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Autore: BlueButterfly93    17/09/2013    2 recensioni
(REVISIONE STORIA COMPLETATA)
MIKI: ragazza che, come il passato le ha insegnato, indossa ogni giorno la maschera della perfezione; minigonna e tacchi a spillo. È irraggiungibile, contro gli uomini e l'amore. Pensa di non essere in grado di provare sentimenti, perché infondo non sa neanche cosa siano. Ma sarà il trasferimento in un altro Stato a mettere tutta la sua vita in discussione. Già da quando salirà sull'aereo per Parigi, l'incontro con il ragazzo dai capelli rossi le stravolgerà l'esistenza e non le farà più dormire sogni tranquilli.
CASTIEL: ragazzo apatico, arrogante, sfacciato, menefreghista ma infondo solamente deluso e ferito da un'infanzia trascorsa in solitudine, e da una storia che ha segnato profondamente gli anni della sua adolescenza. Sarà l'incontro con la ragazza dai capelli ramati a far sorgere in lui il dubbio di possedere ancora un cuore capace di battere per qualcuno, e non solo..
-
Lo scontro di due mondi apparentemente opposti, ma in fondo incredibilmente simili. Le facce di una medaglia, l'odio e l'amore, che sotto sotto finiranno per completarsi a vicenda.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubriaca d'amore, ti odio!'
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                         CAPITOLO 1

    ADDIO ITALIA, BENVENUTA PARIGI






🎶 The Fray - How to save a life 🎶

Dove ho sbagliato? Ho perso un amico
da qualche parte, nell'amarezza
e sarei rimasto in piedi con te tutta la notte
se avessi saputo come salvare una vita

 

***

 

Micaela Rossi. Un nome che tutta Roma conosceva; una ragazza dietro al nome che invece nessuno era interessato a conoscere. Sin da piccola la vita mi aveva insegnato ad indossare una maschera, maschera che mi avrebbe protetta dagli uomini e soprattutto dall'amore. Indossare i panni di una ragazza superficiale e tutta apparenze -minigonna e tacchi a spillo- era risultato facile fino all'età di sedici anni. Avrei fatto di tutto pur di allontanare gli uomini e soprattutto l'amore; quel sentimento orribile rendeva deboli, fragili ed io non potevo permettermi niente di tutto quello. Le bambole mi erano state levate con forza sin dall'età di nove anni, erano i miei giocattoli preferiti eppure ero cresciuta ugualmente ed anche in fretta. Quindi vivere senza un ragazzo fisso e senza amore sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ero sola, ormai, abbandonata al mio destino e l'amore era un nemico per una come me, figlia di un padre che aveva rovinato le vite di sua figlia e sua moglie. 

Una vecchietta -sentendomi parlare in quei termini- mi avrebbe sicuramente accusato di essere eccessivamente melodrammatica perché giovane e con tanti anni di vita d'affrontare; e che quindi ancora non avevo visto niente di tutto ciò che il futuro mi avrebbe riservato. Avrei tanto voluto darle ragione, ma non potevo. Le tante disavventure, troppe per una piccola ragazza, mi avevano portato a sostenere altre verità ben più amare.

Non avevo raccontato a nessuno la mia vera storia, mi ero sempre limitata a dire: "i miei genitori lavorano in una compagnia aerea, tornano raramente a casa e per questo vivo da sola", ma sapevo bene che in quella mia affermazione non c'era nulla di reale. La mia vita era stata sempre basata sulle menzogne, ad aiutarmi a mentire era il mio aspetto fisico e il mio modo di metterlo in mostra. Nonostante quel particolare non mi ero mai definita una bellezza mozza fiato. Ero una ragazza nella norma: capelli castani tendenti all'arancione "no,non sono una carota", occhi neri, altezza nella media e abbastanza magra. Nonostante i tratti somatici normali, le ragazze mi avevano sempre visto come un qualcosa da detestare e temere, mentre i ragazzi mi guardavano con brama, vero, ma nello stesso tempo mi ritenevano inavvicinabile ed avvicinabile solamente da un ragazzo: Ciak.

Ciak era il mio miglior amico, era un bel ragazzo, ma non avevo mai pensato a lui come un mio ipotetico ragazzo e poi... Io non ero stata creata per quel genere di cose. Lui era alto, occhi celesti e capelli neri; aveva molto successo con le ragazze, che però, prima di andare da lui e tentare la fortuna di farsi notare venivano da me per chiedermi se veramente non stessimo insieme. In Italia c'era sempre stata la concezione che tra uomo e donna non potesse esserci solamente un'amicizia, la maggior parte delle voci sostenevano che: o eravamo scopa amici, o che uno dei due era innamorato dell'altro e non aveva il coraggio di dirlo.

Mi levai quella idea dalla testa e chiamai Ciak.

«Pronto Miki...»

«Ciak andiamo un po' in spiaggia? Devo parlarti!» il mio tono non poteva che essere triste visto ciò che avrei dovuto dirgli da lì a poco.

E lui da bravo migliore amico se ne accorse «Cos'hai tesoro?»

«Ne parliamo dopo, vienimi a prendere per ora. Ciao», chiusi subito la chiamata per evitare di farmi tentare e raccontargli tutto per telefono, non mi sarebbe sembrato il caso. 

Ciak amava guidare ed appena compiuti i sedici anni, fatti i test, aveva preso la patente per la moto. Amavo la sua moto, era una vespa della Piaggio rossa, uscivamo sempre con quella e poi -vista la mia scarsa predisposizione a guidare io possedevo solamente una bici che, tra l'altro, avevo ridotto veramente male dopo i miei piccoli incidenti anche con quella. Non sapevo tener cura neanche ad una mezza bicicletta, quindi per forza maggiore Ciak era obbligato a passare prima da casa mia ogni volta che decidevamo di uscire. Ed anche quell'ultimo giorno fu così. 

Dopo neanche venti minuti a testimonianza del suo arrivo suonò il solito clacson per incitarmi a scendere e così feci. Erano i primi giorni di Settembre, il mare era piacevole e nonostante il leggero venticello avevo indossato il bikini che tanto amavo, rosso con i pois bianchi.

«Eccomi», gli urlai alzando una mano per mostrare il mio arrivo e soprattutto per incitarlo a smettere di suonare il clacson. Aveva la fissazione di continuare a suonarlo fin quando non mi vedeva sbucare dal portone di casa. Quanti rimproveri si era preso e quanti anche io, per colpa sua. Mi sarebbe mancato anche quel piccolo particolare del suo modo di fare giocoso. 

Dopo quella breve scenetta simpatica salii in moto e, dopo il saluto con un bacio sulla guancia, per tutto il viaggio non spiccicò parola; quasi come se già fosse a conoscenza di ciò che avrei dovuto dirgli. Mi conosceva bene. 

Abitando a Roma la spiaggia più vicina era ad Ostia, dove arrivammo in circa due ore. Eravamo abbastanza matti da essere capaci di fare due ore di viaggio per solo un'ora di mare. Stavamo bene insieme, passavamo intere giornate a scherzare, giocare, ballare, cantare, guardare sfilate in tv e riviste di moda. Avevamo gli stessi gusti e le stesse passioni, era facile andare d'accordo e difficile litigare. Era capitato rare volte e sperai che quei particolari non sarebbero mai cambiati neanche con tutte le difficoltà, che il nostro rapporto di amicizia inevitabilmente avrebbe dovuto affrontare. 

Arrivati a destinazione e parcheggiata la moto scendemmo in spiaggia. Il mare era calmo, l'acqua era calda e limpida, forse un po' troppo per una giornata di Settembre. Come tutte le spiagge in quel periodo anche quella era vuota. S'intravedeva in lontananza solo qualche pescatore, ma di bagnanti solo noi. Il mare a Settembre mi aveva sempre trasmesso una calma pazzesca, utile per affrontare i primi giorni di scuola e le inevitabili domande relative alla mia vita, peccato che quel giorno non ci riuscì.

«Allora... pronta per l'inizio scuola?» finalmente si era scomodato a rivolgermi la parola mentre stendeva l'asciugamano. 

«È proprio di questo che voglio parlarti», mi accomodai sulla sabbia per la fretta. Ero nervosa e con le mani tremanti, non sarei stata capace neanche di stendere un'asciugamano. 

Mi fece cenno di parlare senza aggiungere parola; sapeva fosse qualcosa d'importante, l'aveva capito sin dalla mia chiamata, sin da quando aveva incontrato i miei occhi sul portone di casa, dai miei movimenti. E aveva capito bene.

«Tutti questi anni insieme a te sono stati incredibili e non potrò mai dimenticarli, non smetterò mai di ringraziarti per tutte le risate, per la tua vicinanza, per non aver mai fatto domande sui miei genitori pur sapendo che qualcosa non quadrava su quello che raccontavo in giro o a scuola. Sei stato, sei e sarai sempre il migliore amico più buono, più bello, più bravo e più tutto...»

«Miki smettila con questi giri di parole, arriva al punto» era nervoso lo si percepiva dalla voce, ma perlomeno lui riusciva a guardarmi negli occhi mentre io, da codarda, appena parlò iniziai a fissare i miei piedi che a contatto con la sabbia molle erano sprofondati sotto terra. 

«Cambierò città, scuola e persino Stato», sputai in un fiato. Gettai quella bomba ed istintivamente strinsi gli occhi senza il coraggio di guardarlo in volto. 

Ero codarda. Lo sapevo bene. 

E come volevasi dimostrare non riuscì a parlare. Avevo sganciato quella verità con troppa crudeltà per un rapporto leale e genuino come il nostro. Non ci eravamo mai allontanati per più di una settimana, era capitato solo rare volte che lui dovesse partire e già quando succedeva ci lasciavamo in lacrime. Non osai immaginare cosa sarebbe accaduto quella volta durante la quale era prevista una mia partenza ma non un mio ritorno.

In quell'istante trovai il coraggio di guardarlo e alzai il volto. Volevo vedere quanto ero stata capace di far male all'unica persona in grado di rendermi felice ed i suoi occhi in quel momento valevano più di mille parole, non me li sarei mai più dimenticati. Avevano un mare in tempesta dentro. 

Istintivamente abbassai nuovamente lo sguardo per poter continuare a parlare, se non lo avessi fatto sarei scoppiata in lacrime.

«Andrò a vivere a Parigi con zia Kate». Sganciai l'altra bomba. Quella volta però insieme alla bomba scoppiò il mio cuore, si sgretolò in mille pezzi. Non volevo ferire Ciak, non se lo meritava. 

E fu a quel punto che mi stupì «Ma a cosa ti serve? Stai bene sola, i tuoi ti mandano soldi da qualunque città essi siano. Tu con me stai bene, è qui il tuo posto. Accanto a me».

Dopo quelle sue parole, proseguire fu uno strazio: «Io...io non ti ho mai detto tutta la verità. Io... non ho contatti con i miei genitori da quando avevo otto anni. Ancora porto delle ferite aperte e di loro non ne riesco a parlare, scusami. Quello c-che ora... quello che ora importa è che tu sappia che è mia zia ad avermi mandato i soldi fino ad ora. La voce che hai sempre sentito al telefono era di zia Kate, non di mia madre. Zia mi ha sempre detto che non appena si fosse sistemata definitivamente nella sua casa mi avrebbe fatta trasferire lì con lei, a Parigi. Io pensavo non sarebbe arrivato mai quel momento e invece è arrivato, e non posso più aspettare. Mi ha detto che non è più disposta a pagare le spese di due case ora che lei abita vicino ad un liceo ed in una casa grande, dove io avrei tutte le comodità. Lasciarmi qui, per lei, non avrebbe più senso. Capisci?»

Non fiatò. Non fece domande anche se gli si poteva leggere negli occhi quanto fosse confuso e quanto fosse stato ferito. Quella volta però non era stata una ragazza, non erano stati i suoi genitori, ma ero io; solo e soltanto io. Da sempre avevo avuto l'istinto di proteggerlo, di aiutarlo quando qualcosa nella sua vita non andava per il verso giusto; peccato però che quella volta non avrei potuto proteggerlo da me stessa.

Mentre le mie ferite, quelle che mi avevano procurato i miei genitori, erano talmente profonde da avere ancora i brividi solamente nel pronunciare i loro nomi, Ciak se ne stava lì a fissarmi con un nuovo sguardo, uno sguardo quasi d'odio. Perché per un attimo non provava a mettersi nei miei panni? Avevo provato più di una volta a dire la verità, sapevo che lui mi avrebbe compresa e aiutata, ma ero fragile tanto da chiudermi come un riccio, troppo per non riuscire a parlare del mio passato neanche con il mio migliore amico. La nostra amicizia durava da ben sette anni, sin dalle scuole elementari, ne avevo avuto di tempo per raccontare la mia verità eppure non ero mai riuscita a farlo. 

«Quando parti?» interruppe i minuti di silenzio, ma vista la sua freddezza forse sarebbe stato meglio se non lo avesse fatto. 

«Stasera... Ma credimi ti chiamerò sempre, tutti i giorni. Ti racconterò tutto ciò che accade e poi durante le vacanze, ti farò un biglietto e verrai da me a trovarmi».

«E quindi tu hai aspettato l'ultimo giorno per dirmelo? Ma cos'hai in quel cervello eh, Miki? Ti sembra che la gente possa stare ai tuoi ordini come se nulla fosse? Ti ricordo che questo non è un gioco, è la vita reale. Come fai a pensare che a me dovrebbe star bene tutto quello che dici, tutto quello che mi hai nascosto, dovrei fare finta di nulla? E poi... poi non servono tutte queste false promesse. È inutile dire che sarà tutto come prima, sai bene che non sarà così. Tu te ne andrai, ti farai una nuova vita, nuovi amici e pian piano ti dimenticherai di me. So bene che andrà così. A questo punto qui l'unico stupido sono stato io a fidarmi ciecamente di te. Ti ho sempre raccontato ogni dettaglio di me, della mia vita, persino di quello che facevo con le ragazze e da imbecille credevo facessi lo stesso anche tu con me. Vero, pensavo non mi avessi raccontato tutta la verità sui tuoi, ma non credevo fossero così tanti segreti, pensavo fossero dettagli di poco conto quelli che nascondevi. E invece mi sbagliavo... ho vissuto sette anni nelle tue menzogne» e mi disse tutto quello che gli passava per la testa in quel momento. Vomitò ogni frase con odio e rabbia come non gli avevo mai visto fare, passava da un argomento all'altro senza un apparente filo logico, ma aveva ragione.

Come dargli torto? E proprio per quel motivo non riuscii a degnarlo di una risposta. Non avrei mai potuto controbattere sulle mille verità che aveva rivelato. Così decisi di non rispondere. Forse in quel momento avrei dovuto raccontargli tutto il dolore che avevo dentro, tutto il male che quell'uomo mi aveva fatto, gli abbandoni e lo schifo che ero stata costretta a vedere in una casa apparentemente accogliente, ma che dietro nascondeva mille segreti. Tante erano le parole che avrei dovuto dire ma che non ebbi il coraggio di pronunciare. Restò un muro tra noi che negli anni avevo innalzato io insieme ai miei silenzi. Quel muro probabilmente avrebbe posto fine alla nostra lunga amicizia.

«Spero troverai un ragazzo più degno di me per raccontare la tua storia».

«Non è vero. Nessuno potrà mai sostituirti Ciak, ricordalo». Furono le uniche parole che riuscii a pronunciare e a quei tempi lo pensavo realmente

«Sì come no...» furono le sue ultime sillabe prima di alzarsi ed incitarmi a fare lo stesso per rientrare a casa. 

Il viaggio di ritorno fu silenzioso, peggio dell'andata. In quel viaggio di ritorno c'era la consapevolezza che quella sarebbe stata l'ultima volta. L'ultimo nostro tragitto in moto, l'ultima nostra gita al mare, il primo importante e l'ultimo vero e proprio litigio. Visto il suo carattere orgoglioso non avrebbe voluto sentire parlare di me per un bel po' di giorni. Sperai e pregai che prima o poi gli sarebbe passata, ma a quei tempi non sapevo che c'erano questioni e sentimenti ben più delicati sotto quel suo comportamento di pura rabbia.

Arrivai a casa durante le prime ore del pomeriggio, scesi da quella moto sentendomi il corpo pesante, scosso da sensazioni negative. Levai il casco rosso personalizzato e glielo porsi, fino a quel momento non lo aveva indossato nessuno oltre me, lo tenevo persino dentro casa mia visto l'utilizzo frequente, ma da quel giorno non mi sarebbe spettato più. Quando Ciak allungò le mani per riprendere il casco ebbi la sensazione che insieme a quello gli stessi ritornando cose più importanti, quasi come se il casco non fosse nient'altro che una metafora. Forse con quel gesto stavo ritornando il cuore e l'amicizia ad una persona che non meritavo, qualcuno che mi era stato donato ma che da stupida non ero stata in grado di proteggere. Quando il casco restò solamente nelle sue mani alzai finalmente gli occhi per guardarlo. Lui mi stava già fissando, scosso per quello che sarebbe accaduto ed incredulo per quante cose sarebbero cambiate da lì a pochi minuti. Nessuno dei due fiatò, non servivano parole in quel momento sin troppo delicato. 

Senza avvertire scese dalla moto e restò in attesa davanti a me, voleva facessi io il primo passo. E così feci. Lo strinsi in un abbraccio forte quasi a volergli trasmettere sicurezze, quelle sicurezze che per colpa mia aveva perso tra la sabbia, lì in quella spiaggia che aveva visto il nostro primo e ultimo litigio importante. Sospirai sulla sua maglietta sottile bianca, ed inevitabilmente scesero delle lacrime, mentre lui s'irrigidì maggiormente tra le mie braccia. Non mi consolò, non mi diede neanche il tempo di riprendermi dal pianto perché subito staccò l'abbraccio e senza guardarmi più negli occhi, senza guardarsi indietro, ripartì lasciandomi sola tra il fumo provocato dalla marmitta della sua Vespa e tra il dolore della nostra amicizia ormai andata anche lei in fumo. Fu quella l'ultima immagine che ebbi di lui. Straziante, dopo i sette anni incredibili di amicizia.

Rientrai scossa ed amareggiata in casa, incapace di proseguire a sistemare le valigie per la partenza imminente. Ma dovetti farmi forza, l'aereo non avrebbe aspettato me. Dopo qualche ora era tutto pronto. Avevo riempito ben cinque valigie di vestiti, make-up e cianfrusaglie varie. Non sarei ritornata in Italia per chissà quanto tempo, dovevo portarmi quasi tutto quello che avevo. Chiamai un taxi e in attesa del suo arrivo diedi un ultimo sguardo a quella casa, mio nido ormai da ben sedici anni. Lì in quelle quattro mura erano successe tante, troppe, cose e se solo non nascondesse tanti di quei segreti avrei pensato a quelle mura come una casa accogliente. Essendo stata vissuta sin dalla mia nascita i mobili erano un po' vecchiotti, tutti in stile antico e rigorosamente in legno. Le mura erano color ocra. Spostando lo sguardo intravidi quella stanza maledetta, quella stanza che con la mia partenza avrei voluto dimenticarne l'esistenza. Era chiusa a chiave sin da quando l'aveva fatto lei e non sarebbe mai più stata aperta. Lì, chiuso, c'era il lavoro di mia madre; avrei voluto dimenticare anche quello. Scrollai la testa cercando di buttare via tutti quei pensieri e dolori, era difficile, ma dovevo riuscirci. Era giunta l'ora di chiudere tutto e ricominciare da capo. Chiusi con gran forza quella porta come a voler chiudere forzatamente con quella casa e nello stesso tempo anche con la vecchia vita; girai le chiavi per tre volte dentro la serratura e scesi le scale pronta per ricominciare davvero. Quando uscii fuori da quel portone, il taxi mi stava aspettando e già respirai un'aria nuova. Pian piano stavo prendendo consapevolezza che quel cambio di città e addirittura di Stato avrebbe potuto solamente giovarmi. 

Arrivata in aeroporto, pagai il tassista, e mi venne ad aiutare un addetto ai bagagli che subito li mise in fila per imbarcarli.

Diedi un'occhiata all'aeroporto nell'attesa dell'imbarco, era come l'avevo lasciato mesi fa quando avevo accompagnato Ciak per quel viaggio con i suoi genitori di una settimana. Tra la gente in fila per il mio stesso volo attirò la mia attenzione uno strano ragazzo, ma non feci in tempo a squadrare il suo aspetto fisico che subito mi accorsi che aveva le mie stesse ed identiche valigie. Riflettei un attimo e «cazzo non ho messo il Cognome alle mie». Come avevo potuto dimenticare un dettaglio così importante? Allarmata uscii dalla fila e corsi alla ricerca del personale addetto per spiegare la situazione. «I restanti bagagli sono già stati imbarcati, abbiamo provveduto noi a mettere un segno distintivo» mi rassicurarono, ma io non mi fidai e l'unica scelta disponibile restava quella di andare a parlare direttamente con il ragazzo con la mia stessa valigia per metterci d'accordo su eventuali scambi. 

Per mia sfortuna ecco una vocina femminile che riecheggiò per tutto l'aeroporto: «Ultima chiamata per il volo Roma-Parigi».

Persi le speranze di trovare quel ragazzo e mi diressi verso l'aereo per fare la fila ed imbarcarmi. 

Un'hostess mi fece accomodare al mio posto, mi misi comoda e con stupore notai che il ragazzo dei bagagli era seduto proprio accanto a me. Per una volta nella vita la fortuna era dalla mia parte. Feci un respiro di sollievo con la nuova convinzione che sarei riuscita ad avere la mia valigia sana e salva, non quella di un altro. Cercai di farmi notare per potergli parlare, ma fu più difficile del previsto.

«Ehi,scusa?!?» nessuna risposta.

«Ehi tu ragazzo?!» ancora niente.

Lo chiamavo ma non si voltava, era girato e poggiato con la testa dalla parte opposta alla mia e non poteva vedermi, ma continuavo a non capire perché non mi sentiva. La mia voce non aveva un tono basso, anzi più lo chiamavo e più alzavo i toni; si erano persino voltate le persone a tre sedili di distanza dai nostri. Non riuscivo in nessun modo a intravedere il suo volto, certo, con dei capelli simili doveva essere di sicuro un tipo particolare. Aveva dei capelli lunghi sino alla spalla -che a me non erano mai piaciuti in un ragazzo-, un giubbotto di pelle nero, insomma a primo impatto sembrava una specie di punk che usava girare su una di quelle moto grosse e fissato con la musica rock. Ma io stessa avevo inciso sulla pelle, da sempre, quanto l'abito non dovesse fare necessariamente il monaco.

«Ehi, tu...» continuai a chiamarlo «dovrei dirti una cosa importante» e toccarlo delicatamente sulla spalla, ma non voleva proprio darmi retta. Arrivai persino a pensare che potesse essere sordo e, per togliere quel dubbio e fare un'ultima prova, chiusi la mano e con maggiore forza gli sferrai un pugno sulla spalla. 

Il ragazzo finalmente si mosse e saltò in piedi spaventato, sbattendo la testa al tettuccio dell'aereo, lì dove potevano essere sistemati i bagagli leggeri, e gridando un «ma che cazzo vuoi?» fece voltare parecchi passeggeri nella nostra direzione. Dalla vergogna mi feci piccola sprofondando tra i sedili.

Quando notai che i passeggeri non ci guardavano più decisi di rispondergli a modo «Questo è il modo di rivolgersi ad una ragazza? Cafone!»

«Oh scusa tanto, la prossima volta starò più attento ragazzina» mi derise e poi tornò serio «sono tre ore che tocchi la mia spalla disturbandomi, ero impegnato non vedi?» concluse mostrandomi delle cuffie e un mp3.

Evitai di rispondergli male cercando di restare calma, mi conveniva così. «Non ho messo il nome ai bagagli, ho visto che li abbiamo uguali, se per caso tu non hai messo il nome alla tua e ti dovessi ritrovare qualcosa di mio: chiamami» gli dissi ignorandolo e porgendogli un biglietto con scritto il mio numero di telefono.

«Cazzo, neanch'io ho messo il cognome alle mie».

«Infatti, come immaginavo. Chiamami o lasciami il tuo numero in modo tale da poterti contattare se, scesi dall'aereo, non dovessimo più ritrovarci. Oppure al nostro arrivo potremmo scendere e andare a controllare insieme le valigie». Gli proposi tutte le alternative possibili. Avrei voluto soltanto avere la mia valigia senza ulteriori grattacapi. 

«Capisco di essere irresistibile, ma avresti potuto chiedere direttamente il mio numero senza tutti questi sotterfugi...» sogghignò. Non avevo mai visto quel tipo di sorriso beffeggiatorio stare così bene ad una persona.

Distolsi lo sguardo per evitare di farmi ammaliare e risposi a tono «Senti, stammi bene a sentire, voglio solo avere la mia valigia una volta scesi da quest'aereo, non m'interessa nient'altro. Sono stata chiara?» incrociai le braccia e spostai lo sguardo nuovamente su di lui, lo guardai dritto negli occhi senza farmi intimidire. 

Al contrario delle mie previsioni non rispose a quella mia presa di posizione, sorrise beffardo, si poggiò nuovamente sul sedile dell'aereo e chiuse gli occhi lasciandomi inebetita. Davanti al suo menefreghismo posai il bigliettino con scritto il mio numero sul tavolino davanti alla sua poltrona e voltai le spalle proprio come aveva fatto lui all'inizio del viaggio. Non mi piaceva per niente quel ragazzo, quel piccolo dialogo mi era bastato per capire il suo caratteraccio arrogante e presuntuoso. Si sentiva di essere il Re del mondo. Aveva i capelli rossi e già quello bastava per eliminarlo dalla lista dei ragazzi carini e per bene, gli occhi grigi intimidivano un po', e quel sorriso... quel sorriso da stronzo era unico. Scossi la testa ed eliminai totalmente dalla mente l'immagine di quello strano ragazzo, aveva avuto sin troppa attenzione da parte mia per quel giorno. 

Per tutto il tragitto in aereo chiusi gli occhi e pensai... Zia telefonicamente mi aveva accennato informazioni sul mio futuro liceo.

"Dolce Amoris" era il suo nome, certo nome un po' buffo per appartenere ad un liceo, sembrava piuttosto il nome di un teatro o di un sito d'incontri. La direttrice doveva essere una tipa alquanto romantica per aver pensato di chiamare un liceo in quel modo. 

Non sapevo cosa aspettarmi da quella nuova vita, da quel nuovo liceo e soprattutto dalle nuove persone che avrei incontrato. Pensai inevitabilmente a Ciak, l'unica persona e l'unico rimpianto o pensiero lasciato a Roma, in Italia. Ma cercai di evitare i piagnistei già a poche ore di distacco e tornai a pensare alla Francia. Sperai sin da subito che i francesi fossero meno ficcanaso degli italiani, che facessero il meno domande possibili sulla mia vita privata e che non condannassero la gente che, come me, indossava tacchi e minigonna. Certo, io in prima persona sarei voluta apparire una ragazza facile e intoccabile in modo da evitare ulteriori ferite, eppure nonostante i numerosi insulti e giudizi subiti negli anni, sul punto di cambiare Stato mi sentii fragile, quasi tentata a ricominciare una nuova vita senza alcuna maschera, ad essere me stessa, come non lo ero da tempo. Forse per iniziare realmente da zero avrei dovuto far avvicinare maggiormente i ragazzi a me, maggiormente le persone in generale e perché no, forse per abbandonare definitivamente la corazza che mi ero creata, avrei dovuto innamorarmi. No, innamorarsi avrebbe portato solamente guai ed ulteriori ferite al mio cuore, mia mamma era innamorata di mio padre e i risultati furono catastrofici. Dopo quel breve pensiero a quelle persone, scossi la testa ed eliminai il ridicolo pensiero di una Miki innamorata. E poi l'illuminazione. Quello che davvero mi sarebbe servito era un rapporto di solo sesso. In quel modo avrei scaricato tanta tensione e finalmente avrei eliminato il peso di essere vergine. Per me, essere vergine stava a significare essere debole. Era l'unico punto sul quale ero inesperta, l'unico punto sul quale un essere umano di sesso maschile avrebbe potuto ferirmi, provocarmi del male fisico. Quel problema, quella debolezza fastidiosa doveva essere eliminata a tutti i costi e doveva esser fatto a Parigi, nella mia nuova città, dove ancora nessuno mi conosceva; quella che per tutti rappresentava la città dell'amore per me sarebbe stata la città del sesso. Perfetto.

A quei tempi, nel lontano 2014, non potevo immaginare, non potevo sapere quanto in realtà mi sbagliavo. Quella città, Parigi, avrebbe sciolto, distrutto e ricostruito il mio cuore in continuazione. Parigi per me non divenne solo l'amore e il sesso allo stesso tempo, Parigi aveva un nome in particolare inciso su di essa; un nome con l'iniziale a forma di mezzaluna. Ma prima di arrivare a quel punto, dovemmo percorrere strade tortuose, ripide e con fossi, incontrare persone malvagie ma alcune buone, affrontare avventure che misero a dura prova il nostro amore. Ed ora a distanza di anni posso dire che rifarei tutto. Perché tutto, ogni avventura passata, mi ha resa ubriaca... ubriaca ogni giorno di più dei suoi occhi, del suo sorriso, della sua arroganza, del suo orgoglio, della sua testardaggine; ubriaca di lui, di un amore che mi ha resa viva, ardente, bruciante di passione. Sono state tante le volte in cui l'ho odiato. L'odiavo e l'odio tutt'ora, ma l'amavo e l'amo... lo amo e lo odio, lo odio e lo amo; due binomi, due sentimenti così forti e intensi da bastare già solo loro a rendermi ubriaca, ubriaca d'amore e d'odio per quell'uomo che ora, mentre penso a tutta la storia della nostra vita, mi sta fissando insistentemente ed innocentemente da quel letto di ospedale. 

Ripresi la concezione del tempo e aprendo gli occhi INTRAVIDI PARIGI. Dall'aeroporto potevo ammirare anche la tour Eiffel ed essendo ormai notte quella visione fu ancora più spettacolare, era tutto così diverso dalla piccola Italia. Tutto più maestoso e mozzafiato. 

Quando riuscii a staccare gli occhi da quel panorama cercai il rosso con lo sguardo, ma non lo trovai. Era già uscito fuori dall'aereo ed io non me n'ero neanche accorta. Perlomeno si era degnato di conservare il mio numero, così senza aspettare un secondo di più, scesi e andai alla ricerca di zia Kate. Era la sorella di mio padre, una donna in carriera, con precisione un avvocato; nulla a che vedere con quel fannullone del fratello. Lei era sicura di sé, molto eccentrica, prendeva qualsiasi decisione in fretta senza pensarci troppo.

Ancora una volta la sua troppa simpatia ed eccentricità si fece notare. Appena misi piede nell'aeroporto non potei evitare di notare l'enorme cartellone colorato, con scritte fosforescenti e brillantini, tra le mani della cara zia Kate. 

"MICAELA ROSSI, ZIETTA TI ASPETTA!!!" era scritto tra mille colori e brillantini vari. Odiavo il mio nome scritto per intero; lui mi chiamava in quel modo ed io odiando lui, odiavo il mio nome reale. Da chiunque. Impuntarsi su un nome poteva essere ritenuto come qualcosa di eccessivo, ma per me non lo era. Stavo male quando qualcuno mi chiamava con il mio nome reale, ma zia Kate continuava a non capirlo.

«Benvenuta a Parìs, Micaela!» pronunciò lei con entusiasmo.

«Zia ti ringrazio per tutto quest'affetto, ma il mio nome è Miki e sei pregata di chiamarmi anche tu così». Dissi con tono autoritario, sperando di essere ascoltata. 

«Non iniziare a dettare regole, ti chiamerò come mi pare e piace» era testarda.

«Mi chiamo Miki»

«Miki è un nome da maschiaccio e da provinciale»

«Oddio zia, per favore». Alzai gli occhi al cielo per la scusa banale utilizzata.

E il piccolo battibecco proseguì ancora a lungo; io sostenendo il nome Miki e lei insistendo che Micaela era nome da ragazza dolce e proveniente da una famiglia per bene. Stanca, lasciai cadere lì quel discorso e senza perdere ulteriore tempo andammo a prelevare i bagagli imbarcati. Quel pomodoro testardo era come sparito nel nulla, lasciai sfumare l'idea di poter controllare i bagagli nell'aeroporto stesso, vista la sua assenza sarebbe stato inutile. 

Cercai di evitare di pensare ulteriormente quella testa di rapa di cui non conoscevo neanche il nome e ritornai al presente. Zia Kate essendo un avvocato famoso possedeva molti lussi e comfort che altri potevano solamente sognare, lo testimoniava la sua macchina: una Porsche Cayenne S, nera, bella, sportiva ma nello stesso tempo elegante. I sedili erano molto comodi, notai durante il tragitto di ritorno a casa. 

Giunte a destinazione, prima di scendere dall'auto e conoscere la mia nuova casa, guardai l'ambiente circostante. Nel giro di un chilometro vi erano tantissime villette a schiera con giardino e piscina, era bellissimo come posto; ogni casa era di un colore diverso e ogni giardino era con fiori diversi. Nel guardare tutte quelle case apparentemente lussuose nell'insieme mi sembrò di essere in un sogno per quanto ricchi sembravano esserne tutti gli abitanti. Per un attimo mi sentii persino fuori posto. E poi era tutto talmente diverso dal caos di Roma che ci avrei messo parecchio ad abituarmi a quella tranquillità.

«Vuoi restare lì impalata tutto il giorno?» gridò zia Kate incitandomi ad aiutarla visto che quasi non si vedeva più per quanti bagagli teneva uno sopra l'altro, era praticamente sotterrata e quella scena mi fece ridere. 

Scesi dalla macchina e, un'altra immagine invase i miei occhi, un ragazzo che sembrava appena uscito da una fiaba portò a immobilizzarmi. Stava annaffiando il suo giardino, si trovava proprio accanto casa nostra e non potei trovare parole per descrivere la bellezza dei suoi movimenti delicati e del suo corpo. Era altissimo, magrissimo, e poi a salire beh... quel volto, quell'espressione avrebbe fatto impazzire qualunque ragazza, forse anche donne più adulte. Aveva i capelli biondi come il grano e gli occhi dello stesso colore dei capelli, non ne avevo mai visti un paio di così belli; erano dorati e brillavano ancor di più della luce riflessa sui vetri. Non seppi da dove stavano fuoriuscendo quelle parole, ma avevo detto la verità. Lui insieme a quelle case perfette intorno sembravano quasi finti, oggetto della mia immaginazione. 

«Oh, sapevo ti piacesse sin da subito. Quello è il nostro vicino di casa» zia Kate, non curandosi del fatto che il diretto interessato avrebbe potuto sentirla, si accorse dei miei occhi puntati su di lui, solo un cieco non mi avrebbe vista. Poi, lasciando cadere alcune valigie con poca cura, mi lanciò una breve pacca sulla spalla e proseguì verso l'entrata della villa.

«Come si chiama?» chiesi a bassa voce, con finta nonchalance, e recuperando i bagagli caduti.

La Francia era entrata ufficialmente a far parte della mia classifica dei posti migliori esistenti sulla terra, in assoluto. 

  
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