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Autore: adamantina    18/09/2013    2 recensioni
“La notte era gelida e spietata, lo smog nascondeva le stelle, la finestra al quindicesimo piano del grattacielo era socchiusa.
Il silenzio non era veramente tale, ma annientava il sottofondo di clacson, cani e voci soffocate.
E poi la sua risata, aspra e selvaggia, la risata sporca e senza fiato di chi ha perso anche l'ultima speranza, risuonò roca nella stanza.

Tell God he's got a dirty angel.”
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nickname: adamantina
Titolo storia:
Non ci servivano le stelle
Trama: 
La notte era gelida e spietata, lo smog nascondeva le stelle, la finestra al quindicesimo piano del grattacielo era socchiusa.

Il silenzio non era veramente tale, ma annientava il sottofondo di clacson, cani e voci soffocate.

E poi la sua risata, aspra e selvaggia, la risata sporca e senza fiato di chi ha perso anche l'ultima speranza, risuonò roca nella stanza.

Tell God he's got a dirty angel.”
Rating:
Arancione

Avvertimenti: One-shot, Song-fic

Note autore: La canzone che fa da sottofondo alla storia è “Cursed” di Robbie Williams.

I nomi dei due angeli sono stati scelti in base a precise caratteristiche: Jazeriel “aiuta i cambiamenti fortunati” (qui inteso in senso ironico), mentre Manakel “combatte la tendenza a rinchiudersi in se stessi, l’inquietudine e la malinconia; ottiene il perdono da Dio e consola nelle avversità” (dal sito angelologia.it).

La storia partecipa ai contest “Urban fantasy” (prima classificata), “Pop VS Metal”, “Un prompt per ogni storia” e “Le città del mondo”.

 

NON CI SERVIVANO LE STELLE

 

 


St Peter's gonna be unfaithful
Tell God he's got a dirty angel


 

 

 

La notte era gelida e spietata, lo smog nascondeva le stelle, la finestra al quindicesimo piano del grattacielo era socchiusa.

Il silenzio non era veramente tale, ma annientava il sottofondo di clacson, cani e voci soffocate.

E poi la sua risata, aspra e selvaggia, la risata sporca e senza fiato di chi ha perso anche l'ultima speranza, risuonò roca nella stanza.

Tell God he's got a dirty angel.

 

 

Told everyone I'd slept with you
Thought you'd like it, knew you wouldn't deny it

 

La prima volta che me ne parlò, era ubriaco. Lo ero anch'io, perciò non vi diedi molta importanza.

Era steso sull'asfalto sporco del parcheggio sotterraneo, le gambe piegate, lo sguardo perso a guardare attraverso il soffitto, come se potesse attraversare altri otto piani e un velo di fumo nero per arrivare a vedere le stelle.

«Ci sono stato, lassù» disse.

Non risposi, troppo impegnato a cercare di bere un altro sorso dalla bottiglia di Jack Daniel's ormai tristemente vuota.

«Era bello. Non come qui. Diverso. Ma non c'erano superalcolici» proseguì, parlando più che altro a se stesso.

Rinunciai ai miei vani tentativi e sollevai la testa da terra.

«Allora non doveva essere un granché» razionalizzai.

Jay voltò lentamente il capo; le sue pupille erano innaturalmente dilatate, l'azzurro appena visibile attorno al nero. Per un momento desiderai essere più vicino a lui, mettergli le mani sul viso, scacciare l'offuscamento dell'alcool con un bacio. Incolpai il whisky di quel pensiero assurdo.

«No» concesse. «Immagino di no.»

 

 

New York non dormiva mai, perciò ci sembrava sensato fare lo stesso.

Attraversavamo la notte come ombre, tra binari della metropolitana e vicoli deserti, a volte da soli, a volte con qualche altra anima persa.

Jay era un mistero che mi affascinava, quel genere di incognita che non bisogna tentare di risolvere, ma accettare come tale. Le nostre strade si erano incrociate sul retro di un supermercato chiuso nel Bronx e si erano inspiegabilmente intrecciate.

Non avevamo una casa: l'intera città era la nostra dimora, enorme, sporca, buia e derelitta. Le luci al neon servivano solo a rendere più buie le ombre tra le quali passavamo le nostra giornate.

C'era qualcosa di sacro nelle nostre vite da vagabondi, una magia che si percepiva come l'elettricità sui cavi scoperti nella cantina di un palazzo abbandonato. Non ne parlavamo, ma la sentivamo entrambi.

E sullo sfondo di ogni giornata, la Statua di Ellis Island sorrideva con orgoglio, quasi a prenderci in giro.

Ecco la fiamma della vostra libertà.

 

 

Un soffio di vento si portò via il fumo leggero della sigaretta.

«È vero?» chiesi.

Jay, seduto sulla panchina a gambe incrociate, non mi guardò mentre rispondeva:

«Sì.»

Presi fiato. Jay aspirò un'altra boccata di fumo, per poi allungarmi la sigaretta.

«Non è contagioso, sai» mi fece notare pacatamente quando scossi la testa.

La accettai con un sospiro.

«Devo aver esagerato con quella roba, l'altra sera» dissi. «Mi pare quasi di star seriamente discutendo con te di angeli caduti dal Paradiso.»

«Suona come una pessimo tentativo di abbordaggio, eh?» sogghignò Jay, riprendendosi la sigaretta.

«Suona come una cazzata» risposi francamente.

Lui mi guardò per un istante, quasi stupito, poi piegò la testa all'indietro e rise. Il suono rimbombò tra i tronchi spogli degli alberi e i finestrini delle auto parcheggiate.

«Hai ragione» ammise alla fine, ancora scosso da sussulti di ilarità, soffiando via un altro sbuffo di fumo. «Suona davvero come una cazzata.»

 

 


«Non sono sicuro che sia una buona idea.»

Jay non mi guardò nemmeno. La sua mano sfiorò la guancia fredda della ragazza stesa a terra, gli occhi socchiusi ma spenti, la manica arrotolata, la siringa ancora in vena. Non poteva avere più di sedici anni.

Indagò con cautela, con una sorta di bizzarro, malriposto rispetto, nelle sue tasche, finché non trovò un cellulare. Sospirò e si alzò in piedi.

Nel buio, lampeggiò per un momento la scritta Mamma sul display. Jay premette il tasto di chiamata.

Mi allontanai per non sentire.


 

Cursed, since your birth dear
And your worst fears have all come true

 

«Sono maledetto» disse. «Maledetto dal giorno in cui sono nato. Dal giorno in cui, per la prima volta, ho abbassato gli occhi e ho visto voi

Non dissi nulla, limitandomi ad ascoltare in silenzio.

«Eravate così piccoli, così fragili. Vulnerabili. Pieni di rabbia, di odio, di risentimento, di invidia. Pieni di vizi e di bugie.»

«Non è un ritratto lusinghiero» commentai.

«Lo è» mi contraddisse Jay con facilità. «Erano emozioni. Non le capivo, ma le bramavo. Non le ammiravo, ma volevo conoscerle.»

«La curiosità uccise il gatto» replicai senza compassione.

Lui si strinse nelle spalle.

«O lo fece precipitare» disse con un mezzo sorriso.

Risi e scossi la testa.

«Vai a dormire, Jay. Non sei più immortale.»

Il suo dito medio fu l'unica risposta che ricevetti; dieci minuti dopo, però, stava già respirando regolarmente, gli occhi chiusi, la testa piegata su una spalla.

La luna restava invisibile sopra Central Park.

 

Held my hand when I got my first tattoo
I was naked when it penetrated

«Te ne sei mai pentito?» sussurrai.

Invece di rispondere, riprese da dove aveva lasciato: le sue labbra sulle mie, le mani che scivolavano sulla cintura, la mia schiena premuta contro il muro di un vicolo.

Mi dimenticai di ogni domanda e di ogni questione.

Le luci rosse di un'insegna lampeggiavano sopra di noi – non ci servivano le stelle. Chi aveva bisogno del Paradiso quando c'era questo sulla Terra?

Poco più tardi, mentre riprendevamo fiato, Jay distolse lo sguardo dal mio.

«Tutti i giorni» rispose.

 

 

You know it tears my heart out when you
Flirt with danger and any stranger

 

Entrai nel bar, attento a mantenere una distanza adeguata da Jay. Ero livido, la rabbia che emanava da ogni singolo poro. Le parole dure che avevo pronunciato e ascoltato fino a poco prima mi risuonavano ancora nella mente.

Lo rivedevo, imprudente e stupido, mentre incassava un altro pugno dal membro di una gang, quest'ultimo armato di coltello, e non si tirava indietro, ma insisteva, continuava.

Vuoi morire? Avevo urlato, dopo. È questo che vuoi? Devi solo dirmelo e vedrò di aiutarti! Cazzo!

Mi lasciai cadere su uno sgabello e ordinai un whisky, tirando fuori dalle tasche qualche spicciolo raggranellato in giornata e allungandolo al barista.

Jay aveva avvicinato una biondina ed era piegato verso di lei, sensuale, fingendosi interessato a ciò che aveva da dire. Lei – capelli tinti e tette rifatte, troppo trucco, scollatura eccessiva – era già caduta nella ragnatela.

Bevvi tutto d'un sorso e sbattei il bicchiere vuoto sul bancone, per poi uscire dal bar senza guardarmi indietro.

Quindici minuti dopo, Jay era in ginocchio davanti a me, lo sguardo sollevato verso il mio viso, un ghigno compiaciuto stampato in faccia, e si leccava le labbra.

Fottiti, pensai, ma non lo dissi ad alta voce. Chiusi gli occhi, appoggiai la testa contro il muro e gli misi le mani tra i capelli.


 

You're not as stupid as I look
Before I could read, you wrote the book

 

Il lampione emetteva una luce fievole, non sufficiente ad altro che rendere visibile un ratto che corse via dal vicolo nel sentirci arrivare.

Ci sedemmo a terra, la schiena contro il muro. L'inverno stava mutando in primavera e l'aria era meno fredda di prima.

«Quando l'hai capito?» chiesi.

«Che sarei caduto? Presto» replicò. Come sempre quando parlavamo di questo, sollevò lo sguardo verso il cielo – un'abitudine di cui non si rendeva conto.

«Non avevi paura?»

Lui sorrise e abbassò la testa, fermandosi a guardare il cemento sotto di noi.

«Ero terrorizzato» ammise, «solo che non lo sapevo.»

Mi morsi il labbro, pensieroso, domandandomi perché gli credessi. Accettavo la sua verità come un precetto, quando chiunque altro gli avrebbe riso in faccia e gli avrebbe detto di farsi ricoverare.

«Di cosa avevi paura?» indagai.

«Di perdere tutto. Di allontanarmi da mio Padre. Di provare qualcosa. Di morire.»

Non aggiunsi altro. Il silenzio rimase tale a lungo, ma fu Jay a romperlo per primo.

«Tutte le mie paure si sono avverate» disse.

«Non sei morto» sottolineai.

Lui scosse la testa e rise, la sua solita risata aspra, piena di sottintesi che io non avevo possibilità di cogliere. Non replicò, ma si chinò su di me e mi baciò.

Quando gli misi le mani sulla schiena, mi parve quasi di poter sfiorare i resti spezzati delle sue ali.

 

 

Hush, baby sleep now
We all love you, we always did

 

Quando apparve, mi schermai gli occhi.

La luce si affievolì rapidamente, per venire sostituita da un impellente desiderio, da parte mia, di cadere in ginocchio in silenziosa ammirazione.

L'angelo era alto, etereo, bellissimo. Una luce opalescente e fievole lo circondava, come un'aura. Dietro di lui, enormi e bianche come nulla che avessi mai visto, le sue ali erano elegantemente ripiegate.

«Jazeriel» disse, e la sua voce era una sinfonia di campane e violini.

Mi voltai verso Jay per vedere la sua reazione. Lui, lungi dal sembrare impressionato, si limitò a incrociare le braccia sul petto.

«Manakel» replicò. «Cosa sei venuto a fare?»

«Volevo vedere come stessi gestendo la situazione.» L'angelo si guardò intorno con attenzione, evidentemente prendendo in esame il vicolo dietro al ristorante indiano in cui ci trovavamo, i bidoni dell'immondizia, i muri sporchi, il ratto nascosto dietro all'idrante. «Ti serve aiuto?»

«No» disse con fermezza Jay. «Va tutto bene, grazie tante.»

L'angelo si soffermò ad osservarlo.

«Posso percepire quello che provi, Jazeriel» disse piano. «Sei pentito di esserti allontanato dalla retta via. Sono certo che potrei mediare con gli arcangeli e-»

«No» ripeté Jay, anche se percepii un fremito nella sua voce. «Non puoi capire cosa provo. Lo intuisci razionalmente, forse, ma non lo senti. Non lo saprai mai, a meno che tu non segua la mia strada.»

«Provi rabbia, risentimento, senso di colpa» elencò Manakel, sicuro di sé. «Provi invidia, gelosia, paura.»

«Gioia» ribatté Jay, «Gratitudine. Sollievo.»

Manakel annuì lentamente e si voltò a guardarmi per la prima volta.

«Amore» soggiunse, quasi come un ripensamento.

Jay strinse gli occhi.

«Vai via» ordinò. «Non ho bisogno delle tue offerte di redenzione.»

«È la tua unica possibilità, lo sai.»

«Non tornerò sui miei passi.»

«Orgoglio» sospirò Manakel. «E superbia. Uno dei peccati capitali.»

«Li ho provati tutti, quelli» replicò Jay, e parve che una scintilla di vitalità risorgesse dalle ceneri del suo animo appassito. «E sai una cosa? Non hai idea di cosa ti perdi.»

Manakel lo guardò ancora per un momento, sul volto un'indicibile, incommensurabile tristezza.

«Addio, fratello» mormorò, e scomparve.

Io e Jay rimanemmo soli.

Lui respirò profondamente e si lasciò scivolare a terra, le mani premute sulle ginocchia.

«Perché non hai accettato?» non riuscii ad impedirmi di chiedergli, sedendomi al suo fianco.

Jay non rispose; invece, mi tirò verso di sé e mi baciò, con tanta forza e rabbia da risultare quasi punitivo.

Lo assecondai, e pensai con orrore alla magnificenza delle ali bianche di Manakel, e a quanto Jay avesse rinunciato. Il buio non si allontanò, nonostante i miei sforzi per tenere gli occhi aperti.

 


 


«Le tue ali sono cadute?» chiesi.

Jay, seduto a gambe incrociate sul pavimento della nostra attuale residenza, un appartamento disabitato e senza vetri alle finestre al quindicesimo piano di un grattacielo, sollevò lo sguardo dalla sigaretta che stava preparando con dita esperte.

«No» rispose, sorpreso. «Certo che no.»

«Ma non posso vederle.»

«Perché io non te lo permetto» replicò lui, un “ovviamente implicito nel tono di voce, tornando a concentrarsi sul proprio lavoro, reso complicato dal buio dell'appartamento.

Non aggiunsi altro. Mi alzai e guardai fuori, cercando qualcosa per distrarmi. La luna era una falce sottile, traslucida, irreale. I neon del motel a ore a fianco al nostro erano brillanti, veri.

Ero a un passo dal cielo, ma la Terra non mi permetteva di sollevarmi ancora.

Mi voltai in tempo per vedere Jay. Si era alzato anche lui, la sigaretta era accesa e la brace un punto di luce rossa nel buio. Me le mostrò per un solo istante, ma fu sufficiente.

Ricordavo con assoluta chiarezza il bianco lucido delle ali di Manakel, la loro estensione, la loro perfezione eterea. Quelle di Jay non avrebbero potuto essere più diverse.

Nere come il carbone, come l'assenza più totale. Erano grandi, sì, ma sfioravano il pavimento, deboli, spente, le penne e le ossa piegate ad angoli innaturali.

Spezzate.

Le ali scomparvero e Jay mi raggiunse, soffiando una boccata di fumo fuori dalla finestra, ostentando indifferenza.

 

 

Dig your polished nails into the dirt
Rip your skirt off, wipe the hurt off

 

Non potevo fare altro che guardare in silenzio, il mio cuore che si stringeva in empatia.

Il corpo era disteso a terra, nello stesso vicolo dove l'avevo visto, ancora vivo, qualche giorno prima. Gli occhi erano aperti, ma spenti. Nulla della luce tenue che l'aveva circondato era rimasto.

E le ali... il bianco fulgido era diventato nero. Le ossa erano storte, spezzate.

Il grido di disperazione di Jay risuonò nel silenzio, carico di un'angoscia incommensurabile.

Cadde a terra, in ginocchio accanto al corpo senza vita di suo fratello, le unghie piantate nei palmi, e per la prima e ultima volta lo vidi piangere. Le sue lacrime erano inaspettatatamente normali, umane.

«È colpa mia» sussurrò più tardi, quando lo ebbi aiutato a nascondere il corpo e i suoi singhiozzi si furono calmati. «È caduto per colpa mia, perché ha provato vero dolore per avermi perso, e non ha resistito alla caduta. Non ha voluto farlo.»

Cercai parole di conforto e non ne trovai.

Nella mia mente si affastellarono mille scuse e consolazioni – non sei stato tu, sarebbe successo comunque, andrà tutto bene, mi dispiace – ma non riuscii a dire nulla.

Gli misi una mano sulla spalla, ma lui la rifiutò bruscamente, scostandola, e si allontanò, lasciandomi indietro, nel silenzio.

Impotente, lo guardai andar via, senza parole per fermarlo.

 

 

Babe, you're not the first here on Earth, dear

Lo trovai nel solito parcheggio sotterraneo. Era seduto a terra, la testa tra le ginocchia, le mani nei capelli.

Lo raggiunsi e mi inginocchiai al suo fianco.

«Jay» lo chiamai sottovoce.

Lui alzò lo sguardo. Mi aspettavo che mi ignorasse; invece allungò una mano, me la mise sulla nuca e avvicinò la mia testa alla sua. Lo baciai, obbediente, cercando di placare l'ansia che provava.

«Jay» ripetei poco dopo, le dita premute sulla sua guancia. «Mi dispiace.»

Lui scosse piano la testa.

«Fanculo» disse piano. Come confortato, lo ripeté con più forza: «Fanculo! A questa città di merda e a questa vita di merda e a questi umani di merda. Non avrei mai dovuto farlo.»

Si alzò, divincolandosi con facilità dalla mia presa.

«Jay, so che stai male» tentai, «ma...»

«Tu non sai un cazzo» ribatté lui a denti stretti, fissandomi con astio. «Manakel era mio fratello, lo è stato per migliaia di anni. Migliaia. Hai idea di cosa significhi? Quanti anni hai vissuto, eh? Venti? Venticinque? Puoi immaginare cosa significhi perdere qualcuno che ami dopo tutto quel tempo, e sapere che è solo colpa tua

Abbassai lo sguardo.

«No» risposi con onestà.

«Stupido» sussurrò Jay. «Stupido umano.»

La mia sensazione di impotenza e di inferiorità venne oscurata per un momento da una scintilla d'orgoglio.

«Vaffanculo» dissi. Jay alzò gli occhi, sorpreso. «Fottiti, Jay. Tu e il tuo grande senso di superiorità. Non sei il primo a soffrire, non sei l'unico, perciò smettila di lamentarti e sopporta. Perché sai cosa? Sei uno stupido umano anche tu, adesso!»

Jay batté le palpebre e tacque.

La Statua della Libertà sembrava farci l'occhiolino dalla sua isola irraggiungibile.

 

 


Il silenzio sa essere assordante. Il mio sembrava esserlo, alle orecchie di Jay, almeno tanto quanto il suo lo era per me.

Ci parlavamo, ma qualcosa era cambiato, qualcosa di sottile, a cui era difficile dare un nome, e le parole non arrivavano a destinazione nel modo in cui volevamo.

Frasi scherzose, che un tempo avrebbero strappato un sorriso, ora sembravano progettate appositamente per pungere, per colpire dove faceva più male. Non ci capivamo – forse non ci sforzavamo di farlo, forse non ci interessava e non ci provavamo nemmeno.

Fui io a dire quello che sapevamo già entrambi, alla fine. Toccava a me, lo sapevo, e rimandare ulteriormente sarebbe stato solo il prolungamento di un dolore inevitabile.

«Torno a casa» dissi.

Jay mi guardò.

La notte era gelida e spietata, lo smog nascondeva le stelle, la finestra al quindicesimo piano del grattacielo era socchiusa.

Il silenzio non era veramente tale, ma annientava il sottofondo di clacson, cani e voci soffocate.

E poi la sua risata, aspra e selvaggia, la risata sporca e senza fiato di chi ha perso anche l'ultima speranza, risuonò roca nella stanza.

Tell God he's got a dirty angel.

 

 

Hush, baby sleep now
We all miss you, we always will

 

Forse io e Jay ci saremmo meritati una fine più dignitosa.

Forse, invece, raccogliemmo solo ciò che avevamo seminato in mille notti perse nel cemento di New York.

A volte mi capitava di guardare fuori da una finestra e sentirmi smarrito nella vastità di prati verdi e casette basse in mattoni. Mi mancavano i grattacieli che torreggiavano sulla mia testa, i vicoli sporchi, le luci troppo forti.

Avevo lasciato la casa dei miei genitori dopo poche settimane, ancora in cerca del mio posto nel mondo.

Mentre viaggiavo, tra autobus e lunghe camminate, ripensavo a Jay e alle sue contraddizioni. Alle volte in cui mi aveva detto di essersi pentito di essere caduto, alla dolcezza con cui aveva cercato un telefono nelle tasche di una ragazzina dagli occhi opachi.

Mi sembrava di essere caduto a mia volta, di aver rinunciato per egoismo ad un bene tanto grande che non avevo saputo trattenere, ad un tesoro che avevo sottovalutato finché non l'avevo perso.

Capivo Jay come mai prima, e proprio per questo sapevo che non sarei mai tornato indietro.

Sono maledetto, aveva detto. Maledetto dal giorno in cui sono nato.

A volte pensavo che mi avesse trasmesso la sua maledizione. Anche io sembravo destinato a non trovar pace, a vagare senza mai poter trovare ciò che mi mancava.

Alzai gli occhi verso le stelle e continuai a camminare.

E se alcune mi parvero brillare più del solito, dedicai loro soltanto un sorriso distratto.

 

'Cause I'm still here and I'm cursed too, cursed like you.

   
 
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