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Autore: _eco    14/09/2013    7 recensioni
[Raccolta di one-shot a due capitoli, dedicata a Gale e a Katniss, non come coppia. Come entrambi hanno affrontato la perdita dei rispettivi padri.]
#1: Il prezzo della fame;Gale Hawthorne
"Una medaglia: tutto quel che mi resta di mio padre, insieme al coltellino che mi aveva regalato qualche mese fa."
#2: Cupola di foglie; Katniss Everdeen.
"Ricordo di aver pensato che quello fosse davvero un buon nascondiglio. Contavo di dirglielo, prima o poi, di ringraziarlo per avermi portato lì, in quel posto che poteva contenerci entrambi e ci intrappolava nella sua cupola di foglie.
Ma non lo feci. Mai."
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gale Hawthorne, Katniss Everdeen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cupola di foglie.
[Katniss Everdeen/Mr.Everdeen]
A mia mamma e al suo papà, che mi hanno ispirata per scrivere questa shot. <3


 
Sul tavolo della nostra cucina doveva esserci qualcosa di davvero terrificante, suppongo.
Non ricordo di preciso cosa. Non credo di averlo voluto imprimere nella mente, ecco.
Sta di fatto che scappai di casa alla velocità della luce, inciampai sui miei passi tanta era l’agitazione che mi aveva colta.
Ricordo i capelli che mi si appiccicavano sul viso, ricordo la polvere di carbone che mi lambiva le gambe e le avvolgeva in una morsa ardente e pruriginosa, ricordo il Prato, oltre la coltre salata che mi aveva velato gli occhi.
Mi succedeva sempre, quando in casa c’era qualcuno sul tavolo della cucina. Di piangere, intendo. Ecco perché presumo, anzi, sono certa di essere scappata.
Mi rannicchiai dietro il cespuglio di caprifoglio, in fondo al Prato. Era un groviglio di foglioline e rametti spezzati, rifugio di chissà quale varietà di insetti ronzanti.
Nessuno di loro mi punse mai, nel caso ve lo stiate chiedendo.
Avevo trovato quel nascondiglio all’età di sei anni, quando ero alta qualche centimetro più di un metro. Mi bastava stringere le ginocchia al petto per mimetizzarmi in quell’ammasso verde. Ne avevo quasi otto, all’epoca, e in due anni i bambini crescono più di quanto si possa immaginare, anche se malnutriti, anche con due pasti al giorno.
Le mie ossa allungavano – sottili, un po’ deboli – e la mia pelle cercava di coprirle il più possibile.
Comunque, dietro al cespuglio non c’entravo più. Per questo, quando mio padre venne a cercarmi – sapevo che l’avrebbe fatto – mi trovò subito.
La sua mano raggiunse la mia attraverso il groviglio di foglioline e rametti intrecciati. Qualcosa graffiò il dorso della sua destra, ma lui non sembrò farci caso.
C’era abituato, alle ferite.
Mi tirò su, e mi sentii improvvisamente sporca, davanti a lui; e non solo per via delle foglioline che mi si erano incastrate fra i capelli.
Credevo che mi avrebbe rimproverata. Non avrebbe avuto tutti i torti, in fondo. Avevo otto anni: era ora di smetterla di darmela a gambe quando qualcuno cercava soccorso nelle mani di mia madre, soprattutto quando mia sorella, che muoveva i primi passi, non si lasciava per niente impressionare dal sangue, dagli squarci della pelle, dalle cicatrici da scottatura.
Prim se ne stava lì, a gattonare tranquillamente per la casa e, quando capitava in cucina, era come se non ci fosse nessun altro a parte lei e la mamma che armeggiava su chissà cosa.
Nel 12, non si poteva restare bambini per troppo tempo.
- Questo nascondiglio è diventato un po’ troppo piccolo, non trovi, scoiattolina? – disse invece, con quella sua voce pacata, che sembrava musica anche quando non cantava.
Annuii. Ricordo che mi sforzai di sorridere, che cercai di allontanare il pensiero dell’uomo che giaceva sul tavolo in cucina. Solo questo mi è concesso sapere, che era un uomo. E che molto probabilmente era ferito in maniera tale da avermi impressionata sino a fuggire.
Papà fece scivolare una fogliolina dai miei capelli e se la rigirò fra le mani per un po’.
- Sono scappato anch’io. – mi confessò.
Pensai che non avrebbe potuto dirmi cosa migliore. Mi sentii capita, accettata, mi sentii compresa.
Mio padre mi era complice in tutto.
- Faceva paura anche a te? – gli domandai.
- Solo un po’. – rispose lui, quantificando tra pollice e indice il grado di terrore che aveva provato.
Ridacchiai, lasciando scivolare un po’ dell’isterico nervosismo che mi aveva assalita.
Quando gli domandai se, secondo lui, mamma avrebbe guarito quell’uomo, mio padre tacque per un tempo che mi parve durare in eterno.
Riuscivo a sentire l’accelerare del suo respiro, il lento scrocchiare delle sue dita. Lo faceva solo quando era in preda al dubbio, all’incertezza, quella cosa dello scrocchiarsi le ossa delle mani.
Era un rito, ormai. Gli chiedevo sempre se secondo lui mamma sarebbe riuscita a strappare alla morte il paziente. Lui mi assicurava sempre che sì, mamma ce l’avrebbe fatta, che aveva mani di fata, mani magiche.
- Non lo so. – mi rispose quella volta.
- Potrebbe… - iniziai.
Evidentemente, mio padre aveva deciso che era ora di mettermi davanti a una delle più grandi e terribili probabilità che la vita ti presenta.
-… morire? –
Mio padre annuii.
Pensai che non avrebbe potuto fare cosa peggiore di quella.
Ciò che mi disse dopo, sussurrandomelo in un orecchio, voleva essere una sorta di consolazione, un modo per dirmi che, in barba a qualsiasi dolore stesse patendo il paziente della mamma, non stava soffrendo nel modo disumano che stavo immaginando.
- La gente muore, Katniss. – mormorò. – Ma non soffre, non come spesso ci ritroviamo a pensare. È agli altri che è serbato il peggior dolore. –
Non capii. Avrei voluto chiedergli ulteriori spiegazioni, indagare sull’identità di questi fantomatici “altri”, ma mio padre era davvero bravo a distrarmi, ad anticipare ogni mia mossa con quella scioltezza che apparteneva soltanto a lui.
- Allora, - esclamò, le labbra modellate in un ampio sorriso, - vogliamo trovare un nascondiglio migliore di questo?  Un posto che possa contenerci entrambi? –
 
 
Quel giorno c’inoltrammo nei boschi, più di quanto non avessimo mai fatto insieme.
Indugiai un po’ prima di oltrepassare la recinzione, ma lo sguardo di mio padre mi ricordò ancora una volta che non mi avrebbe mai portata incontro al pericolo.
A distanza di qualche tempo, mi avrebbe spiegato come funzionava il sistema di elettrificazione della recinzione.
Attivo un giorno sì e sei no, disse circa un anno dopo.
Bel sistema, replicai io.
Mia madre mi rifilò un’occhiata di rimprovero, velata da una coltre di preoccupazione. Aveva sempre paura che non riuscissi a frenare il flusso di ingenue, taglienti, pericolose parole che mi usciva di bocca, ogni tanto. Ma non credo che avesse molte ragioni per allarmarsi tanto, visto che mi mettevo a snocciolare frasi senza sosta solo in presenza di mio padre.
Papà mi portò in un luogo che pareva lontano anni luce dal 12.
C’era un’infinita cupola di foglie e rami che s’intrecciavano sopra le nostre teste, che facevano ombra sullo specchio d’acqua dolce del lago. La distesa trasparente scorreva placida, tranquilla, e ogni tanto si metteva a vibrare in sottili cerchi concentrici.
Pochi rami, i più bassi, godevano del lusso di accarezzarla, e sembrava che gli altri, i più sfortunati, ne bramassero anche solo un fuggevole contatto.
Camminammo a piedi scalzi in mezzo all’erba fresca e verdeggiante. Quel luogo divenne il nostro nascondiglio sin dal momento in cui sentii quei fili verdi solleticarmi la pelle.
Papà si tuffò per primo in acqua, ancora vestito. Mamma ci avrebbe uccisi entrambi, se fossimo tornati bagnati fradici, con tanto di maglietta e pantaloni gocciolanti.
- È congelata, ma pulitissima! – esclamò mio padre, le braccia levate verso l’alto, il corpo immerso sino al collo.
- Avanti, scoiattolina, vieni. –
Dovette ripetermelo per un paio di volte, prima che trovassi il coraggio di tuffarmi.
Allora non sapevo ancora nuotare. Era già un miracolo che riuscissi a darmi una pulita un giorno sì e uno no nella piccola vasca di legno che mamma riempiva, quand’eravamo più fortunati, di un po’ d’acqua che aveva messo a scaldare.
 
 
Quando mi decisi a immergermi in acqua, prima un piede, poi un altro, con tutta la cautela del mondo, papà mi cinse i fianchi.
Lo fece per almeno un altro anno, di tenermi stretta per la vita, finché non acquistai una certa dimestichezza nel muovermi e galleggiare nell’acqua leggera del lago.
- Qui è dove potrai trovarmi. Sempre. – mi sussurrò in un orecchio.
Non capii. Avrei voluto chiedergli cosa volesse dirmi, perché avesse deciso di offrirmi quella sorta di promessa, ma mio padre era davvero bravo a distrarmi, ad anticipare ogni mia mossa con quella scioltezza che apparteneva soltanto a lui.
Si mise a fischiettare, poi iniziò a cantare.
Sopra di noi, nell’intreccio di foglie e rami, gli uccelli si ammutolirono, rimasero immobili, appollaiati sulle sommità degli alberi.
Poi, un paio di ghiandaie imitatrici iniziarono a riprodurre la melodia intonata dalla voce di mio padre.
- Shh. –
Mi mise un dito sulle labbra.
- Mamma non deve saperlo. –
Gli promisi che non avrei proferito parola con la mamma.
Ricordo ancora adesso l’espressione allarmata nel suo viso, la smorfia di panico in cui si era accartocciato il suo volto delicato, quando mi ero messa a intrecciare collane di corda, canticchiando un’inquietante melodia su un uomo impiccato a un albero.
Ricordo di aver pensato che quello fosse davvero un buon nascondiglio. Contavo di dirglielo, prima o poi, di ringraziarlo per avermi portato lì, in quel posto che poteva contenerci entrambi e ci intrappolava nella sua cupola di foglie.
Ma non lo feci. Mai.
 
 
L’acqua mi lambisce la pelle, sporca, madida di sudore, screpolata in alcuni punti.
Sono giù da qualche secondo, tanto che il mio naso ha iniziato a produrre vortici di minuscole bollicine.
Ricordo che mio padre si divertiva a giocare con quelle piccole creature sferiche e malleabili. Gli piaceva farle esplodere con le dita.
E gli piaceva anche far smorfie sott’acqua. E a me piaceva ridere delle sue espressioni buffe.
Perché tanto poi mi prendeva. Anche se ridevo sino a scoppiare, anche se aprivo la bocca e rischiavo di far entrare troppa acqua nei polmoni. Papà mi prendeva per i fianchi e mi portava su, prima ancora che mi accorgessi di aver corso il serio pericolo di affogare.
- Devi serbarla solo a me questa risata, scoiattolina. – mi diceva.
Sapevo cosa intendeva con quell’ammonimento: se lui non fosse stato con me, pronto a farmi risalire in superficie, non avrei dovuto aprir bocca quando ero sott’acqua. Tuttavia, mi rendeva orgogliosa pensare che mio padre amasse tanto la mia risata da volerla tenere solo per lui.
Quando emergo, mi concentro sul mio respiro. Devo riprendere un ritmo regolare.
L’acqua scivola lentamente dalle mie orecchie, liberandomi i timpani. È allora che li sento.
Sopra di me, appollaiati in cima agli alberi, nascosti dalla cupola di foglie. Cinguettano.
Cantano perché mio padre non li ammutolisce con la sua voce melodiosa.
Capisco di essere parte di quegli altri di cui mio padre mi ha parlato.
Capisco che le promesse, per quanto buone possano essere le intenzioni con cui vengono fatte, non sempre vengono mantenute, e che lo stesso concetto di “sempre” è l’illusione più grande di cui l’uomo possa vestirsi.
Capisco che è più facile immaginare che mio padre sia con me, finché rimango sott’acqua, aspettando che mi afferri per i fianchi.


 
Angolo autrice:
Eccomi con il capitolo finale di questa raccolta.
Io lo so, lo so, Wip, che mi starai odiando per aver pubblicato tremila cose in tua assenza. Perdonami.
Posso confessarvi di essere intimamente soddisfatta di questo lavoro? Sì, va bene, lo dico. Questa shot mi piace. Spero solo che possa piacere anche a voi.
Raccolta terminata. Non ho molto altro da aggiungere.
Un bacio, scoiattolini amorevoli che avete letto :)
E un ringraziamento speciale a: Simple, workinprogress, PervicaViola e Deb per aver recensito il precedente capitolo su Galeotto.
S.
 
 

 
  
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