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Autore: Columbrina    15/09/2013    0 recensioni
Buon compleanno, Fang!
Pre - game.
Se c'era una cosa che il signor Farron aveva insegnato a Snow, quando non era altro che un piccolo scavezzacollo, è che le sfide non vanno mai rifiutate.
“Ti ricordi che ti avevo promesso di presentarti le mie figlie, no?”
Snow annuì piano, per fare in modo che nessun altro se ne accorgesse.
“Lascia che ti dica una cosa…”
Lanciò un altro, fugace sguardo; stavolta, verso una delle sue piccole.
“Per quanto le carezze possano essere dolci, non rinunciare mai e dico mai al sapore di una sfida”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Per Fang perchè voglio che sorrida, nel giorno del suo compleanno
 
E anche per due delle persone più importanti della mia vita: L, che è sempre vicina a me, e A, che si sta approcciando alla Neve Fulminante con crescente entusiasmo.

 
 
 
Grida esasperate si levavano dall’edificio appena fuori la città marittima di Bodhum e nessuno si preoccupava di chiedersi cosa stesse succedendo al punto da indurre l’istitutrice più inflessibile – la terza in un mese – a piantare le unghie tra i capelli e sciogliere la rigida crocchia in cui erano legati i suoi capelli color cenere, che incorniciavano un viso solitamente arcigno, mentre ora era sudato e  deformato come fosse fatto di pasta modellante, ricco di grinze e pieghe che le toglievano molti anni di quanti ne avesse effettivamente; anche il tailleur color grigio topo era ridotto a uno straccio – letteralmente – e le pieghe della gonna facevano pendant con quelle del volto, mentre una chiazza di colore concentrata precisamente sulla zona delle natiche si confacevano agli acquosi occhi azzurri.
Agli occhi degli altri docenti, incluso l’indolente custode, non era uno spettacolo piacevole a guardarsi o a sentirsi perché quell’istitutrice – il cui nome sfuggiva a chiunque, dato che si faceva chiamare sempre e solo per cognome – non era nota per i suoi toni soavi, tutt’altro.
Alcuni bambini, colti alla sprovvista, si erano precipitati fuori dalle loro camerate per assistere alla sua ennesima scenata schizofrenica e trovare sollievo all’indolenza domenicale e, a differenza dei docenti, prendevano la situazione con maggiore filosofia, sogghignando malignamente, e ascoltavano quelle imprecazioni stridule come se fosse una dolce musica proferita da labbra celestiali. Non si curavano di farsi scoprire a ridere a crepapelle perché tutti – proprio tutti – conoscevano le identità dei colpevoli, verso i quali i bambini provavano un singolare istinto di solidarietà, dato che non avrebbero assistito al compimento del loro operato, ordito con tanta fatica quanto uno spiccato spirito di cospirazione.
“Quei mocciosi immondi! Bestie insane! Figli del demonio!”
Una processione di esecrazioni che non volevano saperne di arrestarsi perché l’istitutrice non poteva accettare che dei reietti della società la mettessero  con le spalle al muro, con la loro furbizia infantile, anche se per lei era tutto fuorché questo: i bambini furbi sanno riprendere le caramelle o i giocattoli confiscati senza che un adulto se ne accorga poiché, anche se venissero scoperti, sanno sempre accattivare con la loro ingenua disposizione a credere di essere invincibili.
“Ne sanno una più del diavolo, quelli! Basta, io me ne vado!”
Alcuni sommessi cori d’esultanza, accompagnarono l’immediato intervento della direttrice dell’istituto – una donna tarchiata e dalla faccia gentile, ma priva di polso – che raggiungeva la sventurata, che frattanto riprendeva fiato e ordinava al custode di portarle i suoi bagagli. La direttrice la cinse per le spalle e l’avrebbe accarezzata un po’ se l’istitutrice non si fosse liberata bruscamente del suo lezioso tentativo di rifilarle uno dei suoi corroboranti discorsi sulla collaborazione e sul dialogo con quei bambini, la cui sorte non era stata delle più generose.
“Suvvia, mia cara! Provvederemo a pagare per lei il conto della lavanderia… Andrà via subito, è solo una macchia di colore. Tutto qui!”
“Lei ha idea cosa mi costano questi bambini? La mia sanità mentale, ecco cosa!”
Alcuni bambini risero: quella donna sapeva avere spirito, quindi.
Gli occhi supplichevoli della direttrice si fecero sempre più impellenti, come a voler invadere lo spazio che le permetteva di agire secondo la sua volontà e prenderne il pieno controllo.
“Andiamo, questi bambini hanno bisogno di una guida, di una mano ferma che possa prenderli e indicare la retta via. Le loro monellerie sono solo un tentativo per attirare la sua attenzione; è il loro modo per dimostrare che ci tengono…”
“Ma certo, come no! Baggianate! Se tenessero davvero a me, non cercherebbero di farmi impazzire in ogni modo. Questo dovrebbe essere un manicomio, non un orfanotrofio!”
La sua voce era più stridula del solito, come se volesse sforzarsi di uscirle dalla gola e il corpo tremava, letteralmente, e ogni fibra era scossa dalla frustrazione e dal pianto rabbioso. La direttrice era assai inorridita.
“Si calmi, cara, su. Ora le faccio portare una tazza di tè caldo per i nervi…” fece di nuovo la direttrice, con fare pacifico.
“Non voglio il tè, voglio solo la mia valigia! Ora!” tuonò, battendo sonoramente i piedi sul pavimento e guardandosi intorno, guardinga, alla ricerca di quel buono a nulla del custode. Sicuramente aveva dimenticato il verso giusto con cui girare la chiave nella toppa.
“Allora un bicchiere d’acqua! Qualcuno porti un bicchiere d’acqua
Si innalzò un brusio sommesso, nato dai commenti entusiasti dei bambini che si complimentavano con gli artefici e lodavano la loro intraprendenza e il loro coraggio; alcune bambine, solitamente più disciplinate e meno impressionabili dei loro coetanei maschietti, non davano molto peso al gesto quanto alla loro totale mancanza di preoccupazione delle conseguenze oppure criticavano con ferocia la totale mancanza di polso della direttrice perché, sicuramente, l’avrebbero fatta franca; ancora altre, più idealiste e sognatrici, sospiravano con ammirazione dinanzi al fascino dei ribelli e che avevano più coraggio di quanto ne potesse avere un cacciatore dinanzi a una bestia sanguinaria.
Alcuni commenti giunsero alle orecchie dell’istitutrice, che sbuffò con crescente disgusto. La direttrice tentava ancora di calmarla, ma le sue leziosità erano così blande e disperate che non le rispondeva nemmeno.
“Andiamo, non se la prenda così. Se crede che quei bambini abbiano bisogno di una strigliata, chiamerò immediatamente il signor Farron!”
Le labbra dell’istitutrice si sformarono in una smorfia ovale, dalla quale uscì una risata isterica.
“Ma allora lei è proprio orba? Il signor Farron è il primario sostenitore di questa barbara campagna di emancipazione! Non mi dica che non si è accorta dei sogghigni che lui e il suo pupillo si scambiano. Ah, ma mi sentirà anche lui… Eccome se mi sentirà!”
A quelle parole, la direttrice parve spiacevolmente spiazzata; le sopracciglia si arcuarono in uno sguardo interrogativo, che accigliava un po’ quel volto sempre così gentile e pacifico.
“Si spieghi meglio, mia cara. Il suo pupillo?”
L’istitutrice dalla crocchia sfatta sbuffò sonoramente, mentre una nuova ondata di esasperazione la travolgeva come un cavallone in piena tempesta.
“Quel piccolo demonio, ecco chi è il suo pupillo. Quello che mi ha fatto questo scherzetto! Il signor Farron ha contribuito a trasformarlo in una piccola mina vagante”
“Non si sta mica riferendo a…”
La direttrice non poté finire la frase poiché vennero interrotte dal custode che trotterellava verso loro con il bagaglio in mano e l’ebete espressione di chi non sapeva esattamente cosa stesse succedendo.  La donna dalla crocchia sfatta la prese con quella che doveva essere un’attitudine tronfia; gonfiò il petto come a doversi preparare a ricevere una coccarda.
“La mia acqua!”
La direttrice rivolse un’occhiata stranamente intimidatoria al custode, facendo un brusco cenno per incitarlo quando vide che era ancora fermo al suo posto, senza alcuna coscienza della situazione.
Tornò subito dopo il bicchiere che traboccava d’acqua fresca; l’istitutrice lo tracannò senza troppi complimenti.
“Comunque mi riferisco proprio a quello, direttrice. Sì, quello perché non merita di essere catalogato come essere umano. Occhi come quelli del diavolo pronto a rapirti l’anima e quella faccia da schiaffi; nemmeno le mie più severe e inflessibili strigliate sono servite a placarlo. Veleno ha al posto del sangue, oh sì. Non mi stupisco che anche la sua stessa madre abbia deciso di abbandonarlo o, meglio, che il destino stesso abbia deciso di non avere pietà di lui, creatura immonda. L’avete visto? Irascibile, indisponente e sempre circondato da quei suoi galoppini, quei bambini che sono sempre alle sue costole, probabilmente, sono intimoriti da lui… Magari li minaccia; ne sarebbe capace, più che capace.  Del resto non è completamente colpa sua – una buona parte, dato che è la sua natura malvagia – visto che c’è sempre la questione del signor Farron”
“Suvvia, cara, non può dire una cosa del genere. Conosco il signor Farron ed è un uomo più che stimabile; ha un temperamento esuberante, sì, ma è di animo buono”
“Non metto in dubbio il fatto che sia stimabile, ma  ho riscontrato un notevole peggioramento dell’esuberanza di quella piccola peste bubbonica” si fermò per bere l’ultima sorsata d’acqua, rimarcando velenosamente i timori di quella povera e timorata donna. Tirò un profondo respiro e riprese  “Specie da quando lui è diventato il suo pupillo e ciò è evidente. Passano il tempo a cospirare, a ordire complotti alle mie spalle solo per sadico divertimento e credo che l’esuberanza del signor Farron sia altamente contagiosa. Quel demonio, seppur sempre indisponente, era molto più introverso prima del signor Farron; come se avesse innescato una bomba che è esplosa proprio sotto il mio sedere!”
A quel punto, si levò un brusio concitato di risa, ma l’istitutrice non ci badò molto dato che aveva in pugno la direttrice, sempre più ansiosa, come se le fosse stata tolta dagli occhi una benda che aveva portato per tanto tempo e ora fosse abbagliata dalla troppa luce, che bruciava e anche tanto.
“E quelle sue visite… Sono diventate sempre più costanti da quando Farron ha scoperto di avere una grande influenza su di lui, anche se è solo il primo di tanti, ne sono certa. Ha intenzione di creare una sorta di piccolo esercito di piccole creature immonde che possano sabotare il lavoro di una vita, rovinando tutto ciò che i vostri padri hanno costruito con il sudore della fronte, come si fa con i castelli di sabbia. Ribelli senza fucili, ma surrogati dei demoni. Questo scherzetto fatto a me non è niente, ma pensi alla perversione distruttiva che c’è dietro tutto questo”
“A me pare che stiate un po’ esagerando. Farron è cresciuto nel mio orfanotrofio, lo considero un figlio. E quel piccolo… A me sembra solo vivace come lo era lui a suo tempo; non potrebbe mai far del male a una mosca… E ha una così triste storia alle spalle, povero bambino. L’abbiamo trovato fuori alla nostra porta durante una tempesta di neve, quando era ancora in fasce; non so come abbia fatto a sopravvivere al freddo pungente” diceva accorata la direttrice, interrotta dai concitati Vede? Vede che è un demonio, allora! dell’istitutrice dalla crocchia smessa “Non sappiamo nulla dei suoi genitori e lui non sa nulla di loro, nemmeno se sono vivi o morti”
“Probabilmente li avrà uccisi lui, ne sono sicura”
“Ma era ancora un neonato; come avrebbe potuto brandire un coltello o puntare una pistola alla tempia? Le sue dita a stento reggevano un cucchiaino. E vi dirò di più, il fatto di non avere i genitori ha influito molto sulla sua indole perché era un bambino introverso, silenzioso e sempre malinconico. Il signor Farron non è stata che una figura benigna per lui, che ha iniziato a sorridere, mangiare di più, partecipare più attivamente alla vita di classe, socializzare con gli altri bambini…”
“Minacciarli”
“E si confida molto con lui. Farron gli ha insegnato a leggere un po’; adora i libri di avventura e di storia e qualche sera fa mi ha confessato di voler diventare un archeologo”
“Malsana e precoce passione per i cadaveri”
“E sempre Farron ha due figliolette, una della sua stessa età, per giunta. Ha promesso di fargliele conoscere entrambe, così inizierà a socializzare anche con persone diverse dai suoi amici qui… E gli ha chiesto di scegliere anche la sua preferita” rise la direttrice, trovando la cosa teneramente buffa.
“Ingordo puttaniere” fu il commento dell’istitutrice, per niente intenerita dal fatto che Farron stesse indirizzando quel bambino sulla via della fornicazione.
“Quindi non ho ragione di pensare che quel bambino sia un pericolo pubblico”
L’istitutrice socchiuse lo sguardo per lasciarsi andare a una sommessa e maligna risata, rimarcando la patetica ingenuità della direttrice.
“Quel piccolo demonio sarebbe capace di questo e altro. A differenza degli altri bambini, lui ha il gene della cattiveria nelle vene… Suo padre era sicuramente un malvivente e sua madre una poco di buono; sì, tanto genio maligno non può essere frutto di un gene recessivo; probabilmente il demonio stesso ha contribuito al suo concepimento. O forse viene da Pulse… Ci giurerei, quel bambino è una creatura di Pulse, altrimenti non si spiega come sia riuscito a sopravvivere a una tempesta di neve. Ah, se l’avessi davanti, cosa gli farei…”
“Cosa mi farebbe, signora maestra?”
Una voce ben diversa da quella squillante dell’istitutrice e quella sommessa della direttrice, che si distingueva anche dal brusio incessante dei bambini; non era neanche lontanamente simile al tono buffamente balbuziente del custode o a quello trasognato della bambina che fantasticava sul fascino dei ribelli, quello strascicato del bambino dai capelli rossi che sospirava ammirato o semplicemente quello di qualunque bambino presente in quell’orfanotrofio, in quella città, su Cocoon.
Era un tono noto per la facilità efferata con cui riusciva a spiazzare una mandria di inflessibili istitutrici. E non per qualche latente o beffarda insolenza tipicamente infantile.
Snow, che si ergeva nei suoi precoci centocinquanta centimetri, l’aveva detto a metà tra una spontanea confusione interrogativa e un ché di divertito che l’istitutrice classificò inequivocabilmente come “compiaciuto” e la direttrice era silenziosamente d’accordo, anche se non avrebbero mai immaginato che quella compiacenza, mista ad ammirazione, veniva dal fatto che non aveva mai visto  la crocchia della sua maestra così sfatta, quello sguardo così traboccante di furiosa euforia, quelle dita così tremanti e quel vestito così sporco e pieno di pieghe. Aveva scoperto una certa disposizione naturale nel portare alla luce la natura più recondita delle persone; Farron gli aveva già anticipato che le persone, spesso intimorite dal mostrare quella parte di loro che avevano passato una vita a reprimere, classificano quel suo modo di fare con l’invadenza e non come un tentativo di affrontare loro stesse e, magari, riuscire ad amarsi anche davanti agli altri. Per questo, nessuno gli sarebbe mai stato grato. Però Snow, nel vederla così e realizzare che era riuscito nel suo intento, gli fece apprezzare la sua insegnante più di quanto non avesse mai fatto prima.
A guardarlo non sembrava affatto un demonio, anzi rimarcava a perfezione i cherubini preraffaeliti che si ammiravano solo in sporadici ritratti: il largo sorriso, misto tra denti da latte e non, formava delle pieghe che assottigliavano lo sguardo azzurrissimo e vispo, che si confaceva perfettamente a biondi e folti capelli biondi che soleva domare con una bandana che, solitamente, gli metteva in testa la direttrice; ora ne indossava una color cachi e con il disegno stilizzato dell’orma di un orso, regalatagli dal signor Farron, un tipo a posto; secondo molti, Snow lo ricordava in molti aspetti e quando glielo dicevano, gonfiava il petto e ringraziava, sfoggiando un sorriso e grattandosi dietro la nuca a mo’ di vezzo. Erano quelli i momenti in cui si sentiva più fiero di sé.
Eppure l’istitutrice continuava a guardarlo con la coda dell’occhio, come se fosse un orrido scarafaggio che andava immediatamente schiacciato, una bestia immonda che andava soppressa, eppure – per quanto le costasse ammetterlo – era spaventata dalla proiezione paranoica della sua realtà, poiché credeva che potesse tirar fuori, da un momento all’altro, qualche stregoneria di Pulse.
Si accorse che aveva passato ben cinque minuti buoni a cercare di incenerirlo con il cipiglio più arcigno che poteva elargire, non molto diverso dalla sua espressione abituale, dunque.
“Tu, sudicia peste, sei il responsabile di tutte le mie pene!”
“Ah… Dunque non è una cosa bella.”
“Certo che non è una cosa bella, pestifero idiota! Secondo te, è una cosa bella attentare alla mia salute mentale?”
“Calma, calma, non ne faccia un dramma… Stavo solo cercando di portare alla luce la vera lei”
L’istitutrice dovette fare appello a ogni recondita briciola del suo autocontrollo, qualunque traccia superstite alla furiosa carneficina di quella sfuriata che le aveva lasciato un senso di vuoto, che aveva lo stesso sentore del sollievo.
“A quale scopo, di grazia?”
Il piccolo alzò le larghe spalle, scuotendole un po’.
“Semplicemente perché avevo voglia di farlo” sentenziò, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Proprio per questo, sorrise ancora di più, mandando ancora più in confusione la nauseata donna.
“Questa poi” sibilò, velenosamente. Frustrata, posò la valigia in terra e si massaggiò le tempie con le mani libere, sospirando profondamente. Poi si riprese. “Dovrebbero prenderti, rinchiuderti e farti crescere in cattività come fanno con le bestie”
“Ah… I mostri non sono nulla per me” dichiarò, tronfio, chiudendo le mani a pugno  e assumendo una posizione di combattimento insegnatagli da Farron, con le ginocchia leggermente flesse verso il basso, la guardia alta e lo sguardo furtivo; poi prese a tirare pugni a vuoto, guadagnandosi alcuni applausi.
L’istitutrice era disgustata.
“Comunque, c’è qualcosa che vorresti dirmi prima che io vada via?” lo incalzò, sperando di sentire le tanto sospirate sillabe della redenzione e dell’agognato suicidio sociale che l’avrebbe portato alla gogna dell’umiliazione.
Il piccolo, visibilmente confuso, si fermò a riflettere, con i pugni che ancora sfioravano il naso. L’attesa era scandita dal ticchettio concitato della suola delle scarpe della donna.
“No, non ho niente da dire”
Stava per invocare una tempesta di imprecazioni, ma si fermò quando vide che il piccolo stava aprendo bocca per parlare di nuovo.
“Continuate a essere così”
“Così come? Esasperata?”
“No. Così lei stessa. Una persona non può essere sempre seria, altrimenti impazzisce”
Eppure abbiamo constatato il contrario, fu la silenziosa riflessione dell’istitutrice, che non osava replicare per qualche, strana forza di coesione tra le sue parole e una briciola d’umanità sepolta sotto una coltre di pesante tessuto grigio, da cui sprigionava una strana e calda luce.
“Dovrebbe volersi bene un po’ di più, sa?”
Boccheggiò per un istante e poi esitò, destando lo stupore generale e alcuni bambini dovettero sporgersi più del dovuto per poter ammirare la caduta dello stucco di ghiaccio, anch’esso sciolto da quell’improvviso calore, che ricadde sotto ai suoi piedi come se fosse oro fuso; una macchia di cui, stranamente, non si curava per niente.
Quel bambino era strano; non per quello che diceva, ma quello che faceva. E sapeva perfettamente che quella era una delle sue stregonerie.
Non sarebbe rimasta lì un minuto di più.
“Certo che lo so!” sbottò furiosamente, prima di andarsene, tronfia in petto come se dovesse dirigersi a ricevere un premio.
Ma lo scroscio di applausi che si levò alle sue spalle, non erano certo per lei.
 
Il signor Farron venne a trovarli più presto del solito, quel pomeriggio, quando l’atrio fu sgomberato da ogni traccia di permissività, brusio o bambino. Fu accolto freddamente dalla direttrice, che non lo invitò nemmeno a prendere un tè, come faceva di solito e che Farron, puntualmente, rifiutava. Ma era troppo preso a chiedere di Snow, del suo “pupillo”, per preoccuparsi dello strano e indisponente comportamento di quella donna solitamente così allegra.
Lanciò un frettoloso sguardo anche alle due bambine dai capelli rosa pallido, probabilmente le sue figliolette, che lo accompagnavano, stringendosi a lui come se fosse un baluardo sicuro.
“Vado a chiamarlo subito” disse, con fare strascicato, come se si stesse trascinando dietro il peso della rassegnazione. Non avrebbe permesso che anche gli altri bambini diventassero meri strumenti per il suo demoniaco esercito, se lo ripromise.
“Grazie” disse, quando la donna tarchiata gli aveva già dato le spalle. Poi, prese a fischiettare, senza problemi; davanti a sé solo l’atrio vuoto.
Sentì tirare verso il basso il lembo del pantalone, alla sua destra e il signor Farron abbassò lo sguardo sui cristallini occhi grigiazzurri – i suoi – che lo scrutavano con disappunto, mentre un buffo cespuglio di capelli rosa pallido facevano capolino dal visino levigato, che le davano un paio d’anni in più; non sbuffava e non cercava di attirare le attenzioni del papà, manteneva solo lo sguardo fisso nel suo, così simile a quell’azzurro cristallino dei bei laghi dove soleva portarle in gita, sperando di ergersi di buona spanna sopra di lui, tronfia come un feroce guerriero, intimidirlo senza dover ricorrere a meschine prepotenze; tutto ciò che riuscì a ottenere fu uno sguardo intriso di tenerezza e divertimento.
Il signor Farron, dunque, poggiò un palmo sulla sommità della testa della figlioletta e iniziò a frizionarle i capelli, scompigliandoli un po’.
“Che c’è, Claire?”
“Dobbiamo proprio stare qui? Io voglio andare nel boschetto e provare a salire su quell’albero altissimo”
Una risata sommessa provenne da quelle labbra sempre sorridenti.
“Voglio solo farti conoscere una persona, niente di più”
La piccola Claire parve ancor più disapprovare la leggerezza con cui il padre prendeva la loro gita nel bosco, tanto promessa e agognata. Strinse ancor di più il lembo del pantalone, sperando di incalzarlo ad andar via.
Tentativo vano fu il suo, dato che il signor Farron era troppo distratto a salutare con enfasi l’inserviente dalla faccia da ebete, che trotterellava nell’atrio vuoto, canticchiando sommessamente una canzone; al sentire quella voce squillante che chiamava il suo nome, si guardò più volte intorno fino a vederlo ergersi in tutta la sua contagiosa felicità e ricambiare debolmente, ricominciando poi a canticchiare da dove aveva interrotto.
Claire ruotò gli occhi, commentando silenziosamente la totale mancanza di contegno del suo papà. In questo, lei e sua madre erano simili: anche lei non ha mai visto di buon occhio il suo forte temperamento e ciò portava la bambina a chiedersi cosa l’avesse indotta a sceglierlo. Di contro, in molti assicuravano che la piccola somigliava più al suo papà di quanto volesse far vedere.
Chissà cosa avevano in comune lei e un forte temperamento.
Il signor Farron, frattanto, iniziava a spazientirsi, guardandosi intorno con crescente frequenza, fin quando girare lo sguardo a destra e a manca non divenne una specie di tic nervoso. Alla sua sinistra, sentì la debole risata della figlioletta più piccola che, finora, aveva contemplato in silenzio l’atrio vuoto. Aveva anche lei i suoi occhi grigiazzurri per guardare il mondo, solo che questi riuscivano a trovare solo il bello; ecco perché tutto le appariva come se fosse un’opera d’arte.
“Che hai da ridere, Serah, eh?”
Il signor Farron rise con più trasporto e scompigliò anche i capelli della più piccola – che li portava più corti della sorella – quindi si trasformò in una cespugliosa nuvola rosa pallido. Lei rideva come se le stessero facendo il solletico.
“Sei buffo quando muovi sempre la testa”
Nel ricordare la scena, prese a ridere ancora più forte.
“Come, così?”
Il signor Farron prese a vagare con occhi spaventosamente aperti per l’atrio, come se fossero quelli di un assatanato; nel sentire la figlioletta ridere, prese a girare lentamente la testa prima verso destra e poi verso sinistra, come un inquietante carillon, ma a quanto pare non le faceva paura. Uno scatto e la testa del signor Farron vorticava prima a destra e poi a sinistra, con crescente velocità, mentre i capelli bruni fendevano l’aria e questa sferzava sui ciuffi, scompigliandoli. Eppure la risata cristallina della figlia si sentiva forte e chiaro.
Appena si fermò, notò che Serah stringeva ancora più forte il lembo del pantalone, flettendosi sulle ginocchia e tenendosi il pancino con la mano libera. Guardò, poi, Claire che tentava di reprimere una risata, stringendo anche lei la presa.
Intimò alle sue bambine di fare silenzio e si sentì avvolto da un singolare moto di tenerezza verso le sue figliolette che, in religiosa contemplazione di ogni suo brusco movimento, tenevano l’enorme e luminoso sguardo azzurro su di lui.
“Fermi che arriva… E…”
Prendeva a scuotere febbrilmente la testa, come prima, solo che ora la risata di Claire era ben più chiara.
Ogni volta che si fermava sanciva un religioso silenzio, che lasciava posto alle risate quando riprendeva ad agitare la testa come un indemoniato.
Andò avanti così fin quando non sentì tossicchiare in modo burbero. Le risate delle bambine scemarono e, mentre la piccola Serah si nascose dietro la gamba di suo padre per l’imbarazzo, la piccola Claire scrutava la tarchiata donna con fare torvo, senza prestare attenzione al bambino che portava con sé e stringeva con fare protettivo. Il signor Farron ci mise qualche minuto a mettere a fuoco le immagini e, quando i confusi specchi di colore si sovrapposero fino a formare la tozza figura della direttrice e del bambino biondo, tentò di ricomporsi alla meglio, sebbene la felicità nel rivedere il piccolo Snow fu più forte di qualunque contegno.
Senza pensarci, il signor Farron intimò alle sue bambine di restare lì, buone e in silenzio, e corse ad abbracciare Snow.
“Ehi, campione!” diceva, dandogli alcuni buffetti sulla spalla e commentando entusiasticamente la bandana e come gli stesse bene, facendolo sorridere. La tracagnotta direttrice dovette rassegnarsi all’idea di lasciare la presa su Snow e prese a contemplare Serah, che si era nascosta dietro la sorella maggiore, e Claire e, ci avrebbe giurato, la stava guardando con aria di sfida.
Il signor Farron, intanto, si inginocchiò per guardare il bambino negli occhi e rimase piacevolmente sorpreso nel notare che lo superava di buona spanna. Lanciò un fugace sguardo alla direttrice e si avvicinò all’orecchio del bambino, come se volesse dirgli un segreto che avrebbero conosciuto solo tutti e due. Claire notò, con disappunto, che erano legati da una complicità di cui solo entrambi conoscevano la parola d’ordine e ciò la porto ad accigliare ulteriormente lo sguardo.
“Ti ricordi che ti avevo promesso di presentarti le mie figlie, no?”
Snow annuì piano, per fare in modo che nessun altro se ne accorgesse.
“Lascia che ti dica una cosa…”
Lanciò un altro, fugace sguardo; stavolta, verso una delle sue piccole.
“Per quanto le carezze possano essere dolci, non rinunciare mai e dico mai al sapore di una sfida”
Snow non capì, in un primo momento, quindi si limitò ad annuire confusamente.
Fu solo quando si presentò alle due bambine che capì cosa intendeva dire con “sfida”. Claire ne sarebbe stata una tosta.
Ma fu anche in quel momento che iniziò a capire che il gusto della sfida stava proprio ad assaporarla in piccoli pezzi, in modo da assemblarsi in modo sempre più completo e, di conseguenza, farlo sentire completo.

 
 
 
 
 
 
 
 
Note a margine:
 
Questa storia è una semplice dedica a una ragazza fatta di carne, ossa e zucchero.
Nella mia testa è sempre balenata la convinzione che Snow fosse, in qualche modo, legato alle due Farron, Lightning in particolare, e chissà, magari al padre delle due sorelle, di cui non si sa molto tranne che Snow rimarca molto la sua esuberanza e il suo agire in modo così sconsiderato, quindi magari il signor Farron potrebbe essere stato un modello comportamentale per il piccolo.
Che poi, Serah dice esplicitamente che Lightning somiglia molto alla loro madre.
Quindi, se Lightning e Snow sono la mia coppia preferita; se Lightning somiglia alla signora Farron e Snow al signor Farron, sommati al loro rapporto progressivo e l’inespressa tensione sessuale… Fatevi due calcoli.
Spero che questa storia vi sia piaciuta, in modo particolare alla destinataria.
Fang, ti voglio bene e buon compleanno.
 
   
 
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