Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Lavi Bookman    11/09/2013    3 recensioni
[ErwinXLevi, con accenni LeviXEren - AU!]
La one shot si alterna tra la loro qui, e adesso, e la loro vita lì, nel mondo di SnK come lo si conosce.
Partita principalmente dall'idea che, se fosse possibile, sarebbe bello pensare che forse si può riconoscere qualcuno che si è amato in una vita precedentemente vissuta.
1# "[...] - Sono scostante con chi mi rompe i coglioni – affermò, decidendo che un solo altro attimo a contatto con Erwin signor rompicazzi Smith lo avrebbe reso ancora più incazzato con il mondo.
Uscì dalla porta, prendendo il corridoio e scandendo ogni passo battendo apposta il tallone sul pavimento, per far intendere il suo fastidio. Sì, era più bambino di quando Erwin potesse anche solo immaginare. E finalmente si sentì libero di sorridere.
“E' un gatto randagio, dannazione”, constatò. [...]"
2# "[...] - Forse dovremmo lasciar perdere. Stai bene con lui, no? Restaci allora. -
Sentì le sue dita stringere le lenzuola, e la voce dell'uomo incurvarsi verso la fine della frase. Era così sciocco. Chiuse gli occhi sospirando leggermente, senza muoversi dalla posizione in cui era, dandogli le spalle.
- Non dovresti dire cose simili, Erwin. - [...]"
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren, Jaeger, Irvin, Smith
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Triangolo
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La storia la si può tranquillamente leggere da sola, ma perchè abbia un effetto migliore e possa dichiararsi più completa consiglio di dare un'occhiata all'altra One shot che ho scritto su SnK, "I lost my dreams in this disaster". Ripeto, possono leggersi separatamente senza alcun problema.
Qui, lo ammetto, ho odiato Eren, nh.
 


All around us /




 

- Posso farti una domanda, Levi? -
Il biondo si sporse verso il ragazzo seduto alla scrivania, puntellando i gomiti sulle proprie ginocchia, reggendosi il volto con le mani. Lo guardava strano da ormai qualche giorno. No, non era corretto dire così. Lo conosceva da qualche giorno, e lo aveva sempre guardato strano.
Giocherellò con una penna, facendola girare tra l'indice ed il pollice, distrattamente e con fare annoiato.
“Che vuoi, Erwin?” chiese raddrizzandosi quel tanto che bastava sulla sedia per non sentire un leggero formicolio al culo.
- Sei sempre così scostante? -
Ormai Levi ci aveva fatto l'abitudine, a quella domanda. Una volta che lo si incontrava, era una domanda di rito, decisamente. Biascicò un “nh” che non aveva la presunzione di significare null'altro se non “nh”.
- “Nh” non vuol dire nulla, sai? Sii educato, qualche volta – insistette puntandogli, se possibile, ancora di più gli occhi addosso. Aveva un'espressione talmente seria che, per un momento, Levi pensò di dover davvero rispondere. Come se, per un qualche motivo, da quello potesse derivare qualcosa di molto più importante. Una qualche domanda successiva, un qualche cosa in grado di cambiare tutto.
Ma a lui, di cambiare tutto, non importava proprio un cazzo.
Sbuffò, lanciandogli un'occhiata e alzandosi dalla sedia girevole, la quale si allontanò di qualche centimetro viaggiando sulle ruote. Si sentiva troppa attenzione addosso a sé, e non era una di quelle sensazioni che amava provare. Fece scrocchiare il collo inclinando il capo all'indietro e ruotandolo leggermene a destra e a sinistra.
- Non sono cose che ti devono interessare – soffiò. Era irritato dalla presenza di quell'uomo ben vestito e incravattato. Con quei capelli ordinati, quella giacca ben stirata, quel sorriso a trentadue denti che prometteva mari e monti -tra cui una sicura carriera nel campo della pubblicità per i dentifrici. La sua vita perfetta. Ecco, se c'era qualcosa che proprio non gli andava a genio, era che quel biondo patinato schifosamente ordinato fosse sicuramente lì, a parlare con lui, solo per potergli vomitare addosso la sua estrema perfezione in ogni gesto. Addirittura nel sedersi, era composto oltre ogni misura. La cosa inspiegabile era la sua compostezza anche quando voleva essere scomposto.
- Però mi interessa saperlo – tagliò corto Erwin. Più fissava quel ragazzo e più provava una sorta di dovere nei suoi confronti. Quando per la prima volta era entrato in ufficio, dopo che il capo li aveva presentati come “colleghi” -con conseguente espressione sprezzante del moro-, e aveva incrociato lo sguardo con Levi si era reso conto che doveva ricordare. Non sapeva cosa, più si sforzava e meno comprendeva. Venivano da due mondi diversi, avevano conoscenze differenti e l'unica cosa che li accomunava era quella stanza piccola e non troppo luminosa.
Eppure, doveva ricordare.
Lo vide sbuffare, con aria seccata, e grattarsi la testa. Avrebbe abbozzato un sorriso, se non avesse capito che lo avrebbe potuto irritare.
- Sono scostante con chi mi rompe i coglioni – affermò, decidendo che un solo altro attimo a contatto con Erwin signor rompicazzi Smith lo avrebbe reso ancora più incazzato con il mondo.
Uscì dalla porta, prendendo il corridoio e scandendo ogni passo battendo apposta il tallone sul pavimento, per far intendere il suo fastidio. Sì, era più bambino di quando Erwin potesse anche solo immaginare. E finalmente si sentì libero di sorridere.
“E' un gatto randagio, dannazione”, constatò.


 

- Levi, sei sempre così scontroso -, Erwin passò un braccio tra le spalle del soldato, concentrandosi sul calore e attirandolo poco più forte a sé.
Anche loro, in fondo, erano umani, con i loro dubbi, e le loro mancanze di sicurezze.
- Sei tu che mi fai incazzare, Erwin – mugugnò Levi facendo una leggera resistenza per non dargliela vinta. Sapeva che era inutile, che tanto le braccia dell'altro erano più forti e, comunque la differenza di corporatura andava a suo svantaggio. Oltretutto, aveva un bisogno esasperato di sentirsi suo. Gli sarebbe andato bene tutto, ma voleva appartenere a qualcosa che non fosse quello schifo da cui era appena tornato. Se quel qualcosa erano lui e Erwin, gli andava bene.
- Ho solo detto la verità. Quel ragazzo, Eren Jaeger, può essere un pericolo, e lo sai... - tentò nuovamente, con più dolcezza, accarezzando sulla clavicola e raggiungendo la guancia nel risalire con le dita. Avrebbe dovuto ascoltarlo, almeno una volta. Almeno quella, avrebbe dovuto.
- Lo ucciderò. Se ce ne sarà bisogno, lo farò fuori – affermò fuori dai denti, ancora più
irritato. Nonostante il rispetto che provava per il suo superiore, non riusciva a capacitarsi di un accanimento simile nei confronti del moccioso che teneva nei sotterranei del castello. Poteva essere pericoloso, lo era sicuramente, ma niente di così distruttivo come voleva dipingerlo l'altro. Incrociò le braccia e affilò lo sguardo, incurante della crescente pressione che il biondo esercitava su di lui per stringerlo. E del profumo che aveva. E delle sue labbra sulla sua fronte.
Si sentiva sempre così dannatamente in debito, nei suoi confronti. Non aveva mai fatto una piega. Mai si era permesso di dissentire più del dovuto da una regola impartita da lui. “Non questa volta”, si disse, “Eren è affar mio”, insistette.


 

- Ohi, moccioso – la voce di Levi raggiunse le orecchie di Eren, il quale si girò all'improvviso, fissando l'altro spiazzato. Era inutile, alla fine l'effetto che gli faceva era sempre quello. Nonostante lavorassero insieme da almeno due anni non riusciva minimamente a farsela passare, la paura. Ne era intimidito, nonostante la statura bassa rispetto alla media.
- Salve! -
- Mh, che lo vuoi un caffè? Pago io – offrì, massaggiandosi con le mani le tempie. Alla fine, neanche lo sopportava quel ragazzino, ma era pur sempre meglio che restare da solo con Erwin.
Notò lo stupore prendere spazio sul suo volto, - non è un invito a cena, Jaeger. E' un cazzo di caffè, porca troia. Lo vuoi o no? -
Lo vide annuire dopo neanche due secondi, nonostante la scritta “ma che cazz...?” gli stesse nascendo sulla fronte. Niente da fare, era nettamente più irritato del solito. Avrebbe volentieri preso a calci il biondo scopa in culo che aveva lasciato in ufficio.
- Levi -
... Che aveva lasciato in ufficio, appunto.
Si girò lentamente, notanto il peggior incubo di quella giornata presentarglisi nuovamente davanti.
- Ancora? Ma che vuoi da me? - chiese senza speranza di ricere risposta. Ne aveva davvero troppo. Lanciò un'occhiata veloce a Eren, che sorseggiava il suo caffè guardando prima Erwin e poi nella sua direzione. Si chiese, tra l'altro, quando avesse messo dentro le monete nella macchinetta. La presenza del biondo lo distoglieva dalle cose importanti. Come notare i movimenti di Jaeger. Erano pur sempre i suoi soldi, quelli che gli permettevano di cibarsi.
- Ho un'altra domanda -
Erwin, dal canto suo, non aveva alcuna intenzione di lasciar andare così facilmente nè la preda nè il discorso.



- Eren –
Conosceva alla perfezione, ormai, le varie inclinazioni nel tono di Levi. Aveva smesso di chiamarlo “Capitano”, “Heichou”, o “Signore”, quando erano solo loro due. Era stata una cosa abbastanza naturale, in realtà. Non si può raggiungere un determinato livello di intimità e continuare a chiamarsi con la carica investita.
Si voltò verso l'altro, puntando i propri occhi sui suoi. Tra tutte le inclinazioni, quella la odiava. Significava che era successo qualcosa, e spesso significava che non sarebbe stato semplice sesso ma qualcosa per ristabilire l'ordine nei pensieri del Comandante. Sarebbe stato la vittima, e l'altro il suo aguzzino, quella notte. Il sesso sarebbe servito per ridargli quella sensazione di potere che perdeva ogni volta che passava anche una sola ora con il suo superiore.
- Lo so, è andata male. -
- Già, però lo amo. -
Aveva sempre bisogno di rinfacciarglielo. Forse, forse, non lo faceva apposta, a ricordargli che non era l'unico nella sua vita, e spesso si dava dello stupido per accettare una simile situazione. Non riusciva mai, però, a rifiutarsi, quando se lo trovava davanti.
Accettava, perché, in fondo, neanche aveva mai detto a Levi ciò che provava. Non gli aveva mai detto che le notti passate insieme, a tranquillizzarsi dopo l'ennesima battaglia, per lui erano ciò che di più si avvicinava a considerarsi casa.
Sorrise debolmente e andò verso il letto con fare disinvolto. Aveva imparato, e tanto bastava per rendersi mansueto.



- Eren, vai – ordinò perentorio Levi al moro che guardava la scena confuso. Non che avesse voglia di rimanere lì, ma non gli andava neanche troppo a genio andarsene. Nonostante ciò, obbedì, allontanandosi dopo aver gettato il bicchierino di plastica sul cestino accanto alla macchinetta. Lanciò un'occhiata a Erwin, che aveva conosciuto due giorni prima, e gli fece un cenno con il capo, senza ricevere nulla in cambio se non indifferenza.
Calò il silenzio tra i due rimasti. Levi decise che a quel punto tanto valeva prendersi quel caffè che aveva agognato da inizio mattinata. Mise la mano nella tasca dei pantaloni cercando all'interno le monete necessarie, per poi infilarle nell'apertura della macchina, cliccando sul tasto corrispondente a “caffè lungo”, niente zucchero.
Gli dava le spalle ma sentiva perfettamente i suoi occhi puntati sulla schiena.
- Sentiamo. Cosa vuoi chiedermi, questa volta? -
Scalciò leggermente con la punta del piede al pavimento, cercando di sistemarsi la scarpa, e il biondo avvertì una sensazione di già vissuto. Un dejà-vu che portava dietro di sé una consapevolezza amara, quasi fosse un ricordo troppo doloroso. Un ricordo che lui, comunque, non poteva avere. Si rese conto di avere sgranato gli occhi e di aver portato la mano istintivamente alla bocca.
Si voltò, per non incedere nello sguardo incurante di Levi, il quale aveva proferito un “che, stai bene?”. Che domanda curiosa, da parte sua. Forse, se lo avesse visto schiattare avrebbe potuto sperare che quanto meno chiamasse un'ambulanza. Ghignò, rendendosi conto dell'improbabilità della situazione. Non era da lui, da Levi Rivaille, preoccuparsi per il suo prossimo così apertamente. Rivaille. Erwin rimase interdetto, guardando stupito l'altro che cominciava evidentemente a scazzarsi più di quanto già non fosse. Lo sentì picchiettare con le dita sullo stipite di una porta lì accanto e muovere il busto in avanti seguito dai piedi.
- Vabbè. Torno a lavoro. Non parlare dopo, ne ho abbastanza della tua voce da frocetto. -
Ancora non si spiegava perché tanta irritazione verso ciuffo laccato, ma non aveva neanche troppa voglia di chiederselo. Si rassegnò a quel senso di fastidio, camminandogli davanti.
Non solo era uno di quei rompi palle che possono vincere la coppa annuale di Testa di Cazzo, ma ora si aggiungeva pure la sua stranezza. Già che lo sopportava poco, non faceva altro che trovare motivi per arrivare direttamente ad odiarlo. Corruciò lo sguardo e si strinse impulsivamente nelle spalle. “Io non odio nessuno, troppa fatica”; era uno che amava l'indifferenza, lui.
- Rivaille -
Il passo rallentato di colpo, sino a bloccarsi. Il corpo irrigidirsi. Il capo scattare nella sua direzione e i suoi occhi puntati addosso. Erwin pensò che quella persona doveva essere stata davvero importante per lui. In passato. Non sapeva bene quando, ma ogni singolo movimento che gli vedeva fare, aveva la convinzione che fosse una cosa già vista. Che non si sarebbe mai stancato di vedere. Sorrise, compiaciuto.
- Come sai il mio cognome, tu? - chiese assotigliando lo sguardo – il mio vero cognome, qui dentro, non lo conosce nessuno. Nessuna carta lo riporta – si avvicinò a passo veloce all'uomo e con una spinta lo mise spalle al muro, per poi guardarlo dal basso in alto, senza neanche pensare a quanto potesse essere strana e comica quella scena, vista da fuori. Gli ringhiò contro, stringendo le dita affusolate e curate attorno al colletto della camicia ben stirato.

- Lo so e basta – rispose semplicemente l'interpellato. Aveva voglia di baciarlo. Nonostante lo sguardo incazzato con il mondo, nonostante i modi rudi e la voce ruvida che gli solleticava addosso, e nonostante tutti quei falsi ricordi che gli urlavano “allontanati da lui”, rimaneva dell'idea che fosse l'uomo più bello che esistesse. Sorrise impercettibilmente, rendendosi conto del pensiero troppo romantico, in un momento completamente sbagliato. Sentiva i suoi muscoli premere per abbracciarlo, quasi volessero strapparsi dal proprio corpo pur di raggiungere quello dell'altro. E glielo leggeva nello sguardo, che provava lo stesso pure lui. Sotto a tutta quella merda che si portava appresso e che gli impediva di ragionare su ciò che sentiva, Erwin sapeva che non gli era indifferente.

 

Rientrò in camera, nella sua camera, solo a notte inoltrata. Con uno sguardo assonnato, i lineamenti più rilassati, i capelli scompigliati, e dei graffi lungo l'addome nudo. Sapeva che lo avrebbe trovato sveglio, come sempre.
- Sei ancora andato da lui – notò l'uomo steso sul letto, con gli occhi incatenati ai suoi. Sapeva che mai, mai, avrebbe potuto notarvi un qualcosa di simile al senso di colpa, ma Cristo, lo avrebbe voluto davvero tanto.
- Acuto come sempre – lo schernì il moro spogliandosi degli ultimi abiti, evidentemente reindossati alla rinfusa poco prima per salire le scale dal seminterrato al piano di sopra dove si trovava la stanza di Erwin. Non era stata sua intenzione, in realtà, raggiungerla, ma ormai era una cosa automatica. “Spostati”, gli ordinò con un fil di voce mentre cercava lo spazio adatto per coricarsi. Gli faceva male a tutti, in quel modo, ne era al corrente. Non era affar suo.
Non poteva aver colpa di ciò che succedeva nel suo letto. Nei suoi letti. Amava Erwin, lo amava davvero. Di quell'amore che può distruggerne i protagonisti. E Levi, in parte, già se ne sentiva distrutto. Si raggomitolò su sé stesso, aspettando una qualche carezza, progettando la risposta sprezzante che gli avrebbe rifilato in cambio. Ma non arrivò.
Non elemosinava amore, lui. Non ne aveva bisogno, non era cosa che gli doveva appartenere. Levi Rivaille al massimo lo pretendeva come condizione necessaria per stargli vicino. Non che ne dispensasse a sua volta, ma sapere di essere voluto lo rincuorava quel tanto che bastava a fargli credere di avere ancora qualcosa da proteggere a quel mondo. Per quanto riguardava Eren, lui era capace di dargli ciò che neanche Erwin riusciva a capire. Poteva piangere, con quel moccioso. E sapeva che, sicuramente, sarebbe stato lì a sussurrargli che le cose sarebbero andate per il meglio. Lo usava, e non riusciva a pentirsene.
- Forse dovremmo lasciar perdere. Stai bene con lui, no? Restaci allora. -
Sentì le sue dita stringere le lenzuola, e la voce dell'uomo incurvarsi verso la fine della frase. Era così sciocco. Chiuse gli occhi sospirando leggermente, senza muoversi dalla posizione in cui era, dandogli le spalle.
- Non dovresti dire cose simili, Erwin. -
- E perché, è solo la verità... -
- Perché non è da te dire qualcosa di cui non sei convinto, tutto qui. -
Come sempre, non smentiva.

 

 

- Ci siamo mai incontrati prima? - chiese il biondo senza scomporsi. Potè vedere gli occhi di Levi sgranarsi impercettibilmente, e le pupille rimpicciolirsi quasi per mettere a fuoco meglio. La bocca semiaperta, a dimostrare che il piccoletto, quella domanda, non se l'aspettava.
- Mi ricorderei la tua faccia di merda – sibillò, mentendo. Non era esattamente sicuro che quella potesse definirsi una menzogna, ma davvero era convinto di non averlo visto prima. Sempre per via della sua vita perfetta che faceva a pugni con quella disordinata e schifosa che faceva lui. Non aveva idea di dove avrebbe potuto conoscerlo precedentemente, oltretutto non aveva il portamento da ex detenuto, era da scartare anche la prigione quindi. Oh beh, non che vi avesse passato poi così tanto tempo lì dentro. Solo qualche anno per furto. Si era sempre detto che quell'esperienza lo aveva inacidito più di quanto già non fosse.
- Ne ho un'atra – dichiarò non curante dell'offesa, e attirando ulteriore odio.
Si arrese, lasciando la presa che ormai era diventata scomoda, e abbassando le braccia lungo i fianchi, mentre borbottava un “dimmi” contrariato.
- Hai un segno sulla schiena, vero? L'ho notato l'altro giorno, per caso, quando togliendoti la felpa hai alzato anche la t-shirt – ammise tutto d'un fiato – come te lo sei procurato? -
L'alzata di sopracciglio che ebbe in risposta lo divertì inspiegabilmente.
- Ci sono nato, con quel segno. Segno che ho poco sopra il bordo dei pantaloni. Mi guardi il culo adesso? -
- Ogni volta che ne ho la possibilità, Rivaille! -



Non vedeva Levi da troppo tempo, e odiava quella sensazione di angoscia che continuava a punzecchiargli sotto pelle. Qualcosa non andava, e lui, Erwin Smith, non era il tipo che potesse permettersi agitazione. Eppure quella sensazione appicicaticcia non lo abbandonava, arrivando a contorcersi sin nelle viscere e diventare tutt'uno con gli organi.
Continuava il suo percorso, attaccandosi di parte in parte grazie al meccanismo di manovra tridimensionale e saltando da un albero all'altro della grande foresta. Con gli occhi cercava il suo compagno, tentava disperatamente di sentirne l'odore annusando l'aria. Lo chiamava, e più la sua bocca ne pronunciava il nome più la sensazione di nausea si faceva presente, arrivando a bloccargli il respiro quando il cervello gli spediva in cambio la risposta “non è qui”. Erano ormai due ore che continuava a vagare, nonostante l'ordine di ritirata dovesse essere impartito al più presto. Si era sempre detto capace di sopportare la morte di chiunque, e di andare avanti nonostante tutto. Ora che doveva dimostrare il suo sangue freddo, però, si ritrovava a sbattere contro i rami come un forsennato, con la voce roca e il fiato corto.
E poi, lo vide.
Il mantello verde stropicciato e sporco di qualcosa che lo rendeva marrone. E una pozza, sempre di quel qualcosa, che si espandeva vicino al corpo steso a terra.
L'intorpidimento alle gambe lo face crollare, lì, vicino all'uomo che tentava in ogni modo di tenere gli occhi aperti.
- Stupido Erwin... - sussurrò Levi abbozzando un sorriso canzonatorio. Le lacrime non le riusciva proprio a sopportare. Lui non era mai stato bravo a sopportarle, nè le sue, nè quelle di Erwin, nè quelle di Eren. Ecco. Eren era l'unico che, in situazioni simili, sapeva cosa dire.
Tossì, e il sangue che uscì dalla sua bocca sporcò la guancia del biondo, mischiando il rosso con il pianto.
- Ti porto via di qua, tranquillo, ora ti porto via – affermò deciso, prendendo in braccio quel corpo che mai come in quel momento gli era sembrato così leggero. “Ssssh”, “ti amo”, “non morire”.
Sentiva le dita immerse nel sangue, mentre lo reggeva. La ferita era alla schiena, alla base. Un taglio netto, uno strappo a tutti i muscoli, ed ecco lì le ossa in bella vista.

La ritirata venne annunciata poco dopo.
Il volto contratto, il sangue ancora ad incrostargli i lineamenti e gli occhi non più lucidi.
E poi Eren, che gli parlava e non capiva cosa gli stesse dicendo. Si limitava a fissarlo a sua volta, impaurito da quel moccioso che per troppe volte gli aveva rubato l'amante dal letto e che, inconsapevolmente, si era innamorato della persona sbagliata. E lo sapeva che Eren amava Levi. Glielo si leggeva in faccia. E, loro due, avevano la stessa faccia.
- Comandante Smith, dov'è il Comandante Rivaille...? -
Non ebbe risposta. Ed era la risposta peggiore.

 

- Non ti farò più domande. Ma solo a una condizione – disse deciso Erwin, mentre tornavano in ufficio. Sembrava quasi che l'aria si fosse inspiegabilmente calmata e che il gatto avesse ritratto gli artigli. Ne fu sollevato, ripromettendosi che, di quando in quando, comunque, si sarebbe divertito ad infastidirlo.
- Cioè? - sbuffò il più basso, lanciandogli un'occhiata poco cordiale e mettendosi le mani in tasca.
- Qualche volta offrilo anche a me un caffè, ok? -
- Seh, guarda culi a tradimento. -


 




Note Autrice:
Ecco, tipo. Non so, avevo una gran voglia di scriverla, una Eruri, però alla fine Eren ce lo dovevo ficcare dentro in qualche modo. Ho un qualcosa di malsano pure per lui, lo ammetto. Nonostante l'odio che mi ha ispirato qui.
Comunque, se siete riusciti ad arrivare fino all'ultimo punto: complimenti. Se vi è piaciuta, o vi ha fatto altamente schifo, così altamente che volete pure dirmelo: ditemelo. Sì cioè, magari con gentilezza. Sono una persona avara di commenti, io.
Fatto sta che spero vi sia piaciuta, ecco.
Ora vado, torno a mangiare. Yep.
  
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