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Autore: Kiji    15/09/2013    0 recensioni
L'amore e l'odio... Un sentimento di oppressione che non ti lascia vivere e delle catene senza forma che ti imprigionano la mente. Una storia tormentata di una donna che ha perso ogni speranza...
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sole colpì i miei occhi stanchi, privi della lucentezza che li caratterizzava. Dove mi trovavo? Non lo ricordavo più! Lui mi aveva rubato l’anima, ma ancora continuavo a vivere nella sua trappola di cristallo. Perché lo permettevo? Forse ero solo stanca di fuggire alla sua voce che, continuamente mi ossessionava?! Sentendo l’acqua scorrere nelle tubature, guardavo senza vita quelle catene invisibili che mi stringevano i polsi. Ero legata a quel luogo, sebbene fossi libera da ogni impegno. Il mio cuore era oppresso, e la mia anima chiedeva un po’ di pace, ma ancora mi ostinavo a restare.
Sbirciando dalla finestra chiusa a metà, vidi un mondo diverso presentarsi ai miei occhi, così in movimento rispetto alla staticità del mio corpo. Pieno di vita, tutto mi sembrava così distante ed illusorio, così perfetto ed irraggiungibile. Una porta si aprì con quel cigolio che ricordavo alla perfezione, sempre uguale. I passi di quell’uomo sul pavimento che si avvicinavano, sempre più pesanti. Il suo odore che mi pizzicava la gola ed il tocco esperto delle sue mani sul mio corpo nudo. Sentivo ogni cosa, ogni minima pressione della sua carne ancora bagnata e, nel profondo, avevo ancora paura.
– Sei bellissima questa mattina! – Il suo sussurro, come un alito di vento dorato, mi fece rabbrividire. Da quando avevo iniziato ad odiarlo in quel modo? Ricordavo ancora i momenti felici, le passeggiate in allegria, o forse fu proprio allora che avrei dovuto scappare via. Fin dal primo momento in cui i nostri occhi, disgraziatamente si incontrarono. Il corpo, martoriato ancora dalla sua furia, portava i segni di quell’incontro fatale, ma avevo perso ormai, la forza per fuggire.
Con una mano, scostò la tenda, impedendo ai miei occhi di guardare lontano, quel punto indefinito all’orizzonte e bloccando la mia immaginata voglia di ribellione. Come un giocattolo vuoto, mi abbondai al suo fremito di rabbia. Su quel letto, venni appoggiata con forza, ma ormai non ci facevo più caso. Con gli occhi spenti, cercai di tornare bambina, mentre inevitabilmente, venivo violata ancora. I suoi gemiti, caldi e passionali, mi sdegnavano. Chi ero io?
Tesoro, Gioiellino, Stronza era così che mi chiamava lui, a seconda del suo umore e forse anche io avevo dimenticato quel suono lontano. Il forte rumore del clacson, mi fece sobbalzare mentre le sue spinte si facevano sempre più intense e dolorose. Non provavo più nulla! Chiudendo gli occhi, pezzi del mio passato si facevano più vivi, come un puzzle che a fatica cercava di ricomporsi. Vidi il volto sfigurato di mia madre, in pena per una figlia che le aveva disubbidito. Ancora la tomba fredda di mio padre, mentre a fatica imponevo quei fiori vellutati come gesto eroico ma pur sempre vano. Gli amici d’infanzia che, poco a poco, sparivano nel nulla, troppo occupati con le loro esistenze per salvare una persona che, in pericolo, non chiedeva aiuto.
Rimasi immobile quando, senza forza, venne dentro di me. Avevo smesso  da tempo di protestare! Lui aveva l’espressione così serena, quelle piccole rughe che a poco a poco si inarcavano sempre di più sul suo viso liscio di ragazzino innamorato. I capelli bagnati, rilasciavano le loro gocce su di me, spaesata e disinteressata.
– Lo so che ti piace Tesoro, smettila di sembrare indifferente. – Con un colpo sul mio corpo debole, mi fece esitare, cercando di nascondere con le dita i segni di quell’atto di passione. Mentre il letto rilasciava il suo peso, sentii l’aria abbattersi su di me, schiacciandomi sempre più verso il fondo. Quando sarei riuscita ad uscire da quel torpore che mi uccideva dentro? Con i suoi passi che si allontanavano, il fischio della pentola a vapore che si diffondeva nella piccola stanza sporca, mi alzai lentamente. Accasciando lentamente il mio corpo alla parete mi trascinavo a fatica, sentendo su di me quelle lacrime senza forma. Non avevo più la forza neanche per piangere. Vidi quel piccolo pezzo di vetro, un giocattolo in frantumi proprio come quel bambino che dentro di me era sparito nel nulla. Era forse lui che mi chiamava? Quel lamento sordo che udivo in continuazione, poteva essere il suo grido di disperazione? Mi abbassai cercando di raccogliere quel ricordo senza tempo, ma non appena lo sfiorai, un immenso dolore si diffuse in me e quel sangue scese lento colpendo il pavimento di legno. Quasi bruciandolo!
Una culla rotta ornava ancora quella piccola casa in disordine. La porta venne sbattuta ancora, ma lui era ormai in strada, distante da quella figura patetica che guardava verso il basso. I riccioli castani che ricadevano sul mio volto sciupato, erano l’unico ricordo di quella donna che era morta senza accorgermene, minuto dopo minuto. Avanzai a fatica, non mi restava più niente da trattenere. Passo dopo passo, ancora deturpata nel cuore, salii le scale, inconsapevole di dove sarei arrivata ma, conscia di quella presenza viva che formicolava alle estremità del mio corpo. Una porta chiusa, e quella luce troppo forte che si diffondeva dal fondo come ad invitarmi.
La mia mano si mosse sola, avrei visto di nuovo quel sole splendente, vero? Una volta fuori, tutto sembrava così caldo, così diverso da quel gelo che mi aveva conquistato le ossa. Il cielo, in quel terrazzo spoglio, era sempre così limpido eppure, quel giorno, neanche una nuvola poteva oscurarlo. Sentii il rumore indistinto di uccellini innamorati, il caos che dalla strada principale adornava ogni centimetro d’aria. Era arrivato il momento piccolo mio, vero? Quella madre che ti ha ucciso, adesso tornerà a trovarti, lo sai anche tu no? Sentii un lamento, un piccolo vagito che ricordava tanto la speranza di tanto tempo fa, mentre sognavo ancora in un futuro sereno.   
Poi quella lite, le sue parole di disprezzo mentre mi gettava sul pavimento colpendomi il viso e la mia supplica inespressa. “Ti prego salva almeno il nostro bambino.” La corsa in ospedale ed il sangue che non smetteva di scorrere da me. La mia paura mentre urlavo disperata. Non potevo permetterlo, non dovevo! Mentre mi avvicinavo sempre di più a quel baratro senza uscita, cercavo invano di riprendere quel piccolo angelo che, con ancora il sorriso sulle labbra, volava via da me.
“Non andare via, non scappare piccolo mio!” Per quale motivo non mi sentiva, doveva fermarsi, eppure, anche raggiungendolo, sarei stata più felice? Nell’istante in cui le mie dita lo toccarono, tutto si fermò in quell’abbraccio privo di malizia. Una madre ed il suo bambino, per tanto tempo separati. Scendendo più veloce verso quella terra, una promessa che ci scambiammo solo con gli occhi. Sarei stata di nuovo tua, per tutta la vita ti avrei protetto e coccolato.
Quando il mio corpo toccò terra, non morii come avevo sperato. Il mio viso era ancora in lacrime fissando il cemento macchiato del mio sangue, con la mano a proteggere quella creatura immaginaria. Le urla dei passanti mentre i miei occhi si chiudevano in un sonno senza pace, ancora adesso li ricordo con estrema accuratezza. Con gli occhi stanchi, vedendo tutto appannato, una nuova vita si stava progettando per me, eppure, quel gesto, ancora adesso me ne pento!
Fine
  
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