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Autore: Flaqui    19/09/2013    0 recensioni
«Siamo a casa nostra.» Non è la prima volta che glielo dice. E non importa quanto Gabriel si affretti e si affanni ad assicurarla: sua madre non si sente mai a casa. Il monolocale dove si sono trasferiti dopo il primo sfratto è più piccolo e le pareti sono di un grigio stinto e sporco che nessuno si prende la briga di ridipingere; eppure Gabriel ha il sospetto che non sia al vecchio appartamento che sua madre voglia tornare «Sei già a casa, mamma»
Julia Orwell rimane zitta per un po’, le labbra socchiuse e gli occhi spalancati su un qualcosa che Gabriel non riesce a vedere. La stanza è buia e le lenzuola rosse sono solo un colore perso nell’oscurità, eppure Gabriel percepisce la mano di sua madre afferrargli il braccio, di nuovo, quando si sta per alzare. Gabe si abbassa di nuovo, paziente.
«La vita è così dura, angelo mio. È una scatola vuota in attesa di essere riempita: e più la riempi più ti sembra di esplodere, meno la riempi più ti senti vuoto» un altro sospiro contro la fodera del cuscino «Ah, angioletto mio, quanto vorrei poter tornare a casa, adesso»
(Buon Compleanno, Bess!)
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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N/A.
Non so da dove viene fuori questa sottospecie di tragedia angst.
Non so nemmeno perchè la dedico a Bess, che fa 18 anni e dovrebbe ridere e non piangere dietro alle mie scemenze.
So solo che questa storia mi frulla in testa da troppo tempo per essere ignorata.
Piccola specificazione. Ho voluto usare tempi verbali diversi per ogni paragrafo, per sottolineare lo scorrere del tempo, spero che questo non dia troppo fastidio e che non sia troppo spiacevole alla lettura! Mi defilo.
(AUGURI BESS; TI VOGLIO BENE <3)

Scatole Vuote
(Me la cavo, si)

 
Sono tutte illusioni. La vita è una scatola vuota che riempiamo di cazzate per farcela piacere, ma poi basta nulla e puf… ti ritrovi senza niente. Quell’uomo si è illuso che morire per una causa che riteneva giusta abbia dato senso alla sua vita. Contento lui. Ma è solo una copertura per rendere la pillola meno amara. La scatola resta vuota. 
-Cit. Bianca come il latte, rossa come il sangue
 
La scatola vuota
(Barcellona, Gennaio 1985)
 
«Vieni, Gabriel, entra pure»
Gabriel Orwell trascina le suole delle scarpe sul pavimento sporco, ciuffi di capelli biondi che gli piovono davanti agli occhi. Sua madre è seduta al tavolo della cucina e, se gli occhi di Gabe non fossero così abituati a scrutare nell’oscurità, nemmeno riuscirebbe a distinguere la sua sagoma rannicchiata sul piano in legno.
Non c’è corrente -non hanno abbastanza soldi per pagare le bollette della luce- e la madre di Gabriel ha deciso che non importa: «Ce la caviamo, ragazzi, giusto? Ce la caviamo sempre»
Gabriel si è limitato a stringere le labbra: ha solo quattordici anni, troppo pochi per poter davvero dire la sua o farsi sentire, ma sua sorella Nicole ha pianto contro la sua maglietta –lei, di anni, ne ha solo otto e sono davvero troppo pochi per non lamentarsi-.
Sua madre, ora, è accartocciata su sé stessa, come un mozzicone di sigaretta spento, e Gabriel dopo appena due passi le sente addosso dall’odore che ha bevuto –chissà come mai ma, in quella casa senza luce, con il riscaldamento che va e viene, e con prodotti surgelati da mangiare freddi, non manca mai l’alcool-.
Gabe delle volte fa finta che non sia successo nulla, che stiano davvero bene, che davvero siano in grado di cavarsela. Sua madre, in questo gioco, è più brava di lui. È sempre lì a tranquillizzarli, a dire che ha tutto sotto controllo, e Gabriel finisce per crederci perché… perché è quello che gli piacerebbe di più, quello che gli farebbe più comodo.
«Siediti vicino a me, tesoro» la voce di sua madre è impastata e piena di sfumature che solitamente non ha. Quando beve diventa sempre molto più emotiva e dolce, quasi, e Gabe non sa se è una cosa positiva o meno.
«Quanto hai bevuto, mamma?» Gabriel trascina una delle sedie di plastica bianche –come quelle dei bar, forse sua mamma le ha rubate da lì- vicino all’unica in legno, quella dove è accomodata lei. L’odore di alcool, quando le si avvicina, si fa più intenso e sembra provenire dai capelli, dai vestiti, dall’anima stessa di sua madre. Cicche spente sono schiacciate contro il posacenere grigio e il tavolo è sporco di residui di tabacco e di qualcos’altro che Gabriel non riesce a distinguere al buio.
«Non pensarci, angioletto» sua mamma scuote la testa, ma subito dopo se la afferra stretta fra le mani «Dio, che schifo»
Gabriel sospira pesantemente e vorrebbe quasi poterla lasciare lì fino alla mattina seguente, tornarsene in soggiorno a vedere la televisione o a dormire sul divano come ha fatto fino a qualche minuto fa, ma è sua madre e ha bisogno di lui. Le passa un braccio sotto le ascelle, facendo attenzione a non sballottolarla troppo: è già successo che gli vomiti addosso e non vuole assolutamente ripetere l’esperienza. Sua madre mugugna qualcosa, cerca di divincolarsi, ma dopo qualche passo gli crolla addosso e si fra trascinare fino alla sua camera. Gabriel la stende sul letto a due piazze e fa finta di non vedere la foto di suo padre sul comodino «Non esiste, tuo padre, non è mai esistito. Era solo un farabutto che ci ha lasciato non appena le cose sono iniziate a diventare complicate. Ma io non sono così, angeli miei. Io me la so cavare. Noi ce la sappiamo cavare»
«Gabriel?» lo richiama quando lui sta per uscire dalla camera buia.
«Si, mamma?»
«Questa vita… questa vita è tanto orribile. Non sarebbe bellissimo poter farla finita e ricominciare tutto da capo? Cancellare tutto con un colpo di spugna e tornare a casa.  Dio, quanto voglio tornare a casa…»
«Siamo a casa nostra.» Non è la prima volta che glielo dice. È già successo diverse volte, sempre in quei momenti di abbandono e di stasi che le prendono a volte. E non importa quanto Gabriel si affretti e si affanni ad assicurarla: sua madre non si sente mai a casa. Il monolocale dove si sono trasferiti dopo il primo sfratto è più piccolo e le pareti sono di un grigio stinto e sporco che nessuno si prende la briga di ridipingere; eppure Gabriel ha il sospetto che non sia al vecchio appartamento che sua madre voglia tornare «Sei già a casa, mamma»
Julia Orwell rimane zitta per un po’, le labbra socchiuse e gli occhi spalancati su un qualcosa che Gabriel non riesce a vedere. La stanza è buia e le lenzuola rosse sono solo un colore perso nell’oscurità, eppure Gabriel percepisce la mano di sua madre afferrargli il braccio, di nuovo, quando si sta per alzare. Gabe si abbassa di nuovo, paziente.
«La vita è così dura, angelo mio. È una scatola vuota in attesa di essere riempita: e più la riempi più ti sembra di esplodere, meno la riempi più ti senti vuoto» un altro sospiro contro la fodera del cuscino «Ah, angioletto mio, quanto vorrei poter tornare a casa, adesso»
 
***
 
Il vaso di Pandora
(Barcellona, 1986-1988)
 
Ci ha pensato a lungo, a quella frase, dopo.
Dopo la morte di sua madre un assistente sociale particolarmente entusiasta aveva sistemato Gabriel e Nicole in un Centro Sociale Educativo fino al raggiungimento della maggiore età. Non era male ma quasi tutti i ragazzi che vivevano con loro li ignoravano o li guardavano con sospetto, come sempre si fa con qualcuno che ha vissuto le tue stesse disgrazie.
Si ha sempre paura di essere capiti, compresi nel profondo. Che scusa si avrebbe, altrimenti, per giustificare le imperfezioni della nostra vita e la complessità del nostro animo? È meglio dire che non ci si capisce, meglio far finta che il mondo continui a girare solo per darci addosso, piuttosto che credere che si possa stare meglio.
A Gabriel, in effetti, non importava molto.
Aveva tanto altro a cui pensare. La scatola della sua vita era completamente vuota, eccezione fatta per sua sorella Nicole -che di anni ora ne aveva dieci e il sorriso da bambina l’aveva perso da tempo- e la rabbia profonda che sentiva dentro di sé.
La vita, per quelli come lui, era sempre un po’ più dura rispetto a quella degli altri. Quando guardava quella vecchia foto del cazzo con suo padre che sorrideva e si ricordava di sua madre stesa sul letto ubriaca, poi, era come se tutto esplodesse intorno a lui.
Il suo compagno di stanza, lì al Centro Sociale, si chiamava John e suo padre l’aveva picchiato fino a quando non era stato abbastanza grande da scappare di casa. John non era come gli altri del Centro e, anche se non gli dava confidenza e nascondeva le cicatrici sulle braccia con maglioni pesanti anche in piena estate, è uno apposto e a Gabriel piaceva parecchio.
Una volta la scatola di Gabe era così vuota e piena allo stesso tempo –rabbia, rancore, disperazione, mancanza- che lui si era chiuso in bagno e aveva dato un pugno allo specchio. Quello si era rotto in mille pezzi e Gabriel ci aveva giocato fino a che non aveva finito per tagliarsi anche lui. John lo aveva trovato così, seduto per terra con le mani sporche di sangue e la sua scatola di nuovo vuota –era così che funzionava. Lui accumulava tanta roba, emozioni, ricordi, sentimenti e desideri; fino a che la scatola non era piena fino a scoppiare e allora lui scostava un po’ il coperchio, per far uscire qualcosa. Ma alla fine gli sfuggiva via tutto, anche le cose positive, e la scatola era di nuovo vuota, lui era vuoto, e doveva ricominciare tutto da capo. Come il vaso di Pandora di quel libro sui miti greci che aveva letto nella biblioteca del Circolo- e allora gli si era avvicinato e gli aveva tolto il vetro dalle mani e glieli aveva messe sotto il getto dell’acqua corrente.
«Non so che problemi tu abbia» aveva detto John, dopo un po’ che se ne stavano così «Ma puoi uscirne fuori»
L’acqua era fredda, ghiacciata, e aveva pensato che John doveva sapere bene come lavare e medicare le ferite.
«Lo so, me la cavo» aveva detto alla fine, asciugandosi con un panno bianco.
John aveva stretto le labbra e Gabriel aveva capito che non gli credeva affatto.
 
Delle volte, quando si guardava allo specchio, Gabriel notava quanto fosse simile a sua madre. Aveva gli stessi capelli biondi, gli stessi occhi azzurri e lo stesso sorriso un po’ sghembo che gli spuntava nei momenti in cui meno c’era da essere allegri. Aveva lo stesso modo di aggrottare la fronte quando era perplesso e ai lati degli occhi si formavano le stesse piegoline che si formavano a lei –Nicole, il primo anno dalla morte della madre, passava ore sulle sue ginocchia a piangere e a sfiorargli il viso- e avevano persino le stesse fossette.
Delle volte, quando si guardava allo specchio, Gabriel vedeva riflessa sua madre. I capelli sporchi e bianchi alla radice, gli occhi azzurri spenti e vuoti, il sorriso un po’ folle di quando apriva la posta e ci trovava solo l’ennesima bolletta. L’aggrottare della fronte quando sua sorella le chiedeva dove fosse andato loro padre, se sarebbe mai tornato, e lei doveva sforzarsi di ricordare chi fosse quel padre di cui le chiedevano; quelle rughe ai lati degli occhi che le uscivano quando piangeva e beveva e si chiedeva se qualcuno l’avrebbe riportata a casa, le fossette che Nicole e Gabriel non vedevano più da quando erano stati sfrattati dal vecchio appartamento.
«Nicole, somiglio alla mamma?»
«Si, così tanto che delle volte...»
Nicole non aveva continuato, gli aveva poggiato un braccio sulle spalle e i capelli le erano scivolati in avanti –da quando non portava più le treccine? Da quanto tempo aveva smesso di essere la piccola Nicole? Da quanto aveva paura di lui?-.
«Hai paura di me?»
«No, Gabriel, non potrei mai avere paura di te»
 
La vita era una scatola vuota, pronta per essere riempita con storie, ricordi, avvenimenti e sensazioni. Gabriel, nonostante il suo indubbio lato poetico, non avrebbe saputo cosa metterci, dentro la sua scatola.
Poi, però, era arrivata Marina con quei capelli neri che le scivolavano addosso e quell’espressione vagamente tormentata che gli ricordava le eroine dei suoi libri.
Marina era un niente per nessuno –come lui, come John- e i suoi occhi erano finestre su un mondo che non li accettava e non li voleva. Aveva la bocca sempre corrucciata, le braccia e le mani sporche di inchiostro nero e il taccuino blu sempre a portata di mano; Gabriel la osservava di nascosto e cercava di non arrossire troppo quando lei se ne accorgeva.
Una volta era riuscito a leggere alcune frasi, a cogliere qualche parola scritta frettolosamente e con una grafia obliqua sulla pagina bianca: -Questo mondo è un isola di giocattoli rotti e dimenticati-; -Andiamo a cercare un posto migliore per giocare, ragazzo-; -Ti sei portata via tutte le risposte e io sono rimasta indietro-; -Verranno a prendermi, un giorno-.
-E’ come essere rinchiusa in una stanza buia, mi capisci? Passi tutto il tuo tempo a cercare di scorgere qualcosa nel buio, nel tentativo di non andare a sbattere da qualche parte. Poi all’improvviso si accende la luce e scopri che la stanza è completamente vuota, che la porta era aperta e che hai sprecato tanto di quel tempo che ora puoi solo scappare-
Marina aveva gli occhi perennemente truccati di nero, non sorrideva quasi mai, sembrava perennemente ammalata per quanto era pallida, eppure una volta gli aveva sfiorato la mano e Gabriel si era sentito in paradiso.
Un giorno si era detto che avrebbe potuto innamorarsi di lei.
Aveva finto di non accorgersi di come guardava John e aveva deciso che avrebbe riempito la scatola di lei. Di silenzi tesi eppure non imbarazzanti, di camminate in punta di piedi e di cose non dette e non capite, di amore che lo faceva rimanere sveglio nel cuore della notte, di tutte quelle stronzate giovanili che si fanno una volta sola e mai più e di rock’n roll.
Marina era il senso di tutto quello che gli era mai successo, come se tutto fosse accaduto in funzione sua –suo padre, le bollette, l’alcool, sua madre, la vita, la scatola, l’incidente, il Centro- e che tutto riconducesse a lei.
 
***
Giorni Di Cenere
(Barcellona, Marzo 1989)
 
Il giorno prima di compiere diciotto anni e di essere finalmente libero di lasciare il Centro, Gabriel andò nella vecchia stazione della polizia cittadina. Marina e John lo accompagnarono e sentirli accanto a lui lo fece sentire meglio.
Aveva chiesto di parlare con Roy Williams.
«E perché mai dovrei darti l’autorizzazione, ragazzino?» aveva domandato il poliziotto di guardia.
«Perché ha investito mia madre, signore»
Erano passati quasi quattro anni e il signor Williams, in cella per otto anni per guida in stato di ebbrezza e omicidio, era un uomo che andava sulla cinquantina con una espressione insolitamente pacata in viso. Aveva i capelli corti, la barba rasata e la divisa grigia non era troppo spiegazzata perciò Gabriel dedusse che non se la passasse tanto male lì dentro.
«Ha accettato di vedermi» disse, quando quello gli si sedette davanti, dall’altra parte del piccolo tavolo della stanzetta in cui i detenuti incontravano i visitatori.
«Non te lo aspettavi?» Williams inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia al petto. Non aveva per niente l’aspetto che Gabriel si era sempre immaginato. Più che un pirata della strada sembrava il direttore di una qualche barca importante, con quelle basette corte e il sorriso accomodante in volto «E dire che hai chiesto di me con tanta convinzione»
«Non scherzi con me»
«Cosa vuoi da me, ragazzino?»
Gabriel avrebbe voluto urlare che era già la seconda volta che lo chiamavano così nel giro di pochi minuti, che non era più un moccioso, che non lo era mai stato, che voleva delle risposte.
«Voglio sapere perché»
«Sono passati quattro anni, da che sono qui. Mi sembri un pochino in ritardo per pretendere delle risposte»
«Lei ha ucciso mia madre»
«L’ho fatto? »
«Non sarebbe qui, altrimenti»
«Chi può dirlo? Chi può arrogarsi il diritto di decidere il proprio destino?» Roy Williams si strinse nelle spalle e fece ciondolare il capo «Ah, la vita… beh, ragazzino, la vita è…»
«Una scatola, lo so»
«Stavo per dire imprevedibile»
Gabriel si alzò di colpo. Quando aveva deciso di andare lì, di guardare negli occhi l’uomo che aveva posto fine alla vita di sua madre e che aveva cambiato radicalmente la sua e di Nicole, si era persino preparato un discorso. Un discorso vano e vuoto, senza proteste e senza assoluzioni, solo una tiritera di parole e emozioni che avrebbe voluto confidare a sua madre e che, in sua assenza, avrebbe affidato al suo assassino. Ma, ora che lo guardava e lo trovava così… normale, diverso e indifferente… non trovava più la forza per dire nulla.
«Te ne vai di già?»
Gabriel non rispose nemmeno, già diretto verso la porta.
«Ragazzino. Ragazzino, aspetta»
Il signor Williams si alzò anche lui e il poliziotto che stava di guardia alla porta fece un cenno brusco con il braccio, intimandogli di rimanere al suo posto. Gabe si girò a guardarlo, sentendosi nuovamente stanco e vuoto.
«Si è buttata contro la macchina. Tua madre. Davvero. So che forse non avresti voluto saperlo e che questo non mi farà uscire da qui, ma non voglio degli orfani sulla mia coscienza. Non completamente, non del tutto, almeno» fece cenno verso il tavolino, come invitandolo a sedersi di nuovo accanto a lui, ma Gabriel non si mosse e alla fine lui continuò «Stavo andando veloce, è vero, ma era verde e tua madre era sul marciapiede. Ha aspettato che io arrivassi proprio davanti a lei e poi si è buttata sotto. Mi ha guardato negli occhi mentre lo faceva. Dio, ancora me lo riguardo quello sguardo. Me lo sogno la notte. Aveva dei begli occhi, veri? Come i tuoi, proprio di quell’azzurro che c’hai lì. Voleva morire, ragazzino. Glielo si leggeva negli occhi»
Gabriel uscì dalla stanza senza guardarsi indietro.
Fuori, appoggiati contro il cofano di una macchina nera lì parcheggiata, John e Marina parlavano sottovoce. Le loro mani erano intrecciate e i loro visi troppo vicini, ma Gabriel non ci fece nemmeno troppo caso. Quando si accorsero della sua presenza, si separarono di botto e bastò loro qualche secondo per guardarlo in faccia e capire che non era andata bene.
Marina fece una cosa che non aveva mai fatto, lo abbracciò. Fu una cosa veloce e dolorosa, come se milioni di aghi si fossero infilzati nella sua pelle al solo toccarla. John, invece, tenne lo sguardo basso e si limitò a battergli la mano sulla schiena.
Erano incasinati, pensò Gabriel. Erano così incasinati.
E la vita non era una scatola, era un casino.
«State con me?» chiese.
«Per sempre» disse Marina.
John annuì.
 
L’unica cosa di cui Gabriel aveva mai riempito la sua scatola erano state fottutissime illusioni.
   
 
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