Ciao ragazze! Come potete vedere, sono
tornata a scrivere anche questa storia :D
Sono indietrissimo con la stesura del
capitoli e per questo mi sento molto in colpa, ma cercherò di impegnarmi :) ora
come ora do la precedenza all’altra mia long, che si sta dirigendo verso la
fine, ma questo non mi fermerà e continuerò a scrivere anche questa. Gli aggiornamenti
forse arriveranno più tardi, ma arriveranno, state tranquille ;)
Prima di lasciarvi al capitolo, come
sempre, vi lascio il link al mio gruppo Facebook – siete sempre le benvenute :D
Vi lascio anche un piccolo riassunto,
per ritrovare il punto della situazione…
1887:
Isabella Swan è una giovane ragazza italiana di umili origini, che insieme a
suo padre Charlie intraprende un lungo viaggio per raggiungere il Brasile,
luogo dove le condizioni di lavoro e di vita sono più alte.
Ad
attenderli, al loro arrivo, c’è un vecchio amico di Charlie, Carlisle Cullen. Lui
raggiunse il Brasile anni prima, quando era ancora un bambino, e nel corso degli
anni è riuscito a fare ‘fortuna’ e adesso è il proprietario di una grande
fazenda di caffè.
Carlisle
presenta loro la sua famiglia: sua moglie Esme, la figlia Alice e i suoi due
figli gemelli, Emmett e Edward…
Capitolo quattro
Bella
Fazenda ‘Paraiso’, 1° Marzo 1887
Mi
svegliai presto anche quella mattina, involontariamente: la forza
dell’abitudine, come si soleva dire. Erano rare le volte in cui l’abitudine mi
lasciava una piccola tregua e, quindi, mi lasciava dormire fino a mattino
inoltrato… ma quella, non sembrava essere una di quelle mattine.
La
finestra della mia nuova stanza, che avevo lasciato semiaperta la sera
precedente, faceva entrare una brezza fresca e leggera, molto piacevole,
accompagnata dalla luce chiara e caratteristica dell’alba. Non doveva essere
passato molto tempo dal suo arrivo.
Sorridendo,
scesi in fretta dal letto e altrettanto in fretta raggiunsi la finestra, spalancando
completamente le imposte subito dopo. Lo scenario che mi si parò davanti agli
occhi mi mozzò il fiato, per la bellezza che mostrava: un enorme mare verde
baciato dal sole del primo mattino, quello che ero sempre stata abituata a
vedere nella mia casa in Italia e che avevo così tanto imparato ad amare, e che
adesso potevo ammirare anche lì, in Brasile.
Respirai
l’aria della campagna, ancora più forte a quell’ora, e chiusi gli occhi. Non
potei fare a meno di sorridere, e con un rapido movimento mi issai a sedere
sulla soglia della finestra. Non era una mossa molto consigliata da fare, dato
che mi trovavo al primo piano della casa e che sarei potuta cadere grazie al
primo movimento brusco che avessi compiuto, ma non riuscii davvero a resistere.
Cullata
dal cinguettio leggero degli uccellini cominciai a sciogliere i miei capelli,
che avevo raccolto in una treccia prima di andare a dormire; li pettinavo tra
le dita, e di tanto in tanto gettavo una veloce occhiata ai campi di caffè, che
si andavano man mano popolando di gente. L’orario era mattiniero, sì, ma per
chi era abituato a lavorare la terra era il momento giusto per mettersi
all’opera.
In
campagna era così, si lavorava da quando spuntava il primo raggio di sole fino
a quando non se ne andava l’ultimo, dall’alba al tramonto, sfruttando tutte le
ore del giorno possibili; delle volte si era costretti a lavorare anche di
notte, e con il solo aiuto della flebile luce dei lumini.
Quando
mi decisi a ritirarmi doveva essere passato già diverso tempo: l’aria era
diventata più calda, il sole era più alto nel cielo ed il lavoro nei campi si
era intensificato, ed in più tutti i contadini avevano cominciato a cantare
qualcosa in portoghese. Mi sarebbe piaciuto moltissimo conoscere meglio quella
lingua per capire cosa stessero cantando… un motivo in più per cominciare ad impararlo
insieme all’aiuto di Alice.
Scesi
dal davanzale con un piccolo salto, decisa a prepararmi e a scendere al piano
inferiore. Volevo rendermi utile e aiutare nelle faccende di casa: ero
sicurissima che in una grande casa come quella ci fossero molte cose da fare, e
che una mano in più facesse sempre comodo.
Stavo
per chiudere la finestra, ma bloccai di colpo i miei movimenti non appena vidi
che qualcuno stava uscendo da casa e stava incamminandosi verso i campi di
caffè, stringendo qualcosa tra le mani; i riflessi rossi dei suoi capelli mi
fecero subito capire che poteva trattarsi di una persona sola…
Era
Edward, il figlio di Carlisle.
Rimasi
immobile ad osservarlo camminare, fino a quando la sua figura alta e slanciata
non scomparve dietro a un insieme di alberi. Per tutta la durata di quel breve
momento, qualche secondo o poco più, avevo trattenuto il respiro e il mio cuore
aveva cominciato a battere forte, come un tamburo, dentro al mio petto… le
stesse reazioni che avevo provato anche il giorno prima, quando lo avevo
conosciuto e ogni volta che avevo incontrato di sfuggita il suo sguardo.
Come
scottata, lasciai la presa sulle imposte della finestra e portai le mani alla
bocca, coprendola come se volessi far tacere un urlo, solo che urlare era
l’ultima delle cose che volevo fare in quel momento.
Era
ridicolo reagire così soltanto perché avevo visto passare Edward, senza contare
che, per me, lui era ancora uno sconosciuto. Avevamo scambiato solo poche
parole, sì, ma era tutto lì… noi eravamo ancora degli estranei.
Come
era possibile, allora, che la sua sola vista mi scatenasse dentro delle
emozioni e reazioni così… strane, e che non avevo mai provato in vita mia?
Una
volta che mi fui calmata, e dopo essermi finalmente vestita e pettinata,
abbandonai la tranquillità della mia camera e scesi al piano inferiore. Mentre
mi vestivo avevo sentito gli altri abitanti della casa parlare e camminare per
i corridoi, quindi ero sicura di non essere la prima persona mattiniera che
scendeva per fare colazione.
Beh,
non ero proprio la prima a scendere… al ricordo di Edward che scendeva nei
campi, le mie guance si accaldarono subito e le coprii istantaneamente con i
palmi delle mani. Aspettai qualche secondo prima di abbassarle, e lo feci solo
quando fui certa che il rossore fosse ormai sparito dalla mia pelle. Non potevo
essere davvero certa che fosse accaduto, ma comunque non potevo restare tutto il tempo
con le guance coperte.
Sarebbe
apparso strano, più strano ancora delle reazioni che avevo avuto.
Qualche
minuto dopo entrai nella cucina, scoprendola semivuota; erano presenti solo
Esme, che era seduta a tavola, e Sarah, impegnata a rimestare qualcosa in una
pentola che si trovava sul fuoco. Il dubbio che fossi scesa troppo presto si
insinuò nella mia mente.
«Buongiorno,
Esme.» dissi, avvicinandomi alla tavola.
Lei
mise subito da parte il pane che stava imburrando e si alzò in piedi,
stringendomi in un abbraccio. I suoi modi erano sempre così gentili e dolci,
ancora non ci avevo fatto l’abitudine… anche se era normale. Dopotutto, la
conoscevo da soli due giorni.
«Buongiorno
a te, mia cara. Hai dormito bene? Siedi qui vicino a me e mangia qualcosa, sono
sicura che avrai molta fame!» disse in fretta, indicandomi la sedia accanto
alla sua e invitandomi a fare come mi diceva con un bel sorriso.
Lo
feci subito, e lasciai scorrere lo sguardo sulle sedie vuote che circondavano
la tavola. «Gli altri non scendono?» la domanda mi sorse spontanea e non
riuscii a frenarmi dal dirla ad alta voce.
«Alice
scende tra poco, si stava preparando. Gli altri, invece, sono già andati tutti
a lavorare, anche tuo padre… ma non mangi, Bella?» mi chiese, dopo aver
lanciato uno sguardo al mio piatto ancora vuoto.
«Oh…
sì, certo.» afferrai subito una fetta di pane e il piattino della marmellata,
cosa che la fece sorridere soddisfatta.
Alice
ci raggiunse qualche minuto dopo, sorridente e allegra come solo poche persone
potevano essere al mattino presto. La gioia e la vitalità che emanava quella
ragazza erano incredibili, prima di lei non avevo mai conosciuto una persona che
fosse così felice in ogni momento della giornata.
«Buongiorno
mamma, buongiorno Sarah… ah, buongiorno Bella!» esclamò non appena si sedette,
afferrando una teiera e versandosi una generosa dose di tè.
«Buongiorno
tesoro.» replicò Esme, che prese la teiera dalle mani della figlia non appena
lei finì di versare la bevanda.
«Oggi
ho in programma moltissime cose: vorrei finire di sistemare il vestito celeste,
e per questo compito ho bisogno anche del tuo aiuto, Bella, voglio che lo
indossi per vedere come ti sta! E poi voglio anche cominciare qualche nuovo
centrino per il mio corredo… ah, e voglio già cominciare le nostre lezioni di
portoghese insieme!» disse velocemente prima di mordere un biscottino al burro.
«Tesoro,
non starai esagerando un po’ troppo? Potresti spaventare Bella!» la ammonì
scherzosamente sua madre.
«Ma
non la sto spaventando! Non ti sto spaventando, vero?» mi chiese, apprensiva.
«No
no, assolutamente no. Sono contenta di poter trascorrere un po’ di tempo
insieme a te, Alice.» dissi, sincera. Una volta superato l’ostacolo che
rappresentava l’esuberanza della mia nuova amica, non era così male stare in
sua compagnia.
«Avete
una giornata davvero molto piena, ragazze. Vi rivedrò solo durante i pasti
così!»
«Cercheremo
di finire prima, mi piacerebbe molto trovare il tempo anche per aiutare nelle
faccende domestiche…» iniziai a dire prima che Esme mi interrompesse, stupita.
«Non
essere sciocca, Bella, sei un ospite in questa casa, e gli ospiti non si
occupano delle faccende. Ci penseremo io e Sarah a quelle, come abbiamo sempre
fatto.» mi spiegò, pacata come sempre.
«Ma
a me piacerebbe molto aiutarvi! Stare senza far nulla, con le mani in mano… non
mi è mai piaciuto.»
«Oh,
va bene allora. Quando avrete finito di svolgere i vostri compiti vieni da me,
e se c’è rimasto qualcosa da fare sarai libera di occupartene.» posò una mano
sulla mia spalla, carezzandola piano. «Ma sono comunque dell’idea che non
dovresti occupartene.»
«Ma
non è assolutamente un problema, per me! Mi piace rendermi utile…»
«Oh,
insomma, quante chiacchiere inutili! Se hai terminato di mangiare, Bella,
possiamo andare ad occuparci dei nostri lavoretti! Dai, andiamo!» rapida e
scattante come una cavalletta, Alice fece il giro del tavolo e dopo avermi
presa per mano mi tirò su dalla sedia, portandomi via dalla cucina.
«Buon
lavoro, care!» ci gridò dietro Esme, divertita.
«Alice,
non correre!» esclamai mentre cercavo di starle dietro: si muoveva velocemente
ed io avevo già rischiato di cadere, inciampando nell’orlo del mio vestito.
«Ma
abbiamo così tante cose di cui occuparci! Dobbiamo muoverci!» Alice lasciò la
mia mano ma solo per potersi posizionare alle mie spalle e spingermi così lungo
il corridoio e lungo le scale che portavano al piano di sopra.
«Mi
farai cadere così!»
«No,
non cadrai, e se dovesse succedere ci sono io dietro di te, no? Non ti farai
del male!» ridacchiò, tornando a spingermi.
Cominciai
a ridere anche io: la sua vivacità era contagiosa.
«Sono
felice di conoscerti.» Alice scandì la frase parola per parola, facendomi
cogliere in questo modo suono e pronuncia, alzando gli occhi per qualche
istante dal suo ricamo.
«Sono
felice conoscerti.» ripetei, cercando di concentrarmi, ma mi sembrava di aver
sbagliato qualcosa…
«Hai
dimenticato una parola, Bella!» ridacchiò lei, facendomi notare l’errore.
«Diamine!»
da quando avevamo cominciato le nostre lezioni, che consistevano
semplicemente
nel formulare e ripetere frasi a caso in portoghese, non facevo altro
che
sbagliare. Eppure mi impegnavo. Sapevo anche di non aspettarmi
chissà quali risultati, visto che avevamo cominciato solo un
paio di ore prima, però...
Alice
rise di nuovo. «Non preoccuparti, è normale. Hai tutto il tempo di questo mondo
per imparare bene la lingua… e nel frattempo possiamo continuare ad usare
l’italiano, non è un problema.» disse, carezzandomi il dorso della mano con la
sua.
Le
sorrisi, riconoscente, e ringraziai il fatto che conoscesse benissimo
l’italiano: Carlisle lo aveva insegnato a tutti e tre i suoi figli, donando
loro una parte delle sue origini. Era stato un bel gesto, il suo.
Ma
per quanto fosse bello poter usare la mia lingua madre anche lì in Brasile,
dovevo a tutti i costi imparare il portoghese: era la mia priorità in quel
momento, non potevo continuare a non conoscere quella lingua. Mi ripromisi di
impegnarmi ancora di più, da quel momento in avanti.
Io
e Alice continuammo a parlare tra di noi, adesso usando l’italiano e l’istante
dopo usando il portoghese; era divertente, ma mi confondeva molto e, così,
spesso e volentieri mi ritrovavo a sbagliare pronuncia o parola, ripetendola
diversa da come l’aveva fatto invece Alice.
Ero
sollevata, un pochino, solo perché i miei errori si ripercuotevano sulla lingua
e non sul cucito che tenevo tra le mani. Parlavamo, e nel frattempo cucivamo:
fare entrambe le cose ci dava la possibilità di impiegare meno tempo e di
distrarci, di tanto in tanto.
Quello
a cui stavo lavorando era un semplice centrino di lino bianco, ricamato con un
motivo di rose; Alice, invece, stava sistemando gli orli e il busto del mio
nuovo vestito. Era stata molto contenta quando lo avevo provato per vedere se
mi stava bene, ma era rimasta un pochino delusa quando aveva visto che era un
po’ troppo morbido sulla pancia e sui fianchi: non pensava che fossi così
piccola di vita. Si era ripresa quasi subito dallo stupore e, armata di ago e
filo, aveva ripreso il lavoro.
Interrompemmo
le nostre faccende solo quando Sarah, carica di biancheria da lavare, ci
avvertiva di scendere perché si stava avvicinando l’ora del pranzo. Così
posammo i nostri lavori e scendemmo insieme. Alice mi prese sottobraccio e,
legate in questo modo, percorremmo il corridoio che ci avrebbe portate in
cucina.
Come
quella mattina, scoprii che saremmo state solo io, Alice ed Esme le uniche a
mangiare; la mamma di Alice ci spiegò che gli altri, impegnati a lavorare alla
piantagione, avevano fatto un salto per prendere un po’ di cibo e per portarlo
nei campi. Avrebbero mangiato tutti lì, per risparmiare tempo, e sarebbero
risaliti solo più tardi.
«Mi
sarebbe piaciuto molto salutare papà.» mormorai tra me e me, con lo sguardo
fisso sul mio piatto colmo di minestra. Non avevo ancora cominciato a mangiare,
cosa che invece Alice ed Esme avevano già fatto da qualche minuto.
«Già,
anche io volevo farlo… ma è sempre così, qui, non vedrai nessun uomo della
famiglia prima dell’ora di cena. Lavorano tantissimo, specialmente adesso che si
sta avvicinando il momento della raccolta!» si lamentò Alice, che aveva sentito
quello che avevo detto.
«Il
mese prossimo è quello più intenso, ma passa velocemente. Vedrai che da un
giorno all’altro ti lamenterai perché avrai i tuoi fratelli sempre tra i
piedi!» scherzò Esme.
«Oh,
ma io sono contenta se passo del tempo insieme a loro! L’importante è che
Emmett non mi faccia i soliti dispetti stupidi!»
«E’
così cattivo con te?» chiesi, mangiando finalmente un po’ di minestra.
«Non
è cattivo, è solo che a lui piace scherzare e divertirsi… ma a volte esagera.»
mi spiegò Alice. «Edward invece è più tranquillo, pacato, e anche lui alcune
volte non sopporta Emmett!» rise, spezzando un po’ di pane.
Edward.
Sentire quel nome scatenò dentro di me nuovamente le sensazioni che avevo
provato quella mattina, quando lo avevo visto scendere alla piantagione. Chiusi
gli occhi, cercando di calmare me stessa ed il mio cuore, che aveva cominciato
a battere forte.
Perché
mi accadeva tutto questo?
«Bella,
tesoro, sei ancora sicura di voler darci una mano nei lavori domestici?» Sarah,
che si era avvicinata al tavolo della cucina dopo essere rientrata in casa,
posò una nuova brocca d’acqua davanti a me. «Ho appena messo i panni bagnati ad
asciugare in cortile. Se vuoi, più tardi puoi raccoglierli e piegarli.»
«Lo
faccio con piacere, Sarah!» esclamai.
«Bella,
ma noi dobbiamo ancora finire di sistemare il tuo vestito!» mi ricordò Alice
alzando la voce.
«Tesoro,
non urlare! Potete fare entrambe le cose, basta che per l’ora di cena tornate
qui entrambe e non fate tardi.» Esme sistemò la situazione, versandosi l’acqua
nel bicchiere.
Più
tardi, terminato il pranzo, io e Alice tornammo di nuovo nella sua stanza. Non
appena chiusi la porta, però, lei mi si parò davanti guardandomi in modo
strano.
«Sai
che non sei costretta, vero? Voglio dire, ci sono la mamma e Sarah che si
occupano della casa, e qualche volta lo faccio anche io… non devi sentirti
costretta a farlo anche tu.» mormorò, stringendomi le mani.
«Ma
io non mi sento costretta, Alice! mi piace aiutare, l’ho sempre fatto, anche a
casa in Italia… lì, eravamo io e la zia ad occuparci della casa, e nessun
altro.» sorrisi, tranquillizzandola. «È come tornare a fare qualcosa di
familiare.»
«Oh,
d’accordo allora! Sbrighiamoci a finire le modifiche al vestito così poi
possiamo fare qualcos’altro!»
Fortunatamente,
i nuovi ritocchi erano giusti e non c’era bisogno di tornarci su un'altra
volta.
Da
sola, senza che nessuno fosse costretto a dirmi di nuovo dove si trovasse il
cortile, scesi e per fortuna lo trovai senza alcun problema. Era impossibile
sbagliarsi, dopotutto: una volta fuori casa eri completamente circondata dal
cortile.
Raggiunsi
il punto che mi interessava, quello che era riservato al bucato. C’erano i
panni che Sarah aveva steso in precedenza e che, grazie al sole cocente,
dovevano ormai essere completamente asciutti.
Era
così strano per me sentire tutto quel caldo nel mese di Marzo, quando invece
ero abituata a sentire ancora il freddo ed il vento pungente in Italia. Preferivo
di gran lunga questo clima a quello invernale, se dovevo essere sincera. Non mi
era mai piaciuto il freddo.
Mi
misi all’opera, smettendo di pensare, e con calma cominciai a prendere i
vestiti e le lenzuola dai fili del bucato, ripiegandoli e posandoli in pile
ordinate mano a mano che continuavo. Riconobbi alcuni dei miei indumenti e
quelli di papà, tra gli altri. Chissà di chi erano, se quella camicia bianca
apparteneva a Carlisle o se i pantaloni marroni fossero, invece, di Emmett.
Pensavo
e sorridevo, non potevo farne a meno.
Avevo
quasi finito di raccogliere tutto il bucato quando Sarah venne a controllarmi.
«Pensavo
che avessi bisogno di una mano, ed invece hai già finito!» esclamò divertita.
«Non
ci è voluto molto…» mi giustificai, anche se sapevo che non c’era bisogno di
giustificarsi.
«Ti
do una mano a dividere i vestiti, va bene? Così poi li portiamo nelle stanze
dei proprietari.» mentre parlava aveva già cominciato a dividere i vestiti in
diverse pile.
Pochi
minuti dopo, piena di vestiti che tenevo tra le braccia, entrai in casa e salii
le scale per posarli nelle stanze che mi aveva indicato Sarah, quelle dei
fratelli Emmett e Edward. Sperai solo di non lasciare i vestiti sbagliati nelle
camere sbagliate.
Dopo
aver lasciato metà dei vestiti in una camera uscii e mi diressi verso la
successiva, che si trovava proprio di fronte a quella che avevo appena
lasciato. Entrai senza bussare e, lasciando la porta socchiusa, mi voltai per
posare gli abiti sul cassettone ma mi fermai, vedendo che non ero da sola nella
stanza.
Sussultai
e lanciai un piccolo urlo, voltandomi di scatto per evitare lo sguardo
dell’altro. Sentii le guance scaldarsi per l’imbarazzo mentre chiudevo gli
occhi; avrei dovuto bussare prima di entrare, e mi stavo pentendo della mia scelta
di non farlo…
«Ehi,
va tutto bene?» la voce tranquilla e pacata di Edward mi raggiunse, facendomi
capire che non era arrabbiato per via della mia intrusione nella sua camera.
Mi
voltai, mantenendo però lo sguardo basso; mi vergognavo, e il fatto che Edward
fosse nella stessa stanza insieme a me senza camicia rendeva ancora più forte
il mio imbarazzo. Non avevo mai visto un uomo a petto nudo, mai.
«Avrei
dovuto bussare, mi-mi dispiace…» balbettai, confusa.
«Non
è successo nulla di grave, non giustificarti.» cercava di tranquillizzarmi, e
sentii i suoi passi avvicinarsi a me.
Deglutii
a vuoto, confusa a causa della sua improvvisa vicinanza e dei suoi modi
tranquilli. Alzai finalmente lo sguardo e mi tranquillizzai un pochino quando
vidi che aveva indossato la camicia; la teneva aperta, ma almeno era più
coperto rispetto a prima.
«Sono
passata a… lasciarti i tuoi vestiti…» mormorai, alzando di poco le braccia per
mostrarglieli.
Edward
sorrideva, ma non capii se lo faceva perché era divertito per il mio imbarazzo
o lo faceva semplicemente perché era abituato a farlo. «Dalli a me, ci penso io
a posarli. Grazie.» disse, prendendo gentilmente i vestiti dalle mie braccia.
«Senti,
Edward… è tornato anche… mio padre?» domandai incerta. Non volevo mostrarmi
così insicura ai suoi occhi, ma non riuscivo a calmarmi. Era la sua presenza
che mi rendeva così nervosa…
«No,
non ancora. Io sono andato via prima perché volevo leggere un po’ prima di
cena.» mi spiegò, sempre sorridendo. Mi piaceva il suo sorriso.
«Oh,
ho capito! Grazie mille, adesso… vado giù, si.» vergognandomi a morte, agitai
velocemente la mano in segno di saluto e altrettanto velocemente uscii dalla
camera, sbattendo forte la porta alle mie spalle e non dando il tempo a Edward
di potermi salutare.
Corsi
verso le scale e, una volta lì, mi fermai per sedermi su uno dei gradini.
Cercai di riprendere fiato e di calmarmi, sentivo il respiro accelerato e il
cuore battere forte. Posai le mani sul petto e rimasi così, seduta, per non so
quanti minuti ad aspettare.
Mi
sentivo indifesa e scombussolata, non riuscendo a capire la natura di quelle
strane emozioni che facevano la loro comparsa solo quando mi trovavo accanto a
Edward, o sentivo parlare di lui.
Stavo
forse diventando pazza?
_________
Siamo ancora agli inizi, ancora un po’
di pazienza e cominceremo ad entrare nel vivo della storia :).