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Autore: fancylah    11/09/2013    1 recensioni
Non c'è nient'altro che il buio / ma io ti vedo / nell'oscurità.
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber
Note: Cross-over, Otherverse | Avvertimenti: Bondage
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La storia e tutto sono stati presi da un libro('La fine del mondo'), io ho soltanto cambiato alcune cose. Ho deciso di scriverlo qui perché è davvero molto bello ed interessante.

 
1. Introduzione


Katherine Beau. Sono sicura che, prima d'ora, non abbiate mai sentito parlare di lei, che il suo nome non vi dica un bel niente, e come potrebbe? Non ne saprei nulla neanch'io, se nell'estate 2001 i miei non mi avessero trascinata quaggiù, in questo paese, in questo quartiere così carino di villette a schiera. Avrei semplicemente continuato a vivere la vita che conoscevo, e sarei stata felice o magari infelice, e chi può saperlo?
Quel che è sicuro è che non l'avrei mai incontrata e che ora non starei qui a parlarvi di lei, a raccontarvi come tutto è iniziato e finito, un pomeriggio di Dicembre, quando lei se n'è andata e lui è corso in strada e ha cominciato a gridare il suo nome coi pugni alzati, mentre noi ci affacciavamo alle finestre o uscivamo in cortile, nella luce pallida e sporca, dopo il tramonto, e poi ha fatto quello che ha fatto, prima di sparire per sempre.
Non che Katherine me l'abbia mai chiesto. Che io vi raccontassi di lei, voglio dire. Anzi, credo che mi avrebbe rivolto uno dei suoi sguardi imbronciati domandandomi come mi fosse venuta in mente una cosa del genere.
"Ma chi ti credi di essere?", mi avrebbe detto.
E' solo che suo padre mi ha fatto avere i quaderni, è questo il punto. Una scatola sul cui coperchio c'è scritto Per Nadi. Me l'ha portata e mi ha detto "Prendila, è tua, tienila tu".
Ha incrociato le braccia e, con la punta della scarpa, ha tracciato una linea sul vialetto d'ingresso. Gli ho chiesto come stesse sua mogliee lui ha scrollato le spalle e ha sospirato.
"Ok", ho detto allora. "Mi spiace. Me la saluti. Buongiorno."
"Ciao", ha detto lui. E' rimasto immobile per un istante, a guardare il corridoio in penombra alle mie spalle, quasi che Katherine fosse venuta a trovarmi e potesse spuntare fuori da un momento all'altro, dirgli: "Sorpresa!" e tornare a casa con lui, poi se n'è andato.
L'ho guardato attraversare la strada con la testa che gli ciondolava come se stesse per addormentarsi.
Mia madre non c'era, era andata a comprare un'altra scorta di fazzoletti di carta.
Ho bevuto un bicchiere d'acqua e ho portato la scatola in camera mia. Ci ho messo un bel pezzo, ad aprirla. Alla fine, mi sono detta che prima o poi, comunque, avrei dovuto farlo, così ho tolto il coperchio e sono rimasta a guardare i quaderni, le copertine con i gattini e i cagnolini ed Hello Kitty con la sua espressione bianca e vuota che le piaceva fa pazzi - aveva un sacco di cose di Hello Kitty: magliette, il portachiavi, una trousse che era un trionfo di sfumature rosa, un profumo dolce che si spruzzava sui polsi e dietro le orecchie.
Li ho tirati fuori, contandoli: quindici in tutto. Su ciascuno, un'etichetta. Su ogni etichetta, un numero e, lì vicino, il nome di lei e quello di lui, scritti nella sua grafia tutta svolazzi e cuoricini. Sul quindicesimo, invece, soltanto il nome di lei, uno stampatello duro e appuntito, nessun cuore sopra la i.
Mi è venuto da piangere, perciò ho chiuso gli occhi e sono rimasta così, a fluttuare nel buio, finché la signora Bussi si è messa a parlare forte, al piano di sopra, e ho sentito le unghie di quel suo orribile cane che raspavano sul pavimento - io e Katherine lo chiamavamo il Topastro, ridevamo dicendo: "Sembra che porti un paio di scarpe coi tacchi a spillo".
Mi sono asciugata gli occhi e sono tornata a guardare i quaderni, in cerca del primo, l'inizio di tutto. L'ho sistemato sulle ginocchia e ho accarezzato la copertina, un gattino bianco, poi l'ho aperto - 1 luglio 2001 - mentre la voce della signora Bussi scivolava un silenzio denso e sospeso.
Ho guardato di nuovo dentro la scatola, a un certo punto, perché mi sono detta che doveva avermi scritto qualcosa, una lettera, un bigliettino, per spiegarmi perché avesse deciso affidare proprio a me il racconto della loro storia d'amore - era di questo che si trattava - tutto ciò che era accaduto prima che lei se ne andasse, anche se avevamo rotto e ci rivolgevamo a malapena il saluto quando ci incontravamo alla fermata dell'autobus oppure a scuola, durante l'intervallo, ma lì dentro non c'era nient'altro. 
Quando mia madre è tornata, ho nascosto la scatola dentro l'armadio, avvolta in una maglia rosa che Katie mi aveva prestato e che mi ero dimenticata di restituirle.
Lei ha socchiuso la porta e mi ha chiesto che cosa stavo facendo. "Niente di che", le ho risposto.
"Ah, bene. Niente", ha detto lei. "Mi stendo un attimo a letto", poi si è asciugata gli occhi con uno dei suoi fazzoletti di carta e se n'è andata.
Allora, ho aperto di nuovo l'armadio ed ho ricominciato da dove ero stata costrettaa fermarmi.
Se mia madre l'avesse saputo, mi avrebbe detto di riportarli subito ai suoi genitori. "A cosa serve che tu continui a pensarci, tesoro? Ti fa soltanto star male. E' giusto che li tengano loro."
Secondo lei, dovevo semplicemente andare avanti, dimenticare quello che era successo e ricominciare la vita di sempre. 
"E' triste, però è così", mi avrebbe detto, e non era la sola a pensarlo. Nessuno parlava più di Katherine, oramai. E nessuno parlava di lui, sopratutto di lui.
Col passare del tempo, il silenzio aveva preso il posto di tutte le ipotesi, le spiegazioni buttate lì a caso e i commenti, i "non ci posso credere", i "se l'è cercata" e i "ma chi l'avrebbe mai immaginato, una ragazza tanto carina", come se si trattasse di una brutta storia che qualcuno si era inventato e che tanto valeva dimenticare.
Mia madre non pronunciava più nemmeno il suo nome. Quando, senza volerlo, si lasciava scappare qualcosa, un ricordo, un particolare le era tornato in mente all'improvviso, si riferiva a Katherine abbassando la voce, voltandosi da un'altra parte e dicendo: "Lei, la tua amica", prima di cambiare discorso - una sera, poco dopo quel tardo pomeriggio di Dicembre, l'avevo sentita dire a mio padre: "Ti prego, non parliamone più", e lui le aveva risposto: "Be', Irma, hai ragione".
Quella storia le faceva paura, credo che si trattasse di questo, e lo stesso doveva valere per lui.
E' stato quello, il silenzio, l'impressione che ci avessimo tutti quanti tirato una riga sopra e che il tempo stesse cancellando ogni cosa. Ho cominciato a pensare che non fosse giusto, tutto qui, e che non potevamo comportarci come se niente fosse accaduto soltanto perché era andata a finire nel peggiore dei modi. E' stato il silenzio, e il fatto che lei mi avesse voluto lasciare i quaderni, quello che aveva scritto un giorno dopo l'altro, e che importanza poteva avere se avesse detto o meno la verità? Era così che Katherine vedeva le cose, era in quel modo che lei le aveva vissute, ed era importante.
Perciò, nonostante a volte tornassi ad immaginare il suo sguardo imbronciato - "Che stai facendo, Nadi?, chi ti ha dato il permesso?" - e nonostante me la veda ancora adesso davanti agli occhi mentre scuote la testa perché mi sia chiaro che non era quella la sua intenzione, a un certo punto ho preso una decisione irrevocabile, raccontarvi di lei, e non m'importa cosa ne verrà fuori, alla fine: so soltanto che devo farlo.
Quel che m'importa è che il nome di Katherine Beau vi dica qualcosa, d'ora in avanti, e che sappiate ciò che è successo.
Il silenzio non è una risposta.



dal diario di Katherine..
1 luglio 2001
L'ho scelto io questo quaderno, perché fa un sacco di tenerezza!
E' il mio diario segreto.
Quella della tabaccheria me ne voleva dare uno con la copertina blu o verde scuro, sai che tristezza? Ma poi ho visto questo e le ho detto: "Eccolo lì, mi dia quello lì".
Ho già deciso dove nasconderlo, perché mia madre ficca il naso dappertutto e di sicuro lo leggerebbe. Se invece lo trova... SMETTILA! CHIUDILO SUBITO! MA NON TI VERGOGNI?!
Non ce l'ho mai avuto io, un diario segreto.
No, una volta, quando avevo, che ne so, dieci anni, me ne hanno regalato uno di quelli col lucchetto, ma non ci ho scritto sopra un bel niente perché non avevo niente da dire. Adesso invece sì. E' solo che voglio ricordarmi di certe cose, quando sarò vecchia decrepita, e allora è meglio che io me le scriva, anche se a scrivere sono abbastanza una frana e non so mai da che parte cominciare.
Lui è di là, in camera sua, sta provando a risolvere un'equazione.
Ha appena battuto due volte contro il muro che divide le nostre stanze, e anche io ho battuto due volte perché così sa che ci sono, che non sono uscita o roba del genere. E' sempre nervoso, quando non riesce a capire dove sono o quando non gli rispondo. Non è mica stato così fin dall'inizio, ma adesso lo è.
Prima, quando è arrivato, non gli importava, e nemmeno a me, se è per questo. Non ci parlavamo proprio, noi due. Sembra impossibile, ma lo detestavo. Lo trovavo brutto ed insopportabile. Se ne stava sempre seduto fuori, in un angolo, o si chiudeva in camera sua ad ascoltare quella sua musica e non usciva fino all'ora di cena, e poi, pure a tavola, rimaneva in silenzio, anche se papà cercava di farlo parlare.
Mamma scuoteva la testa ed io e Simon ci davamo di gomito, dato che pure mio fratello lo trovava insopportabile. Non avevamo ancora capito bene perché papà era andato a prenderlo e l'aveva portato da noi, a casa nostra, e non sapevamo per quanto tempo ci sarebbe rimasto.
A volte, mi mettevo a fissarlo, pensando che se ne sarebbe accorto e mi avrebbe guardata e allora avrebbe capito quanto lo odiavo, ma lui continuava a mangiare a testa bassa.
Quando aveva finito, si alzava da tavola facendo un sacco di rumore con la sedia sul pavimento e saltanto in piedi, tipo che in cucina fosse scoppiato un incendio, e mi madre diceva: "Cosa ti prende?", e papà le toccava un gomito oppure una mano, per farle capire che non era il caso, diceva: "Vai pure, tranquillo", e lui tornava in camera sua e nessuno lo vedeva più fino al mattino dopo. Non veniva a guardare la tele con noi, non usciva da quella stanza manco per andare in bagno a fare pipì o per prendere un bicchiere d'acqua, cose così.
Simone ed io ci strafogavamo di patatine e bevevamo Coca guardando un dvd mentre mia madre si limava le unghie o si passava lo smalto e papà sfogliava il giornale. Qualche volta alzava la testa e commentava quello che vedeva, ma io lo capito benissimo che non gl'importava, perché diceva cose del tipo: "Tu pensa", o magari chiedeva: "E quello chi è? Da dove è saltato fuori?", ed era proprio il protagonista del film, voglio dire.
Ogni tanto Simon ed io tendevamo le orecchie o guardavamo verso l'ingresso, tipo che avevamo sentito un rumore o visto qualcuno passare, e alla fine uno dei due diceva: "Quello non è mica normale", oppure: "Ascolta me, quello è tutto scemo", e ci mettevamo a sghignazzare come due IDIOTI e allora mia madre mi diceva di fare silenzio. "Katherine, per cortesia, non sento niente", visto che la colpa di qualsiasi cosa, in questa casa, non è mai stata di mio fratello, oh, no, no: Simon, lui è PERFETTO!
Be', dopo una settimana, ho chiesto a papà quanto pensava che doveva ancora fermarsi. Gli ho chiesto di spiegarmi perché era venuto a stare da noi e perché lui aveva dovuto lasciargli il suo studio - aveva spostato la scrivania contro il muro e ci aveva portato dentro la branda che tenevamo in garage; da quel giorno, ha cominciato a fare i suoi conti in cucina, con tutte le carte ed i registri ammucchiati sul tavolo.
Papà stava mangiando con le mani degli spaghetti avanzati e aveva la bocca sporca di sugo. Se mia madre vedeva una cosa del genere, si arrabbiava sicuro, perché "Si deve mangiare ai pasti", è da una vita che ci ripete la stessa solfa, e poi "Non siamo mica degli animali" e bla  bla bla.
"Devi avere pazienza", mi ha detto lui. Il tavolo era tutto un mucchio di carte, e, lì in mezzo, c'erano la caffettiera ed una tazza, perché papà, quando lavora la sera, va avanti a caffè. "E' una situazione difficile. A casa sua, voglio dire. Molto difficile."
Sapevo che sua madre era morta, però un padre lui ce l'aveva, e non capivo mica perché non poteva stare con lui, così gliel'ho chiesto. "Perché non può stare a casa sua, scusa? Perché suo padre l'ha scaricato da noi?"
"Non dire così", ha detto papà. "Non va bene, usare certe parole."
Si è pulito la bocca con un pezzo di Scottex, si è rimesso seduto e ha cercato la penna in mezzo a tutti quei fogli. Quando l'ha trovata, ha cominciato a fissarla, tipo che non aveva mai visto una penna in vita sua.
Alla fine, ha detto che, a volte, le cose che sembrano facili invece sono molto difficili, e che c'è bisogno di tempo, prima che si rimettano a posto.
Ho preso il pacco dei Buondì Motta, ne ho scartato uno ed ho mangiato prima i granelli di zucchero, che sono la cosa che mi piace di più, e poi tutta la merendina - sono come papà, io, ho SEMPRE fame, mia madre dice che diventerò una balena, anche se, secondo papà, è soltanto che sto crescendoo, e mi fa ridere quando dice che anche lui sta ancora crescendo. Sembra che ci crede davvero!
"Quindi?", gli ho chiesto.
Non mi sembrava che mi avesse mica risposto. Fa sempre così: dice un sacco di cose ma, quando non vuole risponderti, comincia a girare intorno al problema o si mette a parlare d'altro.
"Quindi devi comportarti come si deve", mi ha detto, aprendo un registro - ci sono scritti un sacco di numeri, una cosa che a me farebbe uscire di testa, visto che coi numeri faccio davvero pena. - "E pure tuo fratello dovrebbe comportasi come si deve" ha detto. "Ma quello non parla MAI", gli ho detto io. "E manco si lava. Secondo me, ci dorme pure, col suo giubbotto."
Papà ha sfogliato il registro e si è fermato a guardare una pagina, l'ha guardata per un sacco di tempo, chi lo sa cosa stava cercando.



 
Ha picchiato di nuovo sul muro.
Due colpi.
Silenzio.
Due colpi.
L'ho fatto anche io, poi ho detto: "Sono qui, non preoccuparti!".
Chissà se mi ha sentita. E chissà come se la sta cavando con quell'equazione. Simon potrebbe aiutarlo - è fortissimo, lui, in matematica - ma gli ha detto che deve arrangiarsi, un debito è un debito, e che se uno è deficiente non c'è proprio niente da fare. Mia madre gli ha dato ragione, quella gli da sempre ragione.
Lui dice che la Winston, la sua professoressa di matematica, l'ha preso di mira dopo la faccenda dei bagni. La Clarkson, che insegna nella mia classe, per fortuna è un'altra cosa. Cerca sempre di darmi una mano e, quando facciamo le verifiche, si mette dietro il mio banco e mi fa capire dove ho sbagliato. Per me, le equazioni sono come il cinese, e pure per lui. Noi due non lo parliamo, il cinese, e manco ci interessa impararlo.
Comunque, è da più di un'ora che se ne sta chiuso in camera sua, e io faccio lo stesso: non esco di qui fino a quando non esce anche lui, e poi andiamo a farci un giro alle Due Ciminiere, perché tanto mia madre deve portare Simon dall'oculista e la cosa andrà per le lunghe.
Per quando ritorna, saremo tornati anche noi, zitti e buoni, lui nella sua stanza ed io nella mia. Quella fa le pulci su tutto, crede che non le sfugga mai niente e poi non si accorge di cose del genere, che ce ne siamo andati in giro insieme.
Adesso è in soggiorno, guarda la televisione e parla da sola. Commenta sempre a voce alta i programmi che vede.
Lui dice che mia madre è una stupida, e che è impossibile che io sia figlia sua. Dice che la DETESTA – detesta un sacco di gente, se è solo per questo.
E, insomma, dopo la faccenda dei bagni le cose non hanno fatto che peggiorare. Quel giorno c’è stata una scenata trementa, e mia madre gli ha urlato: “Cosa ci fai ancora qui? Pensi che ci puoi rimanere per sempre, e farci fare queste figure? Siamo persone per bene, noi altri, persone come si deve, e tu sei soltanto un teppistello da quattro soldi, ecco quello che sei”.
Lui stava per metterle le mani al collo. Mi ci sono messa in mezzo, gli ho chiesto di smetterla, gli ho detto di farlo per me, perché all’improvviso mia madre mi ha fatto pena: se ne stava contro il muro, coi suoi capelli tinti e la ricrescita e le unghie laccate di rosso tutto scheggiato, gli occhi quasi chiusi e la bocca storta che sembrava tipo una prugna secca. Aveva paura di lui.
“Ti prego”, gli ho detto, e allora lui mi ha guardata e in quel momento sembrava che odiasse anche me. Aveva gli occhi cattivi e la faccia dura. Si è tirato su le maniche del giubbotto e ho pensato che mi voleva picchiare.
“Togliti”, ha detto, ma io non mi sono mica spostata, e allora mia madre ha preso coraggio, mi si è attaccata alle spalle e ha detto: “Te ne devi tornare da dove sei venuto”, e poi siamo rimasti tutti fermi e zitti e alla fine lui è andato in camera sua ed ha sbattuto la porta.
Mia madre si è messa a piagnucolare per la rabbia che aveva in corpo e per la paura e io non sapevo che fare, non mi piace quando dice cose del genere – perché io lo AMO! – ma non mi piace nemmeno lui, quando sembra che l’unica cosa che lo può calmare è saltarti addosso e riempirti di botte. Quella sera, papà ha messo le cose a posto. Rimette sempre tutto a posto, mio padre. E’ una cosa che gli viene bene.
Si è chiuso in cucina con lei e le ha parlato e poi è andato a parlare con lui, gli ha detto che non doveva fare mai più una stupidaggine simile, scrivere quelle robe sui muro, che era perfettamente in grado di comportarsi bene.
Il giorno dopo, è andato a parlare alla preside ma quella l’ha sospeso lo stesso.
Vabbè, ok, non è stata una grande pensata, la sua, visto che gli avevano già messo un sacco di note sul registro di classe e che dopo l’hanno proprio preso di mira, soprattutto la Winston, ma le cose che ha scritto su di lei sono VERE, punto e basta, e in più hanno fatto il giro di tutta la scuola e così tutto l’hanno saputo, quello che pensa della prof di mate e soprattutto come stanno le cose fra noi. Le mie compagne di classe dicono che sarebbero morte per la vergogna (anche io mi sono un po’ vergognata, all’inizio), ma secondo me è solo perché non ce l’hanno, qualcuno che le ama così e che farebbe qualsiasi cosa per loro.


 
continuo a minimo 5 recensioni. (per qualsiasi cosa, sono @fancylah (ex @peaceandsupra) su twitter. xo
  
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