Prologo: Quel Giorno
La morte non è una cosa così grave; il dolore, sì.
André Malraux, La speranza
Il sangue le colava dalle ferite, e il labbro spaccato le doleva.
Le gambe aperte, piene di lividi come il suo corpo, e i brandelli della sua divisa che la circondavano.
Rangiku sospirò e una nuvoletta bianca comparì. Non aveva più la forza per piangere, aveva pianto troppo, non aveva più la forza per urlare, non era servito a niente, non aveva più la forza di muoversi, tutto era stato inutile.
Sentì un fruscio, ma non girò la testa per vedere chi era.
Sono tornati? Pensò solamente.
I passi leggeri sulla neve. Non potevano di certo appartenere a quegli uomini.
Due occhi di un azzurro incredibilmente chiaro la fissarono, un azzurro affascinante, sfuggente quanto lo stesso sguardo.
Quegli occhi appartenevano a un ragazzo dai lineamenti affilati, anch’essi inafferrabili, i cui capelli erano tanto chiari da apparire argentati.
Quei capelli gli ricordarono un serpente, uno di quelli delle leggende che aveva spesso sentito, quelle sui serpenti bianchi.
Lui la osservò.
Che begli occhi. Sono come il cielo d’estate. Pensò Rangiku.
Il suo sguardo azzurro la trafisse, diceva tutto e niente.
Rangiku non si mosse. Ed il ragazzo si accucciò, appoggiando la testa sulle ginocchia, inclinandola leggermente.
Nuvolette si formavano nell’aria grazie ai loro respiri.
Poi il ragazzo si tolse il giubbotto di dosso, che era di un nero scuro, e glielo appoggiò sul corpo, coprendola.
Pensa che io abbia freddo? Pensò Rangiku.
Poi se ne andò. Che strano. Pensò Rangiku che, dopo qualche minuto, si alzò, piangendo e stringendosi in quel giubbotto.