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Autore: I Fiori del Male    15/09/2013    2 recensioni
Haymitch e una bottiglia di whiskey, cinque anni dopo i suoi Hunger Games, su un treno che lo porta, per la quinta volta di fila, a fare i conti con l'incubo di vedere due ragazzi morire nell'arena. Haymitch, i suoi pensieri e la figura di Effie,
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Effie Trinket, Haymitch Abernathy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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THE HUNGER GAMES
Verità affogate nel whiskey
 
Vagava senza meta tra i vari scompartimenti del treno, gli occhi martoriati dalla luce intensa dei neon, la vista annebbiata dal mezzo litro di whiskey che mancava dalla bottiglia che stringeva nella mano destra, tenendola per il collo.

Ogni tanto, aveva bisogno di fermarsi, per appoggiarsi a un tavolino, a un sedile, al muro, qualsiasi cosa risultasse, almeno apparentemente, stabile, in quella sua vita che non si poteva chiamare tale, in cui tutto barcollava pericolosamente, soprattutto la sua sanità mentale. 

Erano già cinque anni che beveva, cinque anni da quando era uscito vincitore dall’arena dei cinquantesimi Hunger Games. Il semplice ricordo di quel luogo, in cui tutto a prima vista appariva meraviglioso, per poi rivelarsi mortale, lo induceva al vomito, che era lo stadio precedente il suicidio, nel quale riusciva a mantenersi solo grazie all’alcol. L’odore pungente dei fiori che macchiavano di mille colori il prato attorno alla cornucopia era il suo veleno. Perciò detestava i fiori, e anche solo quelli finti gli suscitavano un incredibile disgusto, che nascondeva la paura, il ricordo del loro significato, strisciante appena al di sotto della sua coscienza, pronto a balzar fuori da un momento all’altro.

Doveva essere quella, la prima, vera ragione per cui proprio non riusciva a mandar giù la presenza di Effie Trinket. Non la sua vocetta squillante, no, per quanto anche quella non fosse di certo gradevole, specie per le sensibilissime orecchie di uno costantemente sbronzo, ma il fatto che riuscisse sempre, in qualche modo, ad inserire dei fiori tra i suoi ornamenti, di solito sulle sue esageratissime parrucche. Erano fiori oggettivamente belli, pesantemente colorati, proprio come quelli, e lui puntualmente doveva far ricorso alla bottiglia per riuscire a interagire con lei, per placare la famosa strisciante paura, il feroce istinto di accoltellarla, come se quei fiori facessero parte di lei e quella donna fosse il vero mostro da sconfiggere.

E poi Effie era sempre ricoperta di uno strato di profumo così pesante da sembrare quasi solido. Un profumo dolce, zuccherino, invitante. Il profumo di quella foresta, di quella radura dove Maysilee aveva perso la vita, dove lui stesso l’aveva accompagnata, tenendola per mano, verso quella che si sperava fosse la pace eterna. Il profumo della fuga, dei sensi sempre all’erta, che lui contrastava facendo in modo di puzzare come un maiale, così che lei gli stesse il più possibile lontana.

Ad un tratto, mentre tentava di farsi strada attraverso il treno, alla ricerca della sua camera, passò proprio davanti alla stanza di Effie, che inavvertitamente aveva lasciato la porta socchiusa in uno spiraglio attraverso cui Haymitch vide quello che non credeva sarebbe mai stato in grado di vedere.

La vera Effie.

L’ambiente era immerso nella penombra, l’alba a malapena riusciva ad illuminare il tutto quel tanto che bastava per evitare di inciampare in qualcosa, di calcolare male gli spazi. Effie dormiva col viso rivolto al sole nascente, stretta forte ad uno dei cuscini, l’espressione sofferente. Haymitch poté vedere per la prima volta di che colore fossero i suoi capelli, biondi come il grano, e la vera carnagione della sua pelle. Vide la vera tinta delle sue labbra, leggermente rosate, strette in una morsa, e la reale, misurata lunghezza delle sue ciglia, talmente chiare da essere visibili solo in controluce. Poté osservare le sue forme, non alterate dal corsetto che era solita indossare, affacciarsi sinuose attraverso le lenzuola di seta, e la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una vera donna dissipò per un attimo i fumi dell’alcol, mentre ricordava di non essersi mai soffermato ad osservare una donna da quando la sua ragazza era morta, insieme ai suoi familiari, uccisa da Capitol City per dimostrargli chi aveva il coltello dalla parte del manico. Effie non le somigliava affatto, Katie aveva i capelli scuri,  gli occhi grigi e la carnagione olivastra come quasi tutte le ragazze del giacimento, e forse era proprio per questo che non si sentiva in colpa, malgrado la morte di Katie fosse senza dubbio colpa sua.

Tese una mano. Voleva sapere, voleva accertarsi che quella pelle avesse la giusta consistenza, che quella non fosse solo un’illusione prodotta dal Whiskey e dalla sua coscienza insana. Raggiunse il braccio di Effie ma ritirò la mano appena prima di riuscire a sfiorarlo. Scosse la testa, sorridendo amaro, perché le voci del suo passato erano tornate a fargli visita, esigenti di ogni minima traccia di lucidità, reclamando il ritorno della bottiglia alle labbra.

E lui obbedì, si alzò in piedi e ricominciò a tracannare whiskey, strisciando fuori dalla stanza, e bevve fino a dimenticare il suo nome, e qualsiasi cosa fosse successa prima di riuscire a raggiungere il conforto del materasso sotto la rassicurante veglia della luce solare, ma quando si svegliò, non prima della sera successiva, e vide Effie, la solita, spumeggiante, colorata, profumata Effie Trinket, la vide per quel che era davvero, una donna di cui avrebbe potuto forse anche innamorarsi.

Riempì il suo bicchiere di vino rosso, e poi un altro, e un altro ancora, deciso a dimenticare, perché se non l’avesse fatto, lui lo sapeva, avrebbe cominciato a sperare in qualcosa che non gli spettava, che non si meritava. Inghiottì tutti gli insulti che Effie gli rivolse, vedendolo tracannare vino di fronte allo sguardo spaurito e incredulo dei tributi di quell’anno, chiedendogli di comportarsi com’era dovere di un Mentore, e lui sorrise, riconoscendo in quella richiesta forse la vera bontà di Effie, di una possibile Effie reale, che voleva veder vivere i tributi a lei assegnati, che forse venerava Capitol City solo per finta, che aveva come lui degli incubi da affrontare,  delle anime innocenti a sussurrargli nell’orecchio ogni giorno le sue colpe.

Sorrise, ma non poté fare a meno di dirle: - Allenta il corsetto, beviti una cosa ... –

- Mostrami la donna dietro la maschera, di modo che io possa vivere assieme a lei – era la sua vera richiesta, anche se non lo avrebbe mai ammesso.

 
   
 
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