce che c’era in libertà un guardone e tutti i negozi e i locali avrebbero appeso un cartello con la mia faccia e il segnale di divieto stampato sopra. Sarebbe stato totalmente umiliante e tra tutte le cazzate che avevo fatto nel corso della mia vita, questa era esattamente una delle peggiori. E continuavo a ripeterla ogni volta che facevo un passo in avanti verso il tavolo cui era seduto quel ragazzo che mi aveva lasciato diverse volte senza fiato.
Quando ormai ero a pochi passi da lui, con un cenno della testa m’indicò la sedia, dove mi sarei dovuto accomodare. Sembrava come se volesse tenermi segreta la sua voce, però, sedendomi di fronte a lui, riuscii a scorgere il colore delle sue iridi. Erano di un perfetto colore ambrato, così raro e diverso dal banalissimo castano che avevano i miei occhi e che nel giro di pochi secondi avevano assunto un’aria imbarazzata.
La situazione era davvero irreale. Eravamo uno di fronte all’altro e nessuno dei due era intenzionato a dire qualcosa. Non avevamo emesse neanche un suono quando la cameriera ci aveva raggiunto e ci aveva riempito due enormi tazze con del caffè fumante. C’eravamo semplicemente limitati a chinare il capo per ringraziarla.
«Assurdo…», bofonchiai a bassissima voce, inconsapevole che avrebbe sentito anche lui.
«Come?», si affrettò a chiedere. E fu allora che m’innamorai anche della sua voce. Rispecchiava esattamente l’idea eterea che mi ero fatto di lui.
«Che cosa stai leggendo?», gli chiesi per poi nascondermi dietro all’enorme tazza bianca contenente il liquido nerastro che ricordava vagamente il colore delle mie iridi. “Forse non erano poi così male il colore dei miei occhi, era particolare, un po’ come quello del ragazzo qui davanti.”, pensai stupidamente.
«“L’insostenibile leggerezza dell’essere”», rispose fervidamente, come se gli avesse fatto davvero piacere ricevere quella domanda. E improvvisamente sentii un peso cadere dalle mie spalle.
«Sembra un po’… pesante», osservai notando quello che per me era un mattone di pagine posto in mezzo a noi. «Di cosa parla?»
«Di quattro persone e dei loro rapporti. È ambientato durante gli anni 60-70 in Repubblica ceca, ai tempo dell’invasione Russa», spiegò. «Parla della leggerezza e pesantezza nella vita, di cosa può essere meglio o peggio. Per esempio, il protagonista è simbolo della leggerezza e quindi non da peso a niente, mentre la moglie è l’esatto opposto…».
«Deve essere interessante…»
«Oh, si!», rispose sorridendo. «Lo è!»
Ero totalmente perso nelle sue parole, incurante del fatto che ora lo stavo di nuovo fissando, con la differenza che ero a meno di un metro da lui invece che dietro a una vetrata, dall’altra parte della strada. Riuscivo a vedere i suoi occhi che brillavano mentre mi raccontava del libro. Riuscivo a vedere il suo sorriso, non più nascosto da quelle pagine, e le fossette che si formavano sulle guance dove stava ricrescendo un’impercettibile barba fatta probabilmente il giorno prima. Riuscivo a sentire la sua voce che era così melodiosa. Riuscivo a sentire il suo profumo che sapeva di fresco e sentivo la fragranza dello shampoo sui suoi capelli dorati. Inoltre riuscivo anche a sentire uno strano movimento nelle mie viscere come se ci fosse dentro qualcosa. Forse erano proprio quelle le fatidiche “farfalle nello stomaco” di cui tutti parlavano. Eppure non mi spiegavo perché quelle farfalle mi sembravano più che altro bisonti che scappavano inferociti.
Mi sentivo come se avevo appena vinto a un’asta per comprare il mio musicista preferito e poter passare il resto della mia vita con lui. Mi sentivo sei piedi sotto le stelle semplicemente perché ero io colui che lo faceva sorridere in quel momento.
Malgrado ciò non mi spiegavo come fosse possibile tutto ciò. Non mi spiegavo come fosse possibile avere le farfalle nello stomaco e innamorarsi di uno sconosciuto. Non credevo in queste cose. Era scientificamente impossibile infatuarsi di qualcuno di cui non si sapeva neanche il nome. Era soltanto una classica leggenda metropolitana tramandata da secoli da registi cinematografici e scrittori falliti. Non c’erano mai state prove nel corso della storia che fosse accaduto almeno una volta. Allora perché doveva capitare proprio a me? Non era normale!
«Perché non me lo chiedi?», chiese improvvisamente, lasciandomi senza parole.
«Cosa?»
«Lo sappiamo entrambi cosa vorresti chiedermi…».
«Sì, insomma… beh... come mai mi hai detto di venire qua?».
«Ho visto che eri seduto al pub tutto solo e visto che lo ero anch’io, ho pensato che potevamo farci compagnia…».
«Compagnia?»
«Sembravi così assorto nei tuoi pensieri», rispose stringendosi nelle spalle. «Onestamente, non è la prima volta che ti osservavo, ma tu hai alzato la testa e i nostri occhi si sono incontrati e poi è stato automatico invitarti a venire qua…».
«È buffo, sai?», gli domandai ora io.
«Cosa?»
«Il fatto che io mi trovi qui a parlare con te!», gli risposi sorridendo al suo sguardo confuso. «Fino a qualche minuto fa pensavo a cosa ti facesse sorridere mentre sfogliavi le pagine, ed ero curioso del suono della tua voce o di che colore fossero i tuoi occhi… so che può sembrare strano, ma avevo voglia di conoscerti», dissi passandomi imbarazzato una mano tra i capelli scuri e scompigliandomeli tutti.
«Non è strano se pensiamo che in fondo era quello che volevamo entrambi, no?», chiese portandosi l’enorme tazza alle labbra e farne un lungo sorso.
«Penso che sia un buon modo per vedere la cosa…».
«Perciò è deciso!», dichiarò posando poi la sua tazza sul tavolo e non distogliendo gli occhi dai miei. «Non è una cosa strana!», aggiunse allungando la mano verso di me e istintivamente gliela strinsi e fui immediatamente contagiato dalla sua risata argentina.
Non ero ancora riuscito a trovare un solo difetto in quel ragazzo e iniziavo davvero a sospettare che ne avesse qualcuno.
 
Parlammo per un’ora o due, davanti a un caffè, come se fossimo ottimi amici da sempre. Io gli domandai perché fosse sempre di buon umore e lui si accorse del mio bisogno di supporto offrendosi lui stesso come mio appoggio. Probabilmente non saprà mai come questo gesto mi abbia fatto piacere. Probabilmente non saprà mai quanto significhi per me.
Dovevo semplicemente abbandonare ogni parola detta, ogni pensiero formulato e ogni suono sentito. Dovevo abbandonare ogni tocco ricevuto, ogni sorriso scambiato, ogni cipiglio formato. Abbandonare tutto il dolore che avevo sentito finora. Abbandonare tutte le speranze che avevo perso.  Dovevo semplicemente abbandonare me stesso a quello sconosciuto con cui mi ero ritrovato a conversare.
«Fai un respiro profondo e lascia che il resto avvenga facilmente», mi consigliò. Ero intenzionato a seguire il suo consiglio, soltanto se lui sarebbe stato al mio fianco. E non desideravo altro se non godere della sua compagnia per i successivi pomeriggi. Forse non mi sarebbero bastati. Forse avrei preteso anche le sue mattine, le sue sere, i suoi tramonti e le sue albe. Volevo passare ogni attimo con quel ragazzo che aveva la capacità di farmi stare bene con poche parole. «Devi soltanto cogliere l’opportunità. Ci sarà sempre un rischio, ma questo è il bello della vita, non trovi?», chiese. «Ti mette davanti a delle difficoltà che dovrai superare, che tu lo voglia o no, dovrai farlo. Dovrai affrontare ogni problema senza mai tirarti indietro e se ti arrendi, beh… capita. Non è un gesto da vigliacchi. Ci si può sempre lavorare sopra per rafforzare il carattere e quando sarai pronto, non ti renderai conto di quanto fosse una stronzata».
«E non ti spaventa?»
«Penso che a volte le cose di cui si ha più paura ti fortifichino nel profondo», rispose tenendo strette le mani attorno alla sua tazza. Sembrava così serio ora. «È un modo per crescere…»
«O un modo per dire che non si otterrà sempre una scorciatoia per la cascata in Mario Kart!», obbiettai. «Così è la vita!»
«È buffo come tu veda la situazione»
«Cosa ci posso fare?», chiesi retoricamente stringendomi nelle spalle. «Dentro di me sarò sempre un piccolo e immaturo ragazzino».
«Beh, sai una cosa?», chiese ora lui. «Sii te stesso e fottitene di qualsiasi altra cosa, inteso?», disse regalandomi uno dei suoi splendi sorrisi.
Mi chiedevo dove quel ragazzo fosse stato per tutto quel tempo. Mi chiedevo dove lo avessero tenuto nascosto durante il mio recente periodo a scuola, dove tutto era sbagliato e gli studenti stupidi e superficiali, dove i pregiudizi erano all’ordine del giorno e dove regnasse il darwinismo sociale.
Eppure quel ragazzo era riuscito a farmi stare bene con una semplice frase. Possedeva l’incredibile capacità di provocarmi l’effetto del gelato al cioccolato, di una birra fresca in un giorno d’estate, di un pozzo d’acqua in un deserto rovente, del burro d’arachidi con la gelatina, degli spaghetti con le polpette, dell’arcobaleno dopo la tempesta, della canzone che amavo a un concerto perfetto della mia band preferita.
Pensai a com’era incredibile provare tutte queste emozioni per una persona di cui non sapevo neanche il nome e avrei davvero voluto chiederglielo, ma avrei rotto l’incantesimo che si era creato. Se glielo avessi chiesto, probabilmente, sarebbe finito tutto e questo non lo volevo. Non volevo che finisse così presto, ma se non glielo avessi chiesto, avrei rischiato di perderlo, anche se probabilmente lo avrei rivisto il giorno dopo al solito tavolo e probabilmente lo avrei aspettato lì, ansioso di poter risentire la sua voce che curava le mie ferite interne.
«Non mi sono reso conto, ma si è fatto decisamente tardi», osservò il ragazzo gettando lo sguardo verso il piccolo orologio bianco appeso alla parete della caffetteria che segnava le sette e dieci di sera. Il tempo sembrava esser volato via. «È stato bello conoscerti... », continuò lui lasciando poi la frase sospesa, accorgendosi anch’esso di non conoscere il mio nome. «… è divertente come abbiamo parlato di tutto eccetto che di come ci chiamiamo».
«Forse non era così importante…»
«Comunque io sono Alexander, nome tipicamente inglese…», disse ridendo al fatto di aver scherzato in precedenza sulle sue origini anglosassoni. «… ma ti prego, chiamami semplicemente Alex», aggiunse, completando la frase con il suo immancabile sorriso.
«Io sono Jack. Solo Jack», mi presentai afferrando la sua mano. Quel singolo tocco mi fece rabbrividire. Sentii percorrere la mia schiena da miliardi di brividi. Avevo semplicemente voglia di strattonarlo a me e baciare quelle labbra che si accingeva a schiudere gioiosamente in un’allegra curva, ma dovevo controllarmi. Non potevo perderlo così.
«Spero di rivederti domani»
«Al solito posto?», chiesi speranzoso.
«Sempre che tu voglia ancora rivedermi…»
«Certo!», risposi forse con troppa enfasi tanto da farlo ridere.
«Perfetto, allora a domani Jack!», disse alzandosi dalla sedia e rimettendola ordinatamente al suo posto.
Lo guardai uscire dal locale e incamminarsi chissà dove. Sentii in me crescere il bisogno di fermarlo e dirgli qualcosa.
E così feci.
Uscii dal locale e lo rincorsi lungo il marciapiede.
«Alex!», lo chiamai a qualche metro di distanza, il tanto che bastava da farlo fermare e voltare verso di me. «Grazie per oggi!», dissi avvicinandomi a lui sempre di più e raggiungendolo con pochi passi. «Grazie per avermi ascoltato, per avermi fatto ridere, per esserti fidato di me… ne avevo proprio bisogno e spero che tu non pensi che sia troppo incasinato…», il suo sorriso e la sua mano che posò sulla mia, mi fecero sentire di nuovo quella sensazione di brividi e farfalle allo stomaco facendomi perdere il filo del discorso. «Grazie per…», ricominciai a dire ma rimasi completamente sbalordito dal successivo gesto del ragazzo. Alex mi aveva stretto a se in uno di quegli abbracci che non si dimenticavano facilmente, in uno di quelli in cui vorresti starci per tutto il tempo, in uno di quelli che avresti ucciso chiunque ti avesse fatto lasciare quelle braccia.
E fu allora che avvolsi le mie braccia attorno alla sua schiena e assaporai quell’attimo come il profumo del ragazzo che mi penetrava nel cervello immagazzinando per poi poterlo ricordare quando ne avrei sentito il bisogno.
«Ogni cosa andrà bene, Jack», mi rassicurò scostandosi leggermente da quella stretta, sussurrando quelle parole a pochi centimetri dalle labbra. Il suo respiro era decisamente troppo forte per permettermi di tirarmi indietro e le sue labbra troppo invitanti per far si che riuscissi a ignorarle.
Alex scosse la testa porgendo gli occhi ambrati al cielo e poi con un sorriso tornò a concentrarli all’interno dei miei. Non avevo idea di cosa stesse pensando fino a quando non sentii le sue labbra appoggiate alle mie, e in quel momento tutto mi sembrava perfetto.
Avrei volentieri perso giornate intere a sfiorarle, a toccarle, a baciarle, a guardarle muoversi mentre parlava o mentre sorrideva. Avrei perso le giornate a ripensare a quel bacio che mi ha fatto capire che non ero mai stato così felice prima d’ora.
E si! Mi sentivo totalmente sollevato da ogni problema, mi sentivo più leggero e capace di poter affrontare un altro giorno semplicemente perché sapevo che avrei avuto lui al mio fianco.
E al momento non desideravo altro se non questo.
 
   
 
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