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Autore: gingerspice    21/09/2013    1 recensioni
È il 1962 e Lei lavora per i servizi segreti.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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§

“Gradisce altro da bere, signorina Johnson?” l’hostess si china leggermente e con un sorriso smagliante.
Mi viene quasi da ridere ripensando a tutti i voli su cui sia mai saltata su: nemmeno in uno, nessuna eccezione, mi pare io abbia mai visto una giovane che mi servisse da bere e mi portasse una rivista che non fosse una taglia trentasei con i capelli perfettamente cotonati.
È certo che le reclutino per colloquio, estetico per lo più, visto che nessuna di loro parla il russo.
“No, la ringrazio” sorrido a mio agio, infilando i guanti color crema che mi arrivano al polso.
Accavallo le gambe e mi guardo in giro con annoiata curiosità. La prima classe dell’aereo è completamente gremita di uomini d’affari. Che vuoi farci, sono gli anni sessanta e loro credono di essere il successo dell’America.
Il personale di bordo procede a esaudire le richieste di ogni influente passeggero.
Non posso nemmeno immaginare cosa succederebbe se gli aerei smettessero di essere un mezzo elitario. Certamente si respirerebbe meno l’odore dei sigari aromatizzati.
Ci sarebbe meno spazio e molti meno foulard di seta.
Le hostess probabilmente nemmeno imparerebbero più i nomi della lista passeggeri.
Con tutta la pubblicità che contano di fare, già sento tra quarant’anni le famiglie del Queens eccitate per le vacanze di famiglia.
Il comandante annuncia l’atterraggio sulla pista e immediatamente il ronzio intorno a me aumenta, preso dalla foga metropolitana di dover scendere in fretta.
Mi alzo anche io, indossando il mio cappellino pillbox, vedendo ripetere il gesto a qualche signora dopo di me. Aspetto, anzi, che mi sorpassino lasciando una scia di profumo dai loro soprabiti a trapezio. Sfilano a seguito dei mariti nella loro perfetta emulazione di Jackie Kennedy, dal sorriso imbalsamato ai grandi bottoni di stoffa tondi delle giacche.
Lancio un ultimo sguardo all’interno della mia rigida borsetta e la inforco al gomito, dirigendomi al portellone aperto per lo sbarco.
“Arrivederci” “Le auguro un piacevole soggiorno” “Benvenuta a Washington”…
Tutto il personale rimane impettito in fila davanti all’uscita ripetendo le stesse formule a ogni passeggero che varca la soglia dell’aeroplano. Rivolgo anche io loro un sorriso e scendo le scalette fino a far toccare i tacchi sull’asfalto della pista.
“Ha bisogno di una mano, signorina Johnson?” sbuca all’improvviso indicando in modo affabile la mia valigia da viaggio il copilota. O ufficiale. Non ho mai saputo riconoscere il grado dalle tacche sulle spalline.
Mi sorride smagliante, sollevando il suo cappello, mentre camminiamo sulla pista. Avrà al massimo una trentina d’anni. Si capisce dall’aria vivace. Uno di quei ragazzi di buona famiglia del sud col sogno di evadere. Virginia. O forse Louisiana.
“Ce la faccio da sola, ma la ringrazio” non devo davvero sembrargli molto cordiale.
Se solo conoscesse il mio lavoro saprebbe che non necessito affatto di aiuto a sollevare una valigetta, né che la lascerei mai nelle incaute mani del primo arrivato.
“Io devo andare a destra” sorrido una volta oltrepassate le porte di vetro del nuovo aeroporto.
Stinge le labbra in una sottile linea di rammarico per poi indicarmi la direzione opposta.
“Io dal lato opposto. A presto …” si interrompe alla ricerca del mio nome.
Potresti passarci una vita intera a cercarlo.
“Ellie. Ellie Johnson” gli stringo la mano, prima di incamminarmi via.

§
 
Dopo poco meno di mezz’ora, apro la portiera del taxi con forza mentre la pioggia inizia a scrosciare potente su Washington. Attraverso velocemente la strada prima che il mio cappellino e la valigia si inzuppino ed entro spingendo con le mani inguantate sulla maniglia dorata.
L’interno dell’albergo ha un aspetto sontuoso, quasi matronale. Tutto il legno e il damascato restituiscono un sapore di britannico, come imbevuto nello scotch.
Mi dirigo svelta verso la reception, sfilando di dosso la giacca umida ormai.
“Ho una prenotazione per questa notte” dico guardando negli occhi l’ometto al di là del bancone.
“A nome?” chiede formale.
“Catherine Smith”.
Mentre richiudo la porta della camera alle mie spalle, ricordo ancora una volta la faccia dell’uomo alla reception: tra lo sbigottito e il furioso.
Possiamo addirittura guidare un’automobile e indossare i pantaloni, ma si stupiscono se prenotiamo una camera d’albergo da sole.
I conservatori del Nord sono i più accaniti. E le loro mogli le più adultere. Poveretti.
Getto uno sguardo sul mio piccolo orologio da polso e mi rinfranco di avere giusto il tempo necessario per togliermi di dosso questi abiti umidicci. Stringo il corsetto leggermente di più prima di infilare il mio stretto pullover cipria nella mia gonna a tubino.
Calzo i miei piccoli tacchi color tabacco che abbino al foulard olandese. Poi mi rifletto nello specchio e cerco di modellare la bombatura dei miei capelli per rinvigorire le punte all’insù.
Quando mi ritengo abbastanza impettita da poter sembrare una di quelle ragazze sulla copertina dei giornali che hanno cominciato a vendere a Times Square, faccio scivolare i guanti sulle mani ed esco in corridoio.
Una volta arrivata al bar dell’hotel, mi siedo su uno degli sgabelli del bar, facendomi servire da bere.
“Un foulard francese?” la voce alle mie spalle mi fa stirare le labbra in un sorriso saputo.
“Olandese” recito fluida, rimanendo di spalle.
Heldhaftig, Vastberaden, Barmhartig” risponde.
Il segnale.
Mi giro con lentezza verso la mia sinistra, dove ormai l’uomo si è accomodato sullo sgabello al mio fianco. Apro la borsetta e ne tiro fuori un piccolo pacchetto, mantenendo dei movimenti fluidi. Lo appoggio sul bancone facendolo strisciare sotto la mia mano nella sua direzione.
“I sovietici non sono bella gente. Per niente ospitali direi” esordisco con un tono spensierato e incurante. Decisamente inadatto all’argomento. Ma se dovessi parlare dei sovietici con il tono di qualcuno che ha incontrato i sovietici, di certo mi servirebbe un drink più forte di questo.
L’uomo non si scompone di un millimetro. Sfila il piccolo pacco incartato e lo infila con discrezione della tasca interna della giacca.
“Ottimo lavoro agente” mi guarda impenetrabile.
Deglutisco per poi limitarmi a un lieve annuire con il capo.
“Avrai capito che oramai non sei più solamente un corriere per noi” sorseggia il suo gin, lasciando la frase sospesa nell’attesa.
“Dopodomani a New York si terrà il ballo in onore del ‘New York Stock Exchange’, lo presiederà il presidente in persona. Ci saranno dei contatti serbi: sono dei servizi segreti russi. Fa’ in modo che non tornino a casa. Hanno del materiale compromettente per le mani” continua a parlare senza guardarmi, sfilando da una cartelletta delle foto identificative.
Sono due, hanno un’aria talmente iugoslava che sarebbe difficile confonderli.
Improvvisamente sento una sensazione di pesantezza mista ad ansia.
“Come faccio esattamente a ‘non farli tornare nel loro paese’?” chiedo facendo trasparire la minor preoccupazione possibile. Ride, in maniera consapevole e quasi divertita. Cattiva, ecco.
“Basta farli trovare al momento sbagliato nel posto sbagliato. Tieni, infilalo nelle loro tasche, nelle giacche o nei cappotti. Quello che ti pare, ma devono trovarglielo addosso” mi nasconde tra le mani un cilindretto di metallo chiuso da un tappo sigillato.
“Cos’è?” chiedo, infilandolo nella borsetta.
“Non ti importa cosa sia. Svolgi il tuo lavoro e appena lo avrai fatto va’ al bar a chiedere un ‘martini senza oliva’. Uno dei nostri capirà il segnale e verrà dato l’allarme” parla con un tono talmente pacato e inflessibile da sembrare addestrato per questo.
Richiudo la borsetta, per poi scendere dallo sgabello scolando l’ultima goccia di alcolico del mio bicchiere.
“Come faccio ad andare a quel ballo?” gli domando.
“Sarai invitata naturalmente” mi sorride compiaciuto.
“E chi sarò?”
“Martha Stevenson” scende anche lui dallo sgabello per poi indossare il suo borsalino e uscire.

§

Avevo rinunciato a tanto nella vita. Da ragazzina volevo diventare una donna moderna, valigia e passaporto. Mi sono imbevuta nell’illusione che andando via di casa, scappando a gambe levate dal South Dakota, potessi vivere un’esistenza libera e gratificante. E in parte è stato così.
Nessuna minuscola porzione di me, annebbiata ed esaltata dalla prospettiva, aveva pensato alle conseguenze quando, il maggio di due anni fa, mi ero ritrovata a stringere la mano a un uomo in valigetta e impermeabile.
 
“Si sta assumendo la responsabilità non solo della sua persona, ma anche della sua nazione. Sappia che non potrà uscirne come se tutto questo fosse un suo semplice capriccio per provare un brivido nuovo” mi avevano avvisata all’interno di una camera cementata di grigio, niente finestre o gingilli vari.
“Ne sono consapevole” avevo risposto secca.
“Dovrà eseguire degli ordini. Ogni missione è frutto di una lunga e accurata progettazione, calcoli, contatti. Se qualcuno sbaglia, non fa un semplice danno a se stesso. Siamo pedine che cooperano per il bene della nostra grande nazione” proseguiva l’altro uomo da dietro il suo fascicolo colmo di scritte.
“Lei non è più nessuno ormai” mi avevano sbandierato davanti la mia carta d’identità, per poi riporla in un contenitore di cartone.
“Mi sta dicendo che dovrò essere una mina vagante e diventare un fantasma girovago? Mentiamo e fingiamo per avvicinarci al nemico, abbastanza per demolirlo ma mai troppo vicini affrontarlo?” ragiono sulla linea di confine tra l’ammirato e il disgustato.
I due agenti seduti di fronte a me proseguono con i loro sguardi incolore, prima che uno dei due decida di alzarsi, seguito subito dall’altro, e di stirare le labbra da un lato.
Mi viene più vicino, piegandosi fino a raggiungere il livello del mio volto per poi parlare.
“È per questo che la chiamano guerra fredda”.
 
È da quel momento che ho cominciato a collezionare i visti di ogni nazione in cui sbarcavo, per non riflettere nemmeno un secondo su quante identità stessi invece accumulando.
L’adrenalina durante una missione e la consapevolezza di stare contribuendo al bene non mi hanno mai fermata, nemmeno davanti alla prospettiva sempre più nitida di un’esistenza paragonabile a un’ombra.
Solo in sprazzi nostalgici come questo, mentre infilo il lungo vestito da sera, mi concedo di incolparmi per aver venduto la mia esistenza in cambio di un’ambizione di cui non posso nemmeno raccogliere i risultati.
Mi guardo allo specchio: a vedermi hanno sicuramente fatto un buon affare. Nessuno sospetterebbe mai che un’appena ventiduenne, stretta in un abito scuro, con il suo maestoso e cotonato chignon e i suoi guanti che le sfiorano i gomiti, potrebbe mai essere un’infiltrata dei servizi segreti americani.
Una figlia esibita in occasioni mondane da un politico.
O una fresca moglie al braccio, pronta a sorridere affascinante ai soci del marito.
Si, a questo crederebbero.
Ho un solo giorno all’anno per incontrare i miei genitori, convincendoli di chissà quale impegnativo lavoro che mi trattiene lontana da casa, e in cambio non ho neanche una pistola. Mi viene quasi da ridere al pensiero.
Perfeziono il rossetto all’angolo della bocca, afferro l’elegante borsetta e ammicco al mio riflesso prima di uscire dalla stanza.

§

Avanzo nella sala con passo morbido e calcolato, sorseggiando dal bicchiere che ho appena afferrato da uno dei vassoi in movimento per l’ampio salone.
Li ho individuati. Così slavi da non poter essere confusi. In un angolo della sala, a parlottare tra di loro in tono tanto sommesso da poter sembrare solo un movimento di labbra. I capelli biondi e i lineamenti quadrati non possono mentire. Sono due, ma nemmeno la remota considerazione che siano due agenti sovietici frena il mio incedere preciso nella loro direzione.
Sono alla giusta distanza.
“Oh, mi scusi tanto” esclamo dispiaciuta, cadendo malamente su uno dei due.
Mi sorregge pronto con le sue braccia e immediatamente percepisco la robustezza di quel corpo che un misero smoking non serve a mascherare.
Velocemente, e con ancora una caviglia piegata innaturalmente a terra, faccio per aggrapparmi al suo petto, scivolando con la mano appena all’interno della giacca.
Mentre cerca sgraziatamente di sollevarmi dal busto, oramai il cilindretto di metallo è abilmente caduto nella tasca interna della giacca.
Mi apro in un’espressione rammaricata e mi scuso ancora, non appena mi rialzo con maestria.
“Non si preoccupi, signorina” afferma, distendendo finalmente il cipiglio intimidatorio.
L’altro, al suo fianco, non fiata una sola parola, ma dalla sua espressione rilassata non è difficile capire che mi abbiano scambiata per una maldestra signorina d’alta società, nulla di cui valga la pena dubitare.
Sorrido ancora congedandomi dalle loro statuarie e possenti figure.
Appena lo avrai fatto va’ al bar a chiedere un ‘martini senza oliva’.
Ripasso mentalmente. Poggio con sicurezza i gomiti sul piano marmoreo del bar, attorniata dal rumore del cristallo dei bicchieri; poi attendo che il ragazzo dalla giacca bianca al di là del banco si volti verso di me.
Eccolo. Disinvolto e leggermente spettinato.
“Un martini senza oliva” recito leggermente incantata nel suo sguardo per la sorpresa.
Poi lo vedo sparire per un istante. Avverto un crepitante movimento iniziare ad agitare l’aria. Segno che la missione è terminata. Non mi volto nemmeno per vedere i due serbi venire scortati fuori, ammanettati, talmente sono presa dal suo ritorno dietro al banco di marmo.
Ha avvertito la sicurezza in fretta.
Uno dei nostri capirà il segnale e verrà dato l’allarme.
Mentre lo vedo iniziare a prepararmi da bere con un furbo sorrisetto a increspargli le labbra sottili, ricordo.
Uno dei nostri.
Avevo sperato fosse lui.
Di nuovo.
Potevo aver venduto la mia esistenza, essermi legata a un gioco pericoloso, aver rischiato la vita tante volte. Ma non me ne sarei mai pentita fino a che, missione dopo missione, ogni volta avrei incontrato quel beffardo piccolo ghigno, quelle ciocche dorate e quello sguardo rassicurante.
Con la sua impertinente barbetta e i modi seducenti, mi passa un bicchiere dal liquido incolore.
“Bel lavoro, agente” mi guarda negli occhi mentre, poggiato anch’egli con i gomiti sul bancone, si avvicina e mi sfiora le labbra senza dare nell’occhio.
“Anche lei, agente” rispondo sorseggiando il martini.
Non pensavo sapesse anche preparare da bere.
Ripensandoci, non penso di sapere molto sul suo conto, fatta eccezione per il suo gusto di gelato preferito, l’allergia ai pistacchi e l’abitudine di essere mattiniero.
Non ho mai indagato sul perché anche lui, con a vista appena un paio d’anni in più di me, si sia fatto sedurre da questa faccenda più grande di noi.
Non ho mai indagato su quale sia il suo paese natale o su quante missioni abbia fino ad ora ha portato a termine.
Non ho perfino mai indagato su quale sia il suo vero nome.
Ma mi basta amarlo.
Ogni volta.
Che siamo Rosaline Wright e Lewis Hill.
Che siamo Louise Griffiths e Gregor Powell.
Che siamo Anne Thompson e David Clarke.
Siamo io e lui, i nostri veri nomi non contano più.





Note autrice:
Emozionante scrivere 'autrice', ma in realtà sono la colpevole del misfatto che avete appena letto.
Perché si, se siete arrivati fin qua giù devo ammettere che avete fegato!
Ma eccoci, la mia ultima prima settimana di scuola appena conclusa, un'antipatica morsa ad attanagliarmi lo stomaco e la voglia di pubblicare questa one-shot!
Ammetto che quella per gli anni sessanta, i cappellini pillbox e lo charme delle pettinature è una vera passione.
Per quanto riguarda ' Heldhaftig, Vastberaden, Barmhartig' ('valorosa, decisa, misericordiosa')  che ho citato, si tratta del motto di Amsterdam.
Spero sia riuscita a strapparvi almeno un sorriso con questa insensata, scelleratissima storiella.
Fatemi sapere cosa ne pensate! Please, please. Fatelo per la mia depressione da ultimo anno di liceo!
M. 

 
  
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