Molti anni.
Gli uni dopo gli altri,
in pochi istanti.
Distorsione
temporale,
Daltonismo esistenziale
ostacolo della più elementare classificazione,
rende impossibile il fisionomico riconoscimento,
un estraneo allo specchio.
Reciproco ritratto.
Spaesato a livello sensoriale,
evito gli occhi, se possibile.
Dispersivi, appannati nei dettagli.
Ipoteche periferiche sui corpi.
Dileguati nel nulla.
Il sacro limite della spigolosa vetrata
a filtrare il concitato gioco di sguardi
cui sono sottoposto.
Conosce il vanesio la sistematica impotenza
delle rifrazioni,
delle immedesimazioni
che differiscono,
ambigua
negazione del mio essere ente in quanto tale,
pura astrazione senza scopo pratico
e
che si giri o meno
dovrò esserci,
farmi trovare
farti trovare
fatti trovare
a far da spettatore
alla
trasognata sufficienza del dato per scontato
che
solca il volto noto,
il primo piano,
il contorno espanso.
Denso.
Pronuncio l’irrisoluto
silenzio
che
non mi è dato parlare
disturbato dall’assetto del dualismo
esasperato
cui dobbiamo attingere,
sistema di tessuti e linfa
tu
proporzione d'assorbimento materia-luce
io
assorti nell’artificiosa violenza
mai compiuta
di uno spasmo
sul suo riflesso,
si crea un contesto
estraibile
cielo grigio perla, umido nembo
annichilito dalle frontiere
di tempo lineare
dei devoti dell’ipotetico
e
dell’utopico,
non è il posto
atto a colmarsi,
a
contemplarsi,
a rendere comprensibili
barili di pensieri
non ancora scoperti
nella misura in cui
altrimenti non riuscirei
a definire
se non
“climax
di atroce patimento
di una complessivamente pacata
incrinatura dell’inestinguibile
cornice immaginaria
che
preme contro il vetro”.
Da cui ti ritrai.
E ritratti.
Il mio vetro.
Nel quale sono inscatolato.
Intrappolato.
Morto, ammassato.